Quando si sente parlare di cultura, a chi pensa di avere a che fare con la cultura, bisogna dire che anzitutto bisogna guardarsi dalla cultura come la intendono i politici o che viene promossa dalla politica. Sia perché la cultura muove in primo luogo da un’esigenza di libertà cui i politici, inquadrati nelle loro idee, non sono avvezzi; sia perché la politica che si picca di fare cultura, in genere non ha sufficienti doti di scelta e, avvezza a puntare sul ritorno immediato di immagine, difficilmente comprende che il meglio della cultura è per lo più dove c’è meno appariscenza e più riservatezza. Infatti la vera cultura risiede in chi è da scoprire e non in chi è avvezzo a proporsi.
Si comprende che a volte la politica ricorra alla voce cultura quando registra in altri campi insuccessi e impotenza, ritenendo che su quella voce non ci siano contrasti e opposizioni, e si comprende che, come nel vecchio mecenatismo, la politica senta anche il bisogno di essere solerte nelle vicende culturali. Ma, purtroppo non siamo nel mondo del Rinascimento quando i principi ricercavano attraverso gli artisti e gli scrittori lustro al loro potere ma soprattutto splendore ai luoghi di esso, quando oltretutto avevano gusti raffinati e senso di rispetto verso il genio altrui; oggi invece i nostri politici-principi sono facili a celebrare il primo che capita tra le loro frequenze, il che sa perciò pure di politica, e in quanto a profonda sostanza culturale non sogliono andare per il sottile, anche se qualcuno di essi potrebbe.
Una delle caratteristiche dell’inganno del far cultura come patrocinata dai politici è quella di spendere e spandere per le cosiddette tradizioni: e così ci si impegna a profusione per le feste paesane. Si è convinti in questo modo che la gente sia contenta e tanto approva e vota un sindaco quanto più chiassosa sia stata la festa che ha sovvenzionato. Ma c’è anche l’assegnazione di cifre, a volte scandalose, che riguarda teatri, teatranti, promotori di festival e di premi dall’intitolazione peregrina, utili soprattutto a mantenere in piedi istituzioni fantasma, che fanno capo ai soliti agganciati con l’assessore, anche questi legati al borsino non della cultura ma del beneplacito politico-popolare.
Evidentemente non s’intende contestare che anche le tradizioni siano componente culturale di un luogo, né ci si scandalizza , per esempio, che a Palermo si celebri il costoso festino della Santuzza, o che si dia qualche aiuto a chi fa teatro soprattutto amatoriale; magari si osserva che certe spese in tempo di crisi andrebbero limitate e le scelte assessoriali dovrebbero essere più oculate; ma si ritiene necessario avvertire che spesso quanto si celebra come cultura a ridosso della politica non solo nasconde fini errati, ma rischia di non soddisfare la domanda di cultura quale fattore d’incremento della civiltà, trascurandone i sensi alti e problematici, perciò limitandosi ad ovvie faccenduole intese come culturali.
La cultura rionale va pure bene, ma che non si confonda con la cultura che è segno del tempo in cui si vive e che tutta comporta la inquietudine dell’esistenza umana nella temperie storica in cui ci si dibatte. Si sappia insomma che la cultura non è lo spasso, ma l’impegno a comprendere la nostra condizione nella detta temperie ed è ricerca del ruolo che l’uomo d’oggi può e deve assumere nella metamorfosi dell’attualità. Se ne abbia consapevolezza, sia sul piano storico-sociale, sia su quello etico e filosofico. Il che implica anche l’andamento delle cose politiche e la condizione del proprio habitat.
Questo si dice perché poco si vede promuovere in tale dimensione e poco chi dice di fare cultura lo si trova poi disposto ai temi che costituiscono la base dell’avere a che fare con la vera cultura: laddove cioè sono la ricerca della felicità e, soprattutto, la scelta appunto di una posizione nell’evolversi bene e male dei meccanismi del tempo, tra ciò che si disfà e ciò che si affaccia incerto nell’orizzonte esistenziale.
Si vede montare spettacoli, si produce cinema, si scrivono romanzi e si pubblicano versi a iosa, ma non c’è luogo ove si senta alzare qualche voce che richiami ad una cultura di riferimento; né emerge figura che ricordi la necessità di una filosofia del tempo.
E’ quanto angustia il pensiero di chi proviene da un umanesimo perenne, facilmente ripudiato, nell’illusione che l’ubriacatura tecnologica sia compensativa quando è solo distruttiva e produttrice di barbarie.
Chi vive a Palermo poi ha modo di aggiungere altre considerazioni. In questa città la cultura, stando ai pur asfittici mezzi di pubblicistica, sembra sia polarizzata da un ideologismo residuo in voga tra soliti addetti e i soliti scambi e, per lo più, è un tipo di cultura che vuol poggiare su un sicilianismo caricato, ove la volgarità fatta stantia la s’intende come valorizzazione del sociale o comunque frutto di spiritosaggine e di furbizia popolare; quando non ci s’illude di ottenere con essa effetti drammatici o pirandelliani.
Ci torna utile per illustrare questi concetti il riferimento ad un recente film firmato dalla regista Emma Dante col titolo Via Castellana Bandiera. Ebbene, è un’opera che consiste tutta in una trovata, due macchine si fronteggiano in un vicolo senza via d’uscita e nessuna delle conducenti intende cedere e tornare indietro. Da qui si dà luogo a scene, dialoghi, con personaggi scamiciati e insolenti che tutto dovrebbero rendere la vita e le storie significative di un ambiente; invece restano solo un agglomerato di volgarità puzzolente su cui s’insiste, che non si scioglie in originalità rappresentativa né ha sviluppo alcuno in senso narrativo (rileggere quel che accade in via Del Corno nel romanzo di Pratolini, dove cioè c’è sostanza di personaggi e di storia), e delude del tutto in quello metaforico, giacché anche l’unica scena buona, quella finale della corsa del popolino verso il nulla, risulta poi troppo costruita per la ripetitività.
E’ ovvio che tali osservazioni negative sul valore dell’opera della Dante possono non essere da altri condivise, ma il punto è che qui si è voluto ricorrere ad un esemplare di eccesso di celebrazione quale a Palermo si suole riservare ad un prodotto culturale che sa ancora di realismo che si morde la coda. Mentre è da tempo che si auspica che in questa città ci si renda conto come a soddisfare il concetto di cultura in senso più aperto, sincero e progressivo, ci sia anche dell’altro. Per non restare sempre indietro e per non parlare a vanvera di capitale della cultura.
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