Della parola “cultura” di questi tempi ci si riempie facilmente la bocca. E fa impressione sentirla pronunziare in quegli ambiti pubblicistici o politici in cui di cultura sembra non si abbia chiaro il significato, specie quando in realtà ciò che è cultura viene snobbato come qualcosa di cui si può fare a meno. D’altronde il sostantivo “cultura” si presta ad una sì larga varietà di aggettivazione, per cui il suo senso può essere inteso o travisato a piacimento. Esemplificando e chiarendo, se si vuole indicare l’insieme delle forme di vita e le istituzioni di una società può parlarsi di cultura latino-classica, di cultura cattolica o islamica, e così via; se si vuole invece riferirsi a un sistema di conoscenze o di erudizione, si ha la cultura filosofica, letteraria o scientifica. Sul piano pratico il concetto che va più in uso riguarda il suo etimo d’origine: coltivare. Cultura dunque è dedicarsi, prendere in particolare considerazione, evidenziare con studio un qualche elemento della conoscenza circa le arti, il pensiero, l’agire nella sfera speculativa e del giudizio, o nella creatività dell’uomo non come soggetto a se, ma come entità volta a incidere in un contesto di pluralità.
E qui appunto, cioè in quella che dev’essere la pratica della cultura, viene fuori l’incongruenza che spesso caratterizza l’ufficialità della cultura nei nostri giorni. Lo riscontriamo infatti quotidianamente allorché si propongono progetti ed eventi, per i quali si vogliono particolari attenzioni e sovvenzioni e che però risultano legati agli interessi di individualità di settore, i quali con le sovvenzioni sono avvezzi a campare. Ad esempio, chi fa teatro e nel teatro esercita le sue competenze e la sua passione, pretende che tutti considerino il suo far teatro la forma di cultura assoluta, senza la quale la società in cui vive cadrebbe nella barbarie. Così chi fa cinema e così chi suole organizzare mostre o manifestazioni musicali o letterarie, delle quali ormai qualsiasi paese e paesello si fa vanto, e sempre ad opera di qualche personaggio o di un gruppo che riesca ad aver peso nei relativi assessorati regionali o comunali o provinciali. Evidentemente non si dubita che il coltivare le varie forme d’arte, cioè che la cultura abbia spazio, sia necessario per un’entità civile e non debba anche essere patrocinato, ma bisogna in ogni caso considerarne i limiti e le opportunità, soprattutto che non s’inganni la comunità allorché viene indiscriminatamente tassata; allorché in definitiva il favorire gli operatori della cultura non sia favorire personalismi, lontani dall’interesse generale della comunità stessa.
La cultura non riguarda le fisime, i tic o il bel vivere di un regista o di un impresario, o l’estro di chi è a capo di un ente per opportunistica scelta politica e che suole bussare alle sovvenzioni, al sostegno del denaro pubblico e che, se per caso trova diniego, grida forte allo scandalo della negazione della cultura. Perché l’esercizio degli interessi culturali individuali è libero e legittimo, ma se va ad investire genericamente un pubblico a nome della cosa pubblica, deve perlomeno sottostare a delle norme essenziali: che ciò che si propone come cultura abbia una funzione pubblica espansiva; che ogni realizzazione sia compatibile nel contesto in cui si opera. Quindi, sempre esemplificando, se un teatro non riesce a mettere a punto la programmazione pensata dal suo manager per limiti finanziari, a fronte delle proteste, occorre senz’altro domandarsi a chi andrebbe tale programmazione, perché ciò rientra nella saggezza distributiva del denaro pubblico. Giacché, come accade a Palermo, un teatro frequentato per lo più da una media borghesia benestante non merita certo più attenzione di tanti bambini cui si nega l’asilo per mancanza di fondi. Perciò va bene fare cultura da parte di chi la considera a sua immagine e somiglianza, ma la cultura che non comprende uno stato di crisi come quello attuale, credendo di poterne stare fuori, e che non sa reagire con forme adeguate ( per il teatro, ad esempio, ci sarebbero a poter supplire dignitose compagnie amatoriali che magari non hanno spazio), non è cultura, è sistema di sostegno ad interessi privati.
E visto dove è caduto il nostro discorso, ci viene di pensare alla vicenda politica regionale in corso, ove il neoeletto presidente della Regione siciliana, in vena di novità d’effetto, ha deciso di coinvolgere nella sua amministrazione il noto artista Franco Battiato, sperando di dare alla sua politica una nuova impronta culturale. Noi che stimiamo Battiato vorremmo scrivergli per ricordargli ulteriormente di prestare una buona volta più attenzione alle faccende culturali della politica regionale, perché lì, oltre che nei Comuni, suole celarsi a volte il peggior clientelismo. Peggiore perché, proprio in nome di ciò che sogliono dirsi eventi culturali, assai spesso si è fatta distribuzione di posti, posticini e opportunità di far soldi, il che nulla ha a che fare con l’evoluzione umana ed ambientale della nostra gente.
Nella premura dell’interesse pubblico, vorremmo suggerirgli che la Sicilia e le sue città, Palermo in particolare, non hanno tanto bisogno di eventi dei quali dopo il rumore non resta nulla, ma hanno bisogno di legami promozionali, di istituti intesi ad evidenziare il suo contesto sul piano di motivazioni alte e incidenti nella vita della società in movimento. Fare cultura valida significa sollevare di tanto in tanto l’interesse di più gente dal piacere della festa e dei festini verso il tormento d’essere nella ruota del tempo, di questo nostro problematico tempo.
Sicché il nostro dire, mosso da una definizione teorica, ha finito per chiudersi con una forte lezione pratica. Speriamo che non dispiaccia troppo.
Fonte: redazione palermomania.it
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