Di questi tempi la Sicilia assurge ad importanza come non mai: occupa le prime pagine dei giornali e i primi spazi televisivi a causa dei soliti politici che dichiarano, tramano, convergono e litigano tra mille sotterfugi in vista dell’imminente tornata elettorale per eleggere il nuovo parlamentino e il nuovo governatore della Regione. Perché la Sicilia al voto è considerata spia rivelatrice del futuro della politica nazionale. Ma è da ritenere che gli Italiani ne siano piuttosto sorpresi, in quanto tutta questa importanza forse non la vedono, avvezzi a considerare la Sicilia come un problema del paese, vuoi per faccende di mafia vuoi per le sue note di arretratezza, a parte le benevoli considerazioni estive per i suoi monumenti e le sue spiagge, ma sempre con qualche riserva circa l’ordine e la pulizia dei luoghi. Sicuramente non la vedono i Siciliani stessi, vaccinati circa le promesse di progresso della politica dall’atavico cinismo gattopardesco, e soprattutto perché essi vivono e toccano con mano la realtà di sempre.
Sentono dire dal governatore uscente che sono stati fatti grandi progressi, che sono state sanate le finanze, assestata la sanità, finanziate centinaia di opere pubbliche; ma sentono pure dire che la Regione non ha più un soldo da spendere e gli uffici non possono comprare neanche la carta per le fotocopie; sanno che questa beneamata Regione, è campo di ogni spreco, coi suoi impiegati che prendono lo straordinario anche se non hanno nulla da fare, per la solita mancanza di fondi, con una selva di dirigenti strapagati, senza contare i privilegi economici scandalosi dei suoi deputati, che tutto sommato gestiscono solo il loro piccolo potere.
Sanno bene i Siciliani che la loro Regione è nel fondo della classifica nazionale circa il tenore di vita civile, che ivi la disoccupazione è al massimo della percentuale, che ivi chiudono a ripetizione negozi e imprese, che poco si riesce a fare contro il degrado diffuso (frane, crisi idriche continue, interruzioni di già insufficienti strade, inefficienza e pure soppressione di treni e mezzi di comunicazione, abbandono delle campagne e impedimenti alle sue risorse agricole), poco si fa contro il persistere endemico di una mentalità mafiosa specie nei paesi e nelle periferie cittadine, che non è solo quella dei clan degli affari e dei delitti, ma è quella dell’assuefazione a poggiare sull’amico che conta, senza il quale, se hai bisogno dell’ospedale, crepi in qualche lurida astanteria, se devi sbrigare una pratica, ti perdi in un labirinto di attese e di rinvii.
Si sa, da un lato, che la Sicilia non riesce a liberarsi da una tradizione storica che fin da Giolitti la vede non come terra singolare, coi suoi problemi specifici da risolvere, ma come luogo d’occasione per esperimenti e anticipazione di potere della politica nazionale, cui essa fa da supporto e a cui resta succube, ricavandone contentini ed elargizioni perché sopravviva come tale. E come tale sono destinati a mantenerla i suoi “deputa tini” che a tal causa sono di volta in volta sostenuti da Roma.
Dall’altro lato la Sicilia resta luogo dove è più radicato che altrove il cattivo rapporto cittadino-stato, nel senso che lo Stato, nel caso la Regione, cioè l’Ente pubblico, ha valore e si considera solo per quanto lo si possa sfruttare. La Regione siciliana insomma non sta tanto a sostegno dell’impresa, ma sarebbe essa stessa impresa: essa vive per dare posti e sovvenzioni o finanziamenti; e, se le capita di dovere regolare qualcosa secondo canone del diritto amministrativo, essa è esercizio di una burocrazia per lo più superflua che fa perdere tempo e voglia. Succede questo, è vero, anche nel resto d’Italia, ma in Sicilia è vizio più radicale, di tradizione borbonica.
Ora, difronte a questo panorama, un rinnovo del governo regionale con la relativa composizione di una nuova Assemblea, può davvero far sperare qualcosa? Intanto nel battibeccare che si fa tra politici, parimenti di destra o di sinistra, ansiosi del voto, si erge qualche voce che parta da un’analisi dura e spassionata su come stanno le cose che si vorrebbero affrontare? E chi sarebbero i protagonisti di una possibile svolta positiva della realtà siciliana? Si evidenzia qualche personalità di spicco che possa intendersi come capace di una politica siciliana di rottura vivificatrice?
Purtroppo si sente parlare di candidati, che saranno magari degnissime persone, ma si propongono, da Roma a Palermo, come la solita emanazione di partiti e partitini che ormai da tempo non hanno più plausibile significazione, i cui capi hanno definitivamente trasformato la politica delle idee, della necessità pubblica, in politica del leader gestore del suo clan, in cerca solo di potere. Un potere ovviamente non per “fare” ma solo come fine, a sostegno del suo starne a capo. E’ la condizione di degrado di una democrazia logora, i cui protagonisti celebrano elezioni con ritualità e linguaggio di convenienza; in quanto, se fino a qualche decennio fa c’era ancora chi un po' curava cultura e prestigio del governare, oggi appaiono per lo più come sottoprodotto di accomodo di una politica che la gente ormai stenta a capire e tanto meno a giustificare. Ed ha ragione talvolta a snobbarla, come per volerla salvare.
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