Il problema dei migranti che a migliaia lasciano le terre d’Africa per raggiungere l’Occidente, con quel che comporta di vicende disumane e di vittime, è ormai diventato preminente nelle cronache giornaliere, si da rendere marginale ogni altro problema che riguardi la vita civile e politica dei nostri paesi. E fa un certo effetto notare che, difronte ad esso, poco si sente la voce degli intellettuali, scrittori e filosofi, come se questi siano ormai divenuti avulsi dalle impellenze della realtà storica e rimangano legati solo alle cure più o meno redditizie dei loro titoli editoriali. Per cui emerge come particolarmente interessante qualche eccezione. Notevole quella di Donatella Di Cesare, figura di rilievo nel panorama della speculazione contemporanea, che giorni fa con un articolo sul Corriere affrontava con intelligenza critica il detto problema e sollecitava un dibattito che, tra intellettuali, è proprio quello che manca e che invece farebbe piacere instaurare.
Intanto bene rilevava la Di Cesare che le voci degli intellettuali oggi non trovano risonanza perché trionfa il frastuono dei seminatori di opinioni per la faciloneria televisiva; e perché i giornali danno le prime pagine piuttosto al cantante o al calciatore anziché al filosofo (già anche l’articolo della Di Cesare su quel Corriere, che s’è tanto sbrodolato per Ronaldo, stava collocato in zona marginale). Ma il fatto è piuttosto che gli intellettuali si fanno sentire poco in quanto non trovano più tanto stimolo al confronto pubblico e non sanno più determinare il grido che scuote. Oggi non possiamo vedere un nuovo Russel che sieda sui marciapiedi nella rivolta in corso o un Sartre che concepisca il Manifesto rivoluzionario; eppure la situazione epocale non è meno drammatica di quella degli anni ’60, anzi lo è di più perché, mentre è addirittura un’idea del mondo che viene messa in crisi, la civiltà occidentale non ne sembra consapevole e pare ferma a vivacchiare a margine sui problemi di pil e delle percentuali di crescita.
La tesi fondamentale dell’articolo in questione era poi nella negazione di un diritto di proprietà delle terre abitate da parte dei popoli civili, per cui sarebbe illegittimo escludere l’altro, e cioè l’immigrato che chiede o pretende ospitalità. I cittadini di un determinato territorio costituirebbero un loro luogo esclusivo che sarebbe lo Stato, il loro Stato, e intendono chiuderlo a proprio vantaggio in nome di un diritto arbitrario. Per cui oggi il fenomeno migrazione è costituito dallo scontro epocale tra una vecchia concezione di stato e l’idea moderna e necessaria della condivisione del globo tra tutti gli umani, senza discriminazioni, senza limiti. E’ evidentemente una tesi di tutto rispetto, alla quale si potrebbe però opporre la riflessione che l’idea di un recinto di appartenenza, stirpe o genere e quindi nazione, è nata con l’uomo, è nel suo istinto trovarsi nell’esistenza col bisogno di difesa e di distinzione, per casualità irriflessa, sicché bene disse il poeta Quasimodo: “ciascuno grida la sorte di una patria”. Evidentemente resta sempre da distinguere il diritto o meno di escludere, dall’obbligo o meno e dalla volontà di ospitare.
Siamo comunque nell’ambito di una tematica di alto profilo, indispensabile a vedere il problema migranti nella gravità in cui va studiato prima di essere opportunamente affrontato sul piano pratico. Perché su questo invece ormai ci si è buttati a chi la dice più grossa, senza che nessuno abbia una proposta concreta che ne tocchi l’essenza attuale: come smantellare l’affarismo che prospera sul dramma di chi emigra. E siamo all’intollerabile: un dualismo gratuito tra pietismo dell’accoglienza e calcolo politico del rifiuto o meno. Con una specie di gara tra chi, seduto nella comoda poltrona del proprio benessere, dice la sua. Prendiamo, ad esempio, l’affermare di quel Boero dell’Inps: senza i migranti si rischia di non potere più pagare pensioni. Per cui, quando arrivano sui barconi masse di bambini abbandonati e donne incinte semisvenute vuol dire che questi gioveranno ai conti della Previdenza sociale? Sappiamo infatti che gli extracomunitari, quando sono integrati, gonfiano un po’ l’Inps, ma oggi è di questo che discutiamo? Non stiamo parlando invece di un’inarrestabile tratta di esseri umani, derubati, torturati, gettati allo sbaraglio e alla probabile morte in mare dalle organizzazioni criminali, con la rete di supporti, che occorre fermare? O perlomeno contenerne i flussi o tentare di regolarli? Qualcuno ha avanzato qualche idea utile allo scopo? Ed anche i Vescovi, che trovano facile recriminare, sono a posto se poi aggiungono, com’è accaduto, che loro non hanno soluzioni? A nessuno, per dirne una, è venuto in mente, magari tramite i missionari, di diffondere nei paesi di fuga grandi foto dei barconi che si rovesciano o dei naufraghi stremati o di quelli disperati, respinti ai confini, perché con l’informazione si contrasti l’inganno del partire, che vuol dire tutt’altro che incontrare pietà e futura felicità? Nessuno, oltre che suggerire cosa occorre fare per intervenire nei luoghi di partenza dei naufraghi, sappia anche dire il come, consapevole delle concrete difficoltà d’intervento e della bieca avidità dei dittatorelli d’Africa.
Nei giorni scorsi pure un noto settimanale cattolico affrontava il problema migranti con una copertina frutto di polemica volgare e di molta approssimazione intellettuale. Perché si può manifestare quanto si vuole una qualche antipatia politica, specie contro un Salvini, duro ma propositivo, però purtroppo il problema migranti ormai si è fatto talmente incisivo sulla tenuta futura del sistema economico occidentale che, o si hanno concrete, diverse e coraggiose proposte per trattarlo, e appunto sul come, o è meglio stare zitti. Del resto il silenzio sofferto, per i cristiani seri, è anzitutto coscienza dei limiti umani, cioè dell’essere a volte inadeguati rispetto all’imponderabilità dell’accadere.
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