La Partenza
Le colline erano forme scure appena visibili, l’orizzonte già si perdeva nell’oscurità. Fin dalle prime ore del mattino una pioggia insistente aveva allagato le risaie desolate. Ora aveva smesso di piovere. Era un mite e grigio pomeriggio; un pomeriggio adatto a prendere grigie decisioni. Una foschia umida incombeva sul Borgo. Dalla finestra dello studio, oltre il parco, Manfredi poteva scorgere il bagliore giallastro delle lampade dietro le finestre. L’immagine che restituivano era quella calda e confortevole atmosfera che hanno le case nei pomeriggi dei giorni d’inverno. Uno spiffero muoveva appena le tende; gli arredi dello studio galleggiavano nella penombra, forme indistinte di fantasmi silenziosi, familiari, rassicuranti. Il cuore del marchese Manfredi era pieno di timore; non riusciva nemmeno a respirare bene.
La morte improvvisa dell’amico Valentino lo aveva gettato nello sconforto più profondo. La depressione era venuta da lui come un cane fedele; gli stava accovacciata accanto, non lo abbandonava mai. Coricato sull’ampia poltrona nella semioscurità del suo studio, sembrava un bambino fragile e vulnerabile. Il suo viso dai tratti affilati non nascondeva le emozioni che si affastellavano nel suo animo: tristezza, rabbia, paura, rassegnazione. La nascita del figlio, a cui era stato imposto il nome dell’amico, l’aveva rasserenato appena un poco. Trascorreva gran parte della giornata in solitudine, trovando conforto nella musica e, per ore, nella casa risuonavano le note di Vivaldi, il suo musicista preferito, finché le dita non diventavano insensibili e la rigidità della schiena diventava insopportabile. Allora sedeva all’ampia scrivania davanti alle carte che giacevano ignorate per giorni tra i rendiconti delle proprietà che Giovanni, il sovrintendente alle proprietà, periodicamente gli consegnava.
Era solo nella stanza; avviluppato in una morbida coperta per combattere il freddo che il fuoco del camino riusciva a malapena a mitigare. Alzò lo sguardo verso il ritratto sorridente di sua madre in una muta richiesta di aiuto. Si alzò dalla comoda poltrona e si avvicinò al ritratto; le sue dita affusolate accarezzarono delicatamente le pieghe dell’abito; l’aveva indossato per farsi ritrarre perché era il suo preferito e con quello era stata sepolta tanti anni prima. Sua madre. Da lei aveva ereditato l’amore per la musica e per l’arte. Lei lo aveva incoraggiato a coltivare queste doti, al contrario di suo padre che le considerava poco adatte ad un vero uomo. Per questo gli preferiva il fratello maggiore Tancredi che come lui amava tirare di scherma, andare a caccia, ubriacarsi nelle taverne dove poteva vantarsi delle sue imprese e il gioco d’azzardo. Solo in fin di vita suo padre si era ravveduto e, in un raro momento di lucidità, aveva firmato un documento con cui lo autorizzava ad amministrare i beni di famiglia, compresi quelli di suo fratello, consapevole che il figlio maggiore, ormai schiavo del gioco, avrebbe dilapidato il patrimonio in un attimo. Tancredi non lo aveva mai perdonato per quello che considerava un affronto alla sua primogenitura e lo aveva rabbiosamente ribadito anche la sera precedente alla sua morte. Manfredi trasse profondo sospiro. Ritrovò il ricordo di quella sera in una nicchia nascosta della sua mente tormentata. Era stata una giornata strana. Un attacco di emicrania particolarmente violento l’aveva costretto all’immobilità per quasi tutta la giornata. Poi, Giovanni, il sovrintendente, insieme al resoconto della giornata gli aveva portato un disgustoso intruglio di erbe confezionato da sua moglie che miracolosamente in pochi minuti aveva fatto scomparire quel dolore che gli attanagliava le tempie. Quando lui si era congedato, era arrivato suo fratello e c’era stata quella terribile lite al termine della quale l’aveva cacciato intimandogli di non farsi più vedere. Poche ore più tardi avrebbe fatto la conoscenza di colei che sarebbe diventata sua moglie. Era entrata nello studio sotto forma di un fagotto urlante trattenuto a stento dal fedele servitore Martino che l’aveva sorpresa nel parco del palazzo e, credendo fosse un ladro, l’aveva abbrancata per i capelli e trascinata al cospetto del suo signore. Un tenero sorriso gli increspò le labbra al ricordo dei suoi occhi fiammeggianti di collera ma nei quali si leggeva anche la paura di essere tradotta in prigione per aver violato la proprietà di un marchese. “Non sono un ladro!” aveva continuato a ripetere in tono di sfida. E lui le aveva creduto, o per meglio dire, gli aveva creduto perché allora non sapeva, e non lo avrebbe saputo per molto tempo ancora, di avere davanti a sé una ragazza. Gli aveva raccontato di essere un giovane musico che girava il Piemonte alla ricerca di musiche antiche e dimenticate che si manteneva suonando il violino ogniqualvolta gli veniva richiesto. Era la verità, un po’ addomesticata, e l’ampia casacca che nascondeva le sue forme acerbe e i capelli malamente sforbiciati avevano contribuito a trarlo in inganno.
Si sedette al clavicembalo, un antico strumento che aveva ereditato dalla madre di sua madre. Ariel era rimasta a bocca aperta quando l’aveva visto. «È un pedal!» aveva esclamato estasiata. Avevano suonato insieme fino a tarda sera ed era riuscito, non senza fatica, a convincere Ariel ad accettare il suo invito a trascorrere la notte a palazzo. Si era ritirato nella sua stanza canticchiando una ballata e si era addormentato subito. Ma nel pieno della notte era stato svegliato bruscamente ed era iniziato quel terribile incubo. Due gendarmi lo attendevano con una carrozza per condurlo nel luogo dove era stato ritrovato il corpo di Tancredi. Non avrebbe mai dimenticato quella porta dipinta di un oltraggioso colore rosso e nemmeno il fetore di quella stanza dove suo fratello era stato abbandonato come un mucchio di stracci. Da quella notte la sua vita era cambiata. Lui era cambiato; deciso a trovare chi avesse ucciso suo fratello e perché. Aveva detto addio alla sua vita tranquilla che fino ad allora aveva condotto ed al suo piccolo mondo ovattato per imbarcarsi in un’impresa piena di incognite. Aveva incontrato personaggi ambigui di cui nemmeno conosceva l’esistenza, persone crudeli, prive di scrupoli, di valori e di onore. Era entrato a far parte di un gioco senza regole, a lui completamente sconosciuto, da cui non sarebbe uscito vivo senza l’aiuto del conte Valentino, di Ariel e del suo grande amico Jacopo. Ora Valentino era morto, Jacopo era magistrato a Torino e non avrebbe potuto aiutarlo senza compromettere la sua carriera e Ariel non doveva conoscere la verità. Era solo. Per la prima volta nella sua vita avrebbe dovuto sconfiggere un nemico senza aiuto. Aveva un piano, ma aveva paura, tanta paura, non per sé ma per Ariel e il bambino. Posò le dita sulla tastiera. La musica era il modo migliore per isolarsi dalla realtà. Quel giorno, però, fuggire da se stesso gli risultava più difficile del solito. Formulò una preghiera silenziosa e un fremito gli percorse il volto. Provò un accordo, ma le dita erano paralizzate. Allora, prese a pestare furiosamente sui delicati tasti di avorio, sfogando in tal modo la frustrazione, il senso di colpa e il panico che lo attanagliavano. Era esausto fino nel profondo dell’anima.
Ariel entrò senza far rumore e si arrestò poco dietro la figura china sullo strumento. Sentì le lacrime pungerle gli occhi, ma si rifiutò di piangere; si sentiva impotente di fronte all’anima tormentata che amava con tutta se stessa. Posò le mani sulle sue spalle curve: il silenzio e il contatto fisico erano un mezzo per superare le barriere e penetrare nel suo animo. Manfredi le prese una mano ne posò il palmo sulla propria guancia umida.
«Mi sembrate di umore alquanto pensieroso» mormorò Ariel, appoggiando il mento sulla testa del marito.
Manfredi non rispose ma l’attirò a sé e affondò il viso nel grembo morbido e ancora leggermente arrotondato dopo la nascita del bambino. Anelava a trovare un limbo della mente dove nuotare fino a dimenticare tutto. Rimase così per lunghi minuti, trovando conforto nel calore della donna con cui aveva scelto di vivere. Quindi levò verso di lei gli occhi arrossati, socchiuse le labbra ma non disse nulla.
«Avete gli occhi stanchi» osservò Ariel, fingendo di non essersi accorta che aveva pianto. «Avete lavorato alla luce della lampada; quante volte vi ho detto che non dovreste» proseguì petulante.
Manfredi abbozzò un sorriso tirato e finse di credere alle parole di rimprovero della moglie, ben sapendo che erano una bugia. A lei non sfuggiva mai nulla, neppure quando aveva gli occhi abbassati o chiusi. Ariel si staccò da lui e andò a raccogliere il giocattolo che il piccolo aveva lasciato sul tappeto. Manfredi glielo tolse dalle mani.
«Questa apparteneva a Jacopo» disse, lisciando la stoffa consumata della casacca del pupazzo. «Da ragazzi trascorrevamo pomeriggi interi in questa stanza ad ascoltare le recite che inventava per noi animandole con questi burattini che lui stesso confezionava.»
Ariel conosceva bene la storia della profonda amicizia che legava il marito, il conte Valentino e Jacopo Durandi. Era stato Tancredi a parlargliene, ma lo aveva fatto con una tale acredine che l’aveva sconvolta.
Un educato tocco alla porta interruppe il corso dei suoi pensieri. Valentino con un gridolino di gioia sgattaiolò dalle braccia della balia e trotterellò verso il padre, nei confronti del quale aveva una vera e propria venerazione. Il marchese sollevò il piccolo tra le braccia, inspirò profondamente il profumo di latte lievemente dolce che emanava la pelle del figlio e chiuse gli occhi beandosi di quell’attimo di pura letizia, ben presto interrotto dall’incalzante richiesta del bambino: «Musica, musica!!!».
«Volete farci l’onore di assistere al concerto di questo enfant prodige?» domandò alla moglie, sistemando il piccolo sulle ginocchia in modo che le manine arrivassero alla tastiera.
«Vi ringrazio del privilegio che mi accordate» rispose Ariel, stando al gioco. Si accomodò con sussiego sulla poltrona e chiuse gli occhi, imprecando in silenzio di non avere la possibilità di chiudere anche le orecchie. Valentino adorava pasticciare con i tasti ed era sempre un’impresa ciclopica convincerlo ad abbandonare le ginocchia del padre.
Ariel rimase alcuni minuti poi, senza far rumore, uscì e si diresse verso la stanza della cognata Letizia sua amica e confidente. Era venuta ad abitare a palazzo insieme alle figlie Adele e Clarissa, dopo la tragica morte del marito Tancredi. All’inizio il loro rapporto non era stato idilliaco, ma in seguito avevano imparato a conoscersi e ad apprezzarsi a vicenda.
«Come si sente oggi il marchese?» domandò Letizia.
«Quando sono entrata nello studio era piuttosto angosciato, poi all’arrivo del bambino si è alquanto rasserenato. Adesso Valentino, con la complicità del padre, sta massacrando il povero clavicembalo. Erano così concentrati che nemmeno si sono accorti che me n’ero andata.» Senza rendersene conto, aveva pronunciato l’ultima frase con un tono risentito.
«Lasciate che godano della reciproca vicinanza» disse Letizia con una punta di malinconia. «Entrambi ne traggono giovamento.»
«Ne sono consapevole; e ne sono felice, credetemi» rispose Ariel. Letizia le sorrise indulgente, posò sulle ginocchia il lavoro di cucito e guardò dritta negli occhi la ragazza.
«Non siete del tutto sincera mia cara e tra l’altro siete una pessima bugiarda.»
Ariel aprì la bocca per protestare ma Letizia le prese le mani tra le sue e le sorrise amabile.
«Non dovete sentirvi messa da parte. È una vera benedizione che tra padre e figlio ci sia un legame così profondo. Manfredi è attaccato a suo figlio ma non per questo è meno innamorato di voi, al contrario vi ama ancor di più per il dono meraviglioso che gli avete fatto.»
«Avete ragione» ammise Ariel, abbassando gli occhi. «Quando sono insieme, non esiste più nessuno e, sì, mi sento come un’intrusa. Mi considerate una sciocca, vero?»
«Niente affatto, bambina cara, siete una brava madre e una moglie straordinaria» la rassicurò Letizia.
«Non la pensavate così, però, quando Manfredi vi ha annunciato il nostro matrimonio. Anche se non me ne ha mai fatto cenno, io so che aveste una discussione piuttosto accesa.»
«È vero, avevo delle riserve. Voi eravate poco più di una bambina con un carattere forte e uno spirito esuberante. Non vi vedevo al fianco di Manfredi, un uomo d’età, pacato, riflessivo, sensibile. Ma riconosco di essermi sbagliata e ne sono felice.»
«Io amo Manfredi e amo Valentino» affermò Ariel, guardando negli occhi la cognata.
«Ne sono convinta, mia cara. Manfredi ha un’indole gentile, è vero, ma è anche introverso, a volte cupo e oltremodo sensibile. Ma voi, con il vostro amore, la vostra comprensione e la vostra pazienza, dote di cui credevo foste scarsamente dotata, riuscite a fare breccia nella barriera che sovente innalza tra lui e il mondo.»
«Non questa volta» rispose Ariel desolata. «Vorrei tanto poter alleviare la sua sofferenza, ma lui non me lo permette. Lo sento distante; più cerco di avvicinarmi più si isola e anche se è gentile e premuroso nei gesti, i suoi occhi non sorridono più.» Lacrime di frustrazione le rigarono il viso e Letizia le diede il tempo di dare sfogo alla sua angoscia.
«Il tempo rimetterà a posto ogni cosa. Non lo dico per consolarvi. Conoscete bene le vicende che hanno sconvolto la mia vita, eppure, ora sono serena come mai, allora, avrei pensato di potere. Andate a sciacquarvi il viso prima di tornare da vostro marito.» le raccomandò Letizia.
Nel congedarsi, le due donne si abbracciarono.
Ariel corse in camera a rassettarsi; si era fatto tardi e Valentino doveva mangiare. Bussò alla camera della balia e insieme raggiunsero lo studio.
Dall’interno non proveniva più alcun suono: per un attimo Ariel si arrestò davanti alla porta socchiusa. Posò una mano sulla maniglia e, lentamente, aprì la pesante anta finemente intarsiata. La stanza era avvolta nella penombra; i mobili, scure sagome sfocate, conferivano all’ambiente un profondo senso di sicurezza e di appartenenza. Aleggiava un profumo di bacche. Bortolo, l’anziano servitore, che amava Manfredi come un figlio, doveva averle aggiunte ai ciocchi che lentamente bruciavano nel camino. Ariel si voltò verso la balia, portò l’indice alle labbra e, con un gesto della mano, le ingiunse di attenderla lì. In punta di piedi attraversò la stanza. Sulla poltrona accanto al camino Valentino dormiva beato tra le braccia del padre. Anche Manfredi pareva dormisse: il capo reclinato sfiorava i riccioli scomposti del figlio. L’intimità della scena suscitò in Ariel contrastanti sentimenti: da una parte lo sgomento di sentirsi un’intrusa, dall’altra la fierezza di esserne l’artefice. Deglutì per sciogliere il nodo alla gola. Decise di lasciare che padre e figlio godessero della reciproca vicinanza. Si voltò per andarsene, ma la mano salda del marito si strinse attorno al suo braccio, e i suoi occhi sorridenti agganciarono i suoi. Da parecchio tempo Ariel non vedeva quello sguardo e aveva temuto di non vederlo più.
«Congedate la balia,» mormorò Manfredi.
All’espressione interrogativa di Ariel, rispose aumentando leggermente la pressione delle dita sul suo braccio, prima di lasciarla libera di tornare verso l’ingresso da dove la ragazza non si era mossa.
«Andate, vi porterò il bambino più tardi» la licenziò, fingendo di non aver scorto il sorrisetto sconveniente che aveva increspato le labbra della ragazza mentre si chiudeva la porta alle spalle. In un’altra situazione l’avrebbe ripresa duramente, ma decise di sorvolare, per il momento, troppo ansiosa di tornare dai suoi uomini.
Valentino emise un gorgoglio, si agitò tra le braccia del padre ma non si svegliò. Manfredi lo accomodò meglio nell’incavo del braccio e delicatamente gli tolse di bocca il pollice che immediatamente riprese la strada verso le labbra.
«Desiderate accendere il lume?» domandò Manfredi.
«No, il fuoco del camino è sufficiente» rispose Ariel, accomodandosi sulla poltrona di fronte. Rimasero in silenzio; lo scoppiettio del legno che si consumava e il respiro regolare del piccolo, intercalato dal sonoro risucchio del pollice, riempivano la stanza. Ariel chiuse gli occhi; il calore della vicinanza delle persone che più amava l’avvolse in un abbraccio. Era affezionata a quella stanza più che ad ogni altra del vasto ed elegante palazzo di mattoni rossi: lì aveva incontrato per la prima volta Manfredi, lì, sul tappeto davanti al clavicembalo, un pomeriggio di giugno, era stato concepito Valentino.
«Perché sorridete?» domandò Manfredi.
Colta di sorpresa, Ariel arrossì.
«Stavo pensando alla prima volta che entrai in questa stanza» rispose, ma un’esitazione nella voce la tradì.
«Fingerò di credervi, ma sono pressoché certo che i vostri pensieri stessero vagando in ben altra direzione, visto che siete rossa in volto, e non per il calore del fuoco. Posso richiamare la balia e …»
«No,» lo interruppe Ariel. «Lasciatelo dormire tra le vostre braccia ancora un poco.»
Manfredi prese la manina paffuta e si chinò per deporvi un bacio. Il piccolo emise un mugolio e si strinse ancor di più al petto del padre.
«L’ho trascurato troppo» mormorò con una sfumatura di rammarico. «Vi ho trascurati entrambi» si corresse. «Ma la notizia della morte di Valentino è stata …» Sul momento non seppe trovare un aggettivo appropriato, in grado di esprimere l’intensità del dolore per la perdita dell’amico.
«Devastante,» concluse per lui Ariel. «So bene quanto foste legati l’uno all’altro. Nemmeno tra fratelli di sangue è facile trovare un legame profondo come il vostro. E lui – proseguì indicando il figlio – manterrà vivo il suo ricordo.»
«Sono lieto di aver ceduto alle vostre insistenze» disse Manfredi, scostando un ricciolo dalla fronte del piccolo.
Prima della nascita del bambino avevano discusso a lungo sul nome da imporgli. Erano stati tirati in ballo nonni, bisnonni, trisavoli; ma qualunque fosse il nome proposto da Manfredi veniva puntualmente bocciato da Ariel che, da quando aveva scoperto di attendere un figlio, si era incaponita su Valentino o Valentina, nel caso fosse nata una femmina. Alla fine, Manfredi, più per sfinimento che per convinzione, aveva acconsentito.
«Ancora oggi non comprendo il motivo per cui eravate così contrario a chiamarlo Valentino. Sarebbe stato il suo padrino di battesimo e per voi era stato un fratello molto più di quanto lo fosse stato …» Si interruppe mortificata, rendendosi conto di aver parlato d’impulso. «Perdonate, non volevo mancare di rispetto alla memoria di vostro fratello.»
«Non crucciatevi. Sapete bene quanto me che non era certo l’affetto a legarci, almeno da parte sua.»
Intuendo che il marito stava scivolando sul crinale dello sconforto, con studiata noncuranza sviò i suoi pensieri.
«E comunque, stavo pensando alla prima volta che entrai in questa stanza,» ribadì.
«Non di vostra volontà e neppure sulle vostre gambe» precisò il marito con un sorriso sornione.
«Per forza, Martino mi aveva presa sottobraccio come un fagotto di stracci e quando finalmente mi permise di mettermi in piedi, mi teneva per i capelli …»
«Quello che restava dei vostri capelli» precisò Manfredi. «Nemmeno il tosatore di pecore più maldestro sarebbe riuscito a combinare un simile disastro!»
«Avrei voluto vedere voi cosa avreste saputo fare col forbicione che mio padre usava per tagliare il metallo delle canne d’organo, al buio …» replicò indignata.
«La luce di una candela non avrebbe fatto molta differenza, ma …»
«La luce di una candela, per quanto fioca, avrebbe attirato l’attenzione di qualcuno, in mezzo al bosco.»
«Oh Signore, questa poi! In mezzo al bosco …»
«Ma cosa immaginavate! Che mi fossi seduta davanti allo specchio della mia stanza, armata di pettine, spazzola e forbici e …»
«Sì, più o meno …» confessò Manfredi a disagio. «Sarebbe stata la cosa più logica.»
«Ma non la più conveniente se volevo che il mio progetto di scappare andasse a buon fine. Dovevo nascondere i capelli che avevo tagliato, e anche l’abito. Avrebbero cercato una ragazza con le lunghe trecce e con l’abito da casa marrone. Senza dubbio qualcuno si sarebbe ricordato di avermi vista e sarebbe corso a riferirlo a mio padre. Così, quando tutti erano andati a dormire, andai nel bosco dietro casa, mi tagliai i capelli e li raccolsi nell’abito, ne feci un fagotto e lo nascosi in una buca sotto un grosso sasso.»
«Non difettate certo di inventiva, mia cara. Ad ogni modo eravate un perfetto travestì. Quando vostro padre mi ha svelato la vostra vera natura, sono rimasto assolutamente basito.»
«Avreste dovuto vedere la faccia del conte Valentino quando, la notte dell’incendio, la mia camicia da notte bagnata gli rivelò che ero una donna.»
Ariel ricordava ogni istante di quella terribile notte. Puck, il suo gufo che la seguiva ovunque, inseparabile fedele compagno, continuava a battere le ali sul davanzale per attirare la sua attenzione verso una finestra illuminata dalle fiamme. Il suo primo pensiero era andato a Manfredi e, oppressa dall’ansia, aveva corso da un corridoio all’altro, alla cieca, senza alcun punto di riferimento, spinta unicamente dal terrore che il marchese fosse in pericolo. Nella stanza invasa dal fumo, aveva trovato invece il conte Valentino. Era stato il primo a scoprire il suo segreto.
«Proprio di Valentino vorrei parlarvi. Ma prima chiamate la balia, che si occupi di questo angioletto» la esortò il marito.
Ariel tirò tre volte la cordicella nascosta dietro i pesanti tendaggi e, dopo qualche minuto, un leggero tocco alla porta annunciò l’arrivo della ragazza che prese il bambino addormentato dalle braccia di Manfredi e si allontanò canticchiando una canzoncina. Rimasti soli, Manfredi si avvicinò alla moglie in piedi davanti alla finestra e la strinse in un abbraccio. Gli alberi secolari del parco che circondava il palazzo portavano ancora i segni dell’inverno; la neve adagiata tra le biforcazioni dei rami spogli si stava sciogliendo e le gocce d’acqua avevano scolpito i piccoli cumuli gelati raccolti accanto ai tronchi, di un colore azzurro alla luce della sera incombente.
«Guardate là, sotto quel grosso pino» disse Ariel, indicando un ammasso di neve particolarmente corposo. «Sembra un gatto addormentato. E là in fondo vicino alla siepe, quei mucchietti assomigliano a tanti soldatini in parata».
Piegò la testa e rivolse al marito un sorriso raggiante.
«Non finite mai di stupirmi» le sussurrò, prendendole il viso tra le mani. Ariel si abbandonò tra le sue braccia. Avrebbero parlato più tardi.
La stanza era completamente buia quando Ariel aprì gli occhi. Il fuoco si era spento e dall’esterno nemmeno un raggio di luna filtrava attraverso i vetri. Scostò il braccio di Manfredi che le cingeva la vita e a tentoni cercò il proprio vestito nel mucchio degli indumenti. Prese anche uno scialle e coprì il corpo del marito che giaceva ancora addormentato sullo spesso tappeto. Rabbrividendo, si avvicinò al camino e vi gettò un pezzo di legno. Fortunatamente un paio di tizzoni ardevano ancora sotto la cenere. Armeggiò con il soffietto e presto un bel fuoco riprese vigore. Gettò un altro paio di ciocchi e, accovacciata davanti al fuoco, si godette il tepore che pian piano si diffondeva nella stanza.
«Attenta a non bruciarvi l’abito,» la mise in guardia amabilmente Manfredi che, con lo scialle che pudicamente aveva avvolto attorno ai fianchi, era intento a recuperare la sua parte di indumenti.
Per decenza Ariel non si voltò finché lui non fu completamente vestito, operazione che richiese un certo tempo e una geremiade di mugugni.
«Sapete dove si trova la Cornovaglia?» domandò Manfredi, infilandosi una scarpa.
Ariel annuì, mentre, a sua volta, finiva di annodare i capelli in due trecce che avvolse attorno alla testa fissandole con il fermaglio che Manfredi le porgeva premuroso.
«È una regione dell’Inghilterra» rispose. «Perché me lo domandate?»
«Perché a primavera andremo là e sarà compito vostro organizzare il viaggio.»
Ariel non discuteva mai le decisioni del marito, ma questa volta non seppe trattenersi.
«Ma è una follia! Il viaggio durerà almeno un mese, o anche più, se si tiene conto delle soste e degli imprevisti. E una volta là dove alloggeremo? In locande, suppongo. Non conosciamo la lingua, come faremo a farci capire? Anche se partiremo a primavera lassù farà ancora molto freddo. E se scoppiasse una guerra o un’epidemia e non potessimo più tornare a casa, non rivedremmo più nostro figlio …»
«Calmatevi!» la redarguì Manfredi. «Non c’è motivo che vi agitiate tanto.»
Ariel aprì la bocca per protestare, ma un gesto autoritario della mano del marito le impose di tacere.
«Sedete e ascoltate quello che ho da dirvi» la invitò gentilmente, ma con un tono di voce che non ammetteva repliche. Ariel tacque, ma invece di accomodarsi sulla poltrona che il marito le indicava, scelse la sedia dall’alto schienale davanti allo scrittoio che esigeva una postura rigida, innaturale. Tormentando la stoffa dell’abito con dita nervose, attese in silenzio le spiegazioni.
«Questo è il testamento del conte Valentino» esordì Manfredi, srotolando un foglio. «L’aveva depositato presso il notaio prima di partire.» Un’ombra di tristezza gli velò lo sguardo. Si schiarì la voce e proseguì: «Il ricavato della vendita delle sue proprietà in Bretagna a cui aveva provveduto già da tempo è stato diviso in egual misura tra i suoi fedeli compagni Simone e Matteo. Al suo figlioccio, cioè a nostro figlio, lascia le sue proprietà in Cornovaglia, di cui nomina me come amministratore fino alla sua maggiore età. A voi ha destinato questo. Così ha lasciato scritto. Tenete mia cara.»
Con dita tremanti Ariel spezzò il sigillo di cera lacca che chiudeva un plico piuttosto voluminoso. Si trovò tra le mani una minuziosa trascrizione per violino di musiche antiche. Sopra i fogli, accuratamente ripiegato c’era un biglietto su cui spiccava il suo nome vergato con la scrittura un po’ sghemba di Valentino. Lo aprì e scoppiò in un pianto dirotto. Manfredi le si avvicinò e gentilmente le tolse dalle mani il foglio su cui era scritta una sola frase: - Chiudete la bocca, se non volete che vi si sloghino le mascelle. - Manfredi sorrise commosso. Il vezzo infantile di Ariel di restare a bocca aperta quando si trovava di fronte ad un fatto che le procurava meraviglia, era stato oggetto di celia sia da parte di Manfredi sia da parte di Valentino.
Ariel ingoiò le lacrime e, con voce vibrante ma decisa disse: «Domani inizierò ad organizzare il viaggio.»
«Sono certo che farete un eccellente lavoro» la rassicurò il marito. «Nel Regno di Sua maestà Britannica non dovrete alloggiare in locande, ma nella casa che Valentino ha lasciato al suo figlioccio dove troverete le stesse comodità di cui godete qui. Non scoppierà alcuna guerra, non ci saranno epidemie, né inondazioni né qualsivoglia altra catastrofe. Non starete lontana da nostro figlio perché lo porteremo con noi.»
Ariel gli rivolse uno sguardo raggiante, la giovialità insita nella sua indole spazzò via dubbi e paure.
I preparativi per la partenza richiesero tempo ed energie. Manfredi si occupava delle pratiche burocratiche e dell’amministrazione delle proprietà che affidò al fedele sovrintendente. L’entusiasmo contagioso di Ariel e il senso pratico della cognata Letizia fecero sì che tutto fosse pronto per la data prevista. Ogni sera, quando si ritiravano nella loro stanza, puntualmente Ariel raccontava al marito gli avvenimenti della giornata, i progressi nei preparativi e gli imprevisti che aveva dovuto affrontare.
Manfredi si stupiva immancabilmente delle capacità della moglie e ammirava l’impegno e la cura che profondeva in ogni cosa che faceva. Gli aveva chiesto, e ottenuto, che le procurasse un insegnante che la erudisse sugli elementi fondamentali della lingua del Paese dove si sarebbero trasferiti, seppure solo per il tempo necessario ad espletare le pratiche relative alla proprietà. «Non vorrete che vostra moglie non sia in grado di gestire la servitù perché non comprende la lingua» aveva sostenuto. Manfredi inutilmente l’aveva rassicurata dicendole che avrebbe trovato persone in grado di comprenderla ma, ça va sans dire, alla fine aveva ceduto. Come unica condizione aveva imposto che anche Adele e Clarissa, le adorate nipotine, frequentassero le lezioni impartite da un’attempata vedova che in gioventù aveva trascorso molti anni in terra britannica al seguito del marito, funzionario reale.
Qualche giorno prima della partenza, Letizia si presentò inaspettatamente nello studio di Manfredi.
«Perdonate l’intrusione» esordì. «Ma ho urgente bisogno di parlarvi.» Il marchese la fissò sorpreso. Poche volte la cognata aveva messo piede in quella stanza e sempre su suo invito.
«Accomodatevi» la esortò, indicando la sedia di fronte allo scrittoio. A dispetto del tono cortese, il suo sguardo tradiva una profonda apprensione.
«Ho una richiesta da farvi» esordì Letizia.
«Dite pure, vi ascolto e sarà mia premura esaudire il vostro desiderio» rispose.
«Voglio la verità»
Manfredi fissò annichilito il volto della donna che il dolore aveva scavato, rendendolo simile ad una scultura.
«Sì, voglio che mi diciate la vera ragione di questo viaggio. Se la mia richiesta vi pare sconveniente me ne dispiaccio, ma ho il sospetto, fondato sospetto, che stiate fuggendo da qualcosa o da qualcuno» affermò la donna. Per un lungo istante rimasero a guardarsi in silenzio.
«Sapete bene che il conte Valentino ha nominato mio figlio erede della sua proprietà in Cornovaglia e ha assegnato a me la carica di amministratore fino al raggiungimento della maggiore età; pertanto ho ritenuto indispensabile recarmi colà per verificare di persona la situazione» spiegò in tono pacato, ma evitando di guardare negli occhi la cognata per timore che vi leggesse il profondo senso di colpa che provava nel mentirle.
«E pensate che io vi creda?» replicò Letizia. «Voi potete mentire ai vostri amici, a vostra moglie, anche a voi stesso, ma non riuscirete a ingannare me; ho troppa esperienza di menzogne, sotterfugi, inganni per lasciarmi fuorviare dalle parole di un mentitore dilettante. Vostro fratello Tancredi era un artista della menzogna, eppure sapevo sempre quando nascondeva qualcosa. Inoltre, trasudate paura da tutti i pori. Non sono una stupida, Manfredi, pertanto o mi dite cosa sta accadendo o farò partecipe Ariel dei miei sospetti» concluse.
Dal tono della sua voce, Manfredi capì che la cognata avrebbe messo in atto la sua minaccia e d’altra parte si sentì anche sollevato al pensiero di poter condividere il segreto che gli pesava sul cuore come un macigno.
«Il conte Valentino non è morto di morte naturale, è stato ucciso come lo fu vostro marito. Il suo coinvolgimento negli affari con i nobili francesi, il duca François, vostro marito e la sua amante Zaira gli sono costati la vita. Dei sicari lo hanno trovato e ammazzato.»
«Ma il duca è morto e Zaira è in prigione; chi può aver prezzolato degli assassini?» obiettò Letizia.
«Se lo sapessi» replicò Manfredi avvilito.
«Nemmeno era a conoscenza delle tresche ordite da Tancredi, finché non è stato ucciso e vi ha aiutato a scoprire la verità sulla sua morte.»
«Infatti, Valentino mi aveva confidato che aiutava i nobili francesi a passare il confine, ma mi giurò di essere estraneo ai furti e alle estorsioni di cui erano colpevoli Tancredi e i suoi compari.»
«Grazie al vostro intervento tutto ciò ha avuto termine e non potete neanche lontanamente immaginare quanto ve ne sia grata.»
«Anche se ho costretto vostro figlio ad arruolarsi, allontanandolo da voi?»
«Mio figlio ha ucciso suo padre. Ha commesso un orribile crimine ed è solo grazie alla vostra generosità e all’intercessione del vostro amico Jacopo se non è rinchiuso nelle regie galere.»
«La vita militare a cui l’ho condannato è una punizione molto più dura del carcere. Ubbidire agli ordini e dominare il suo carattere indisciplinato sono lezioni che si imparano a caro prezzo.»
«Ancora non avete risposto alla mia domanda» gli ricordò Letizia.
«Ho trovato tra la corrispondenza una lettera anonima, ovviamente, con esplicite minacce di morte rivolte alla mia famiglia; forse è solo la minaccia di un invasato, ma farò tutto ciò che è in mio potere per proteggere Ariel e il bambino. Ho fatto fare delle ricerche, ma non sono venuto a capo di nulla» confessò Manfredi in preda ad una profonda agitazione. «L’unica soluzione è portarli lontano; pertanto ho chiesto aiuto a Simone e Matteo. Anche voi e le bambine lascerete il palazzo. Ho già predisposto il vostro trasferimento a Torino. Là sarete sotto la protezione di Jacopo e nessuno potrà farvi del male.»
Alla confessione di Manfredi seguì un lungo silenzio. Letizia troppo sconvolta da quella rivelazione, si torceva le mani, singhiozzando sommessamente.
«Non dirò di questa conversazione ad Ariel, ne rimarrebbe troppo sconvolta e adesso ha bisogno di tutta la sua lucidità per affrontare il viaggio e gli inevitabili cambiamenti; ma voi dovete promettermi che una volta al sicuro le direte la verità. Vostra moglie è una donna forte e sarà sempre al vostro fianco. Non tradite la fiducia che ripone in voi.» lo esortò, alzandosi per prendere congedo.
«Vi ringrazio, cognata, e vi prometto che le dirò la verità» disse, accompagnandola alla porta.
Letizia tornò nel suo appartamento dove l’attendevano le figlie. Clarissa, la maggiore stava preparandosi alla lezione di piano solfeggiando a bassa voce il pezzo che l’insegnante le aveva assegnato, mentre Adele, la piccolina, tracciava di malavoglia le note su un quaderno di musica. Letizia accarezzò i capelli ad entrambe. Come erano diverse le due sorelle, pensò. Clarissa era una damina, sempre composta nei modi e moderata nel parlare; amava la musica, la pittura e seguiva con interesse le lezioni degli insegnanti. Adele aveva un indole meno docile. Spesso Letizia doveva ricorrere alle maniere brusche per farsi ubbidire. Mentre Clarissa si dedicava con impegno al ricamo o al cucito sotto lo sguardo compiaciuto della balia, Adele preferiva sgattaiolare nell’orto a raccogliere le verdure o in cucina a pasticciare con la cuoca. Molto più espansiva della sorella maggiore, riusciva sempre a farsi perdonare le marachelle con un abbraccio o un sonoro bacio e fu gettando le braccia al collo della madre che trasformò in un sorriso il suo sguardo di disapprovazione davanti al foglio spiegazzato. Letizia si ritirò nella sua stanza e si sedette allo scrittoio. Prese un foglio dal cassetto e intinse la punta della penna nel calamaio e scrisse: “ Eccellenza …”. La punta della penna produsse un rumore sgradevole mentre passava sul foglio.
Sen Ostell
Il giorno della partenza fu inevitabile che scappasse qualche lacrima. Martino, da anni al servizio di Manfredi, salì a cassetta a fianco del cocchiere e condusse la carrozza del suo signore fino all’uscita dal Borgo. Ormai troppo in là negli anni, non avrebbe potuto affrontare le fatiche e i disagi di un viaggio così lungo.
Affidò le redini al giovane Eusebio che lui stesso aveva iniziato al mestiere con zelo e qualche scapaccione. Eusebio era entrato a far parte della servitù un paio di anni addietro. Il padre violento e ubriacone lo aveva buttato fuori di casa dopo avergli rubato la misera paga di garzone di falegname a suon di bastonate. Martino l’aveva raccolto per la strada semi svenuto e pesto, l’aveva caricato sul carretto delle provviste e l’aveva affidato alle cure di Berta che l’aveva medicato e rifocillato.
Manfredi, venuto a conoscenza della situazione, aveva accolto il ragazzo a palazzo e l’aveva affidato al servitore affinché gli insegnasse il mestiere. Poiché si era dimostrato un giovane onesto e volenteroso Martino gli aveva assegnato il compito di istruire a sua volta i garzoni di stalla oltre al suo lavoro di accudire i cavalli. Eusebio si dimostrò degno della fiducia accordatagli, e pur consapevole della responsabilità e delle fatiche di questo viaggio, era orgoglioso di essere stato scelto come suo sostituto. L’unico motivo di apprensione era rappresentato dalla presenza del cocchiere della carrozza su cui viaggiavano la balia, Valentino e una coppia di servitori. Non che avesse mai avuto a che dire con lui; Alfonso era un uomo tranquillo; non si ubriacava, non era attaccabrighe, parlava poco e mai né della sua famiglia né del paese da cui proveniva. Nel lavoro era diligente e preciso, ma Eusebio provava verso di lui un’istintiva diffidenza e la sua vicinanza gli procurava immancabilmente un formicolio alla base della nuca.
Il viaggio si svolse senza intoppi: il tempo si mantenne sereno per giorni e le locande dove sostarono erano sobrie e decorose. L’unico a soffrire un certo disagio fu Valentino. Il tempo trascorso nello spazio angusto della carrozza lo rendeva irritabile. Nonostante la balia inventasse ogni tipo di gioco per distrarlo, sovente il bambino piangeva e diventava insofferente. Ariel e Manfredi spesso lo tenevano con sé nella loro carrozza. Ariel suonava il violino e cantava per lui, Manfredi inventava storie fantastiche, ma quando nemmeno tutto ciò lo acquietava, Manfredi ordinava di fare una sosta supplementare. Così il viaggio si protrasse oltre il previsto e giunsero a Sen Ostell con un paio di giorni di ritardo.
La traversata del Canale della Manica su una nave mercantile rappresentò per il piccolo una magnifica avventura; affascinato dalle onde che si infrangevano sulla chiglia. Quando il tempo lo permetteva, la balia lo portava a passeggiare sul ponte dove poteva correre e fare a gara coi gabbiani a chi urlava più forte,sfogando in tal modo la sua energia per troppo tempo repressa.
A Falmouth una nebbiolina fredda e sottile scorreva per le strade. Trovarono ad attenderli Simone e Matteo, i fedeli compagni del conte Valentino in compagnia dei quali ripresero il viaggio in carrozza fino a Sen Ostell.
Il tempo si era guastato; il vento che arrivava dall’oceano portava neri nuvoloni forieri di pioggia; il paesaggio era di un grigio persistente. La strada, segnata da file di aceri, biancospini e noccioli, attraversava quella che un tempo era stata la foresta di Arden, disboscata per ricavarne legname e terreno agricolo. Una terra bella e selvaggia.
Giunsero a destinazione di pessimo umore; perfino Ariel, solitamente allegra ed espansiva, si era chiusa in un caparbio mutismo. Al di là un arco formato da una siepe rigogliosa, apparve la facciata della casa completamente rivestita di edera da cui spiccavano finestre bianche coi vetri a piombo, il tetto spiovente di ardesia a più falde. Dai camini usciva un filo di fumo. Simone guidò il gruppo all’interno dell’abitazione, mentre Matteo si occupò delle carrozze e dei cavalli insieme ai cocchieri. Un allegro e zelante ragazzino venne loro incontro e scambiò alcune parole con Simone. Ariel lo fissò a bocca aperta.
«Che lingua parla costui?» domandò confusa.
«Cornico» rispose Simone. «È l’antica lingua del posto. Qui tutti la parlano.»
«Non parlano inglese?»
«Raramente, per non dire mai. È una questione di orgoglio. Rifiutare di esprimersi nella lingua di Sua Maestà è un modo per affermare la propria indipendenza. Questo è un piccolo villaggio di pescatori che sanno dirvi se ci sarà tempesta o bonaccia, che sanno governare la barca meglio di un ammiraglio, ma la maggior parte di loro non sa né leggere né scrivere in inglese e lo parlano male e malvolentieri e solo se sono costretti; a fatica riescono a distinguere i pochi denari che passano nelle loro mani e il baratto è ancora il sistema di scambio più usato.»
Mentre parlava, Simone aveva guidato la coppia oltre l’atrio dalle pareti rivestite di legno in un salottino dall’arredamento austero: sul tavolino la governante aveva posato un vassoio con tè, panini imbottiti di carne e biscotti. Il camino era acceso; fuori la campagna era investita da un vento gelido e rabbioso. Mangiarono tra il sibilo del vento e gli scoppiettii del fuoco, in un’atmosfera tetra e claustrofobica. L’espressione dipinta sul volto di Ariel esprimeva appieno il suo disappunto.
«Quando vi sarete ripresa dalle fatiche del viaggio vedrete le cose sotto un’altra luce» disse Simone, porgendo ad Ariel una tazza di tè fumante.
«Simone ha ragione,» confermò Manfredi. «Ora siete stanca e la vostra capacità di discernimento è confusa.»
‘Confusa un corno!’ pensò Ariel, inviando al marito un’occhiata velenosa, ben sapendo che non avrebbe comunque avuto alcun effetto su di lui, impermeabile ai suoi capricci, alle sue proteste, alle sue scenate.
«Assaggiate un biscotto» la esortò Simone conciliante, subodorando aria di tempesta tra i coniugi. «Li ha fatti la mamma di Oliver, il ragazzino che si è occupato dei vostri bagagli. Sono veramente squisiti.»
«Ottimi» confermò Manfredi, che si servì a piene mani dei fragranti dolcetti dal pungente profumo speziato.
«Vorrei andare a controllare Valentino» disse Ariel, posando la tazza. Nonostante il suo stomaco brontolasse per la fame, rifiutò tacitamente l’offerta.
Simone suonò un campanellino e poco dopo si presentò una donna alla quale Simone diede disposizioni in cornico, quindi si rivolse ad Ariel. «Andate con Maeve, vi condurrà nelle stanze di vostro figlio.»
Ariel si congedò e seguì imbronciata la domestica.
«Vostra moglie non sembra affatto contenta,» osservò Simone una volta che Ariel non fu più a portata di orecchio.
«È solo stanca per il viaggio» rispose Manfredi senza eccessiva convinzione.
«Mi auguro per voi che abbiate ragione; diversamente dovete aspettarvi giornate molto pesanti.»
«Datele tempo di ambientarsi.»
Simone annuì, poco convinto.
«Certamente. Siete appena arrivati e il viaggio è stato faticoso e queste senza dubbio sono ottime ragioni che giustificano il suo atteggiamento diciamo riluttante. Se ha difficoltà ad adattarsi ora che siamo in estate, l’inverno sarà un vero incubo per entrambi.»
«Ariel crede che ci tratterremo solo un paio di mesi … giusto il tempo di sistemare i documenti riguardanti la proprietà» confessò Manfredi a malincuore. Non era abituato ad avere segreti, ma, date le circostanze, aveva preferito palesarle solo una piccolissima parte della verità.
«E così non le avete rivelato il vero motivo del viaggio. Preferirei non essere presente il giorno che dovesse scoprirlo» ribatté Simone.
«Non lo scoprirà!» affermò Manfredi con veemenza.
«Non sarò certo io a dirglielo, siatene certo.» replicò Simone con un’eloquente alzata di spalle.
Seguì un momento di silenzio carico di imbarazzo: entrambi, per ragioni differenti si sentivano a disagio, e fu Manfredi a sciogliere il ghiaccio.
«Cercate di capire, se le avessi detto la verità, non avrei fatto altro che accrescere inutilmente la sua preoccupazione. Da un po’ di tempo soffre di incubi; si sveglia nel cuore della notte urlando, si rifiuta di riprendere sonno e trascorre il resto della notte piangendo. Credo siano la conseguenza di un’intensa spossatezza. Valentino è un bambino che ha bisogno di cure assidue e Ariel si spende fino al limite delle proprie forze. Non potevo accollarle anche questo … Non ho potuto nasconderle la morte del conte, anche se le ho risparmiato i particolari, ma non ho avuto il coraggio di... Non so cosa farei senza di lei, come reagirei se guardandomi intorno non dovessi più vederla, se le succedesse qualcosa …» Manfredi si interruppe e si passò una mano sulla fronte, quasi a voler scacciare il proprio cruccio.
«Comprendo il vostro desiderio di proteggere Ariel, ma se dovesse accadere qualcosa e lei scoprisse che eravate a conoscenza di informazioni che avete tenuto per voi come reagirebbe? È vero che la maggior parte delle mogli non sa cosa fa il marito e viceversa, ma voi non appartenete a quella categoria. Vi ho visti affrontare insieme esperienze che avrebbero prostrato lo spirito più tenace e uscirne a testa alta, magari con le ossa rotte, ma mai sconfitti. Perché vi ostinate a tacerle la verità? Già mi par strano che non abbia intuito qualcosa e chissà quali pensieri passano nella sua testolina.»
«Il dolore per l’inaspettata morte di Valentino si è dimostrato un ottimo pretesto a motivare il mio comportamento. Ad ogni modo, sono certo che capirebbe che ho taciuto per proteggerla …»
«Ma se non credete nemmeno voi alle vostre parole!» sbottò Simone, dando una manata al tavolino che fece oscillare pericolosamente il prezioso servizio da tè. «Date retta a me, parlatele, ditele la verità. Qui sarete al sicuro. Certo non avrete tutte le comodità del vostro palazzo o della Residenza, ma è sufficientemente confortevole.»
«Non vi ho nemmeno ringraziato per l'accoglienza che ci avete preparato, ma la presenza di Ariel mi impediva di parlare apertamente» si scusò Manfredi.
«Ho notato il turbamento di vostra moglie nel vederci, me e Matteo, giù al porto. Resta sempre a bocca aperta come una ranocchia, non ha perso il vezzo. Adesso me ne spiego la ragione. Se desiderate che il vostro segreto resti tale, dovete dirmi cosa le avete raccontato e, un’altra cosa, dovrò informare anche Matteo di tutto ciò che ci siamo detti. Lui conosce la verità ed è convinto che anche Ariel ne sia al corrente, come voi e me.»
«Ho mantenuto la versione che avevamo concordato: che il conte aveva nominato erede di questa casa nostro figlio e che era indispensabile la mia presenza qui per espletare le pratiche burocratiche.»
«Bene, dirò alla servitù che d’ora in avanti prenderanno ordini da voi o dalla marchesa.»
«Ma cosa penseranno? Certamente circoleranno dei pettegolezzi» replicò Manfredi perplesso.
«Un pregio del popolo inglese è la riservatezza, la chiamano privacy e ci tengono molto. In altre parole, si fanno i fatti loro» lo rassicurò Simone.
«È tutto così incerto» disse Manfredi.
«Nella vita tutto è incerto, ma quando arriva il momento di prendere una decisione, quando si è la sola persona da cui dipende l’incolumità di altri innocenti, allora non c’è più tempo per i ‘se’ e per i ‘ma’.»
«Siete un uomo saggio Simone.» Manfredi sorrise e alzò la tazza per brindare.
« Più si invecchia, più si diventa saggi, o almeno questa è la regola. Si è fatto tardi: io vado a dormire, ma voi restate quanto volete.»
Manfredi annuì: desiderava restare solo a meditare. Osservando Simone che si allontanava, ne notò le spalle leggermente curve e l’andatura malferma. Gli anni avevano lasciato il segno anche su quel fisico robusto. Provò un moto di tenerezza per quell’uomo generoso e fedele.
La camera del bambino era piccola ma accogliente e calda: un letto, una cassapanca, un comò e varie candele, un tappeto per isolare il pavimento di pietra formavano l’arredamento.
Dopo essersi accertata che Valentino avesse ricevuto le cure necessarie e che la sistemazione dei domestici fosse adeguata, Ariel si ritirò nella propria stanza. Andò alla finestra; le luci nelle case dei pescatori si spensero una dopo l’altra. La pace della notte la avvolse. Il silenzio alieno le procurò un brivido di sgomento, allora prese il violino e intonò una melodia malinconica.
Manfredi la raggiunse che già era scoccata la mezzanotte. Lei non era riuscita a prendere sonno, ma tentò di dare al proprio respiro un ritmo regolare e profondo che comunque non ingannò Manfredi. Il legame che li univa andava ben oltre i sensi.
«Che cosa vi turba?» domandò Manfredi, steso accanto a lei.
«Ho paura» confessò Ariel, vergognandosi un poco per quella che riteneva una condotta infantile. «Ho paura di addormentarmi. Quegli orribili sogni mi perseguitano.»
Manfredi l’abbracciò forte: «Sono solo sogni, non possono farvi alcun male» la rassicurò. Con un bacio asciugò le lacrime che le rigavano le guance. Ariel si rannicchiò contro di lui. Il calore del suo corpo lo stordiva; affondò il volto nei suoi capelli e ne aspirò il profumo, domandandole mentalmente perdono per averla ingannata. Si rendeva conto di essersi infilato in un ginepraio da cui sarebbe stato difficile uscire, ma l’aveva fatto per proteggere lei e il piccolo, e questa era una valida giustificazione.
Il tambureggiare della pioggia sulle tegole lo destò: allungò un braccio e trovò il guanciale vuoto. Indagò velocemente la stanza: di Ariel non c’era traccia. Col cuore a mille, si liberò dalle coperte, infilò un paio di brache, spalancò la porta e uscì. Per un attimo si fermò disorientato; non aveva ben presente la disposizione delle camere e l’oscurità rendeva più difficoltosa la sua ispezione. Con i sensi all’erta, percorse il corridoio. Finalmente scorse una figura avvolta in uno scialle affacciata alla veranda.
«Cosa fate qui?» domandò. Si accorse di aver usato un tono di voce più duro di quanto avrebbe voluto, ma si era preso un tale spavento! Nella fretta, aveva solo infilato la camicia da notte nei calzoni ed ora tremava come una foglia.
«Che spettacolo meraviglioso e terrificante» disse Ariel ipnotizzata dalla tempesta. Un cielo di pece si confondeva col mare che mugghiava minaccioso. Le onde, illuminate a tratti dal bagliore dei fulmini schiumavano contro gli scogli.
«Se si fosse scatenato un simile inferno mentre attraversavamo il canale …» mormorò col panico nella voce.
«Questo è l’oceano, mia cara, nel canale non imperversano tempeste di questa intensità» la rassicurò, appoggiandole le mani sulle spalle.
«Saremmo sicuramente affogati; nessuna nave uscirebbe indenne da una simile burrasca» proseguì Ariel come se nemmeno avesse udito le parole di Manfredi. Iniziò a tremare in maniera incontrollabile. Con gli occhi colmi di terrore fissava il marito senza vederlo. Attorno a lei c’era solo acqua, nera, fredda mentre un fragore assordante le rimbombava nelle orecchie.
Manfredi la prese tra le braccia un attimo prima che cadesse a terra priva di sensi.
Ariel sentiva sul volto un soffio caldo, rassicurante; era distesa su qualcosa di morbido, attorno a lei c’era silenzio. Aprì gli occhi ma nulla di ciò che vedeva le era familiare, tranne il volto amato di Manfredi chino su di lei che la accarezzava premuroso. Richiuse gli occhi.
«Perché sorridete?» La voce veniva da lontano, ma era la voce di Manfredi per cui era al sicuro. Non avrebbe mai permesso che le accadesse qualcosa di male.
«Sono felice mormorò.» Prese tra le sue la mano che le stava accarezzando il volto, la portò alle labbra e vi depose un bacio. «Il vostro profumo … è così dolce!» disse, premendola sulla guancia.
Manfredi strizzò le palpebre per ricacciare le lacrime che gli gonfiavano gli occhi. Si stese accanto a lei e rimase ad osservarne il volto, oppresso da foschi pensieri, dettati in parte dal senso di colpa e in parte dalla preoccupazione, finché il sonno non ebbe il sopravvento.
La luce del mattino depositava una miriade di diamanti sulla superficie del mare leggermente increspata da brevi onde che si rincorrevano. Della tempesta della notte non v’era traccia.
Seduti in veranda, Ariel e Manfredi consumavano la prima colazione preparata dalla solerte Maeve, che elargì loro un sorriso equino, quando entrambi mostrarono di apprezzare le sue doti culinarie.
«Ho fatto preparare la carrozza» annunciò Manfredi, intento a masticare uno dei deliziosi dolcetti. Ariel alzò gli occhi dalla tazza di tè che stava sorseggiando e fissò il marito con uno sguardo interrogativo.
«Simone mi ha informato di quanto le giornate di sole siano rare e che è il caso di approfittare di ogni minuto della sua apparizione. È la giornata ideale per visitare il villaggio e i dintorni, ne convenite?»
In quel momento irruppe nella stanza Valentino che corse ad ancorarsi ad una gamba del padre, sorridendogli fiducioso. Ariel diede ordine alla balia di preparare il bambino; sarebbe andata a prenderlo nella sua stanza quando la carrozza fosse stata pronta.
Il paesaggio attorno alle alte scogliere era brullo e privo di attrattive. Nonostante il sole brillasse alto nel cielo, il colore predominante era un ocra sbiadito. Qua e là qualche cespuglio spinoso stava a testimoniare quanto la vita fosse dura per tutti in quel territorio selvaggio, perennemente battuto dal vento.
Lasciarono la carrozza all’ingresso del villaggio. Ariel, Manfredi e tra loro Valentino, si avviarono verso la minuscola piazza. Vennero accolti dai suoni e dagli odori tipici del mercato. I venditori che decantavano la loro mercanzia in quella lingua incomprensibile e straripante di suoni gutturali suscitarono la meraviglia del bambino che si divertì a imitarne i suoni. Le grida si mescolavano al pianto di bimbi, all’abbaiare dei cani. Il profumo pungente della zuppa di frutti di mare proveniva da un calderone, davanti al quale un uomo armato di mestolo, distribuiva porzioni in cambio di pochi spiccioli o di altra mercanzia. L’attenzione di Valentino si catalizzò su un cesto dentro al quale una nidiata di gattini gnaulava petulante. Allungò il braccio per afferrarne uno e Ariel fece appena in tempo a scaraventarlo di lato prima che mamma gatta, con un balzo, gli saltasse addosso. Spaventato, Valentino corse a rifugiarsi, piangendo, dietro il corpo del padre. Manfredi lo prese in braccio e pazientemente gli spiegò che mamma gatta aveva difeso i suoi piccoli. ‘Proprio come io sto proteggendo te ’ pensò.
Più che per lo spavento, Valentino non smetteva di strepitare perché non era riuscito ad accarezzare il micio. Ariel per un po’ lo ignorò, ma alla fine, esasperata, lo strappò letteralmente dalle braccia del padre e gli scaldò il sedere con due sonori scapaccioni, intimandogli di tacere immediatamente.
Forse per lo stupore o forse per l’onta subita, il bambino sgranò gli occhi sul volto della madre che lo fissava torva e tacque all’istante. In mezzo ai genitori, proseguì la passeggiata senza più capricci.
Attraversato il mercato, svoltarono in una viuzza che conduceva al porto dove l’odore predominante era il tanfo del rigagnolo che vi scorreva in mezzo. Persino quel cattivo odore era rassicurante, pensò Manfredi, in quanto conferma che la vita procedeva come sempre, incurante delle tempeste.
«Avete fame?» le domandò, avendo scorto in lontananza l’insegna di una taverna.
«Quello che desidero è bere,» rispose Ariel. Temendo di avere freddo, aveva indossato l’abito e il mantello pesanti, sotto i quali ora grondava di sudore.
La taverna aveva una terrazza riparata da un pergolato di glicini la cui fragranza profumava l’aria. C’erano pochi avventori e poterono scegliere di sedersi ad un tavolo abbastanza riparato dal vento che saliva dal mare che, sotto di loro, faceva udire la sua voce cadenzata, mentre le grida dei gabbiani perennemente in cerca di cibo, riempivano l'aria.
Con visibile disappunto, l’oste portò la brocca d’acqua che Manfredi aveva ordinato in un inglese approssimativo, ma cambiò atteggiamento e si mostrò un poco più affabile quando, più a gesti che a parole, ordinò due porzioni di ploughman’s e una mezza pinta di sidro.
Poco dopo l’oste tornò con un vassoio colmo di focaccine e pesce fritto in una mano e un piatto di formaggio di capra (l’odore era inconfondibile) e di erbe cotte.
In meno che non si dica, sui piatti rimasero solo le briciole. Anche Valentino, solitamente restio a ingoiare qualcosa che avesse un gusto diverso dal latte, mangiò le focaccine e il formaggio, impiastricciandosi allegramente le manine e il visetto. Dal loro punto di osservazione, il panorama era stupendo e si soffermarono ad ammirarlo, uniti dalla comunione dei loro spiriti. Il bambino si arrampicò sulle ginocchia del padre e, cullato dal ritmo della risacca, infilò il pollice in bocca e si addormentò. Un rumore di passi sul sentiero ghiaioso li fece voltare nello stesso istante: la balia scortata da Simone e Matteo stava venendo verso di loro. Manfredi le consegnò il figlio e si raccomandò che il bambino bevesse la sua tisana prima di metterlo a letto.
Ariel seguì con lo sguardo il gruppetto che si allontanava: se avesse il suo istinto si sarebbe precipitata verso di loro e avrebbe strappato il figlio dalle braccia della bambinaia. Con uno sforzo di volontà si trattenne, ma non riuscì a nascondere a Manfredi l’ansia che la opprimeva. Gli sfiorò la mano in una rapida carezza più intima di un abbraccio, i loro occhi si incontrarono; Ariel sentì tutto il calore di quello sguardo e qualcosa dentro di lei si calmò.
«Ve la sentite di camminare?» domandò premuroso Manfredi.
Ariel annuì. Si diressero verso la scogliera, percorrendo il sentiero che portava ad una piccola cala, mano nella mano.
«La vita è difficile per tutti in questo posto» commentò Ariel, indicando al marito i pochi cespugli striminziti.
«La salsedine e il vento non ne favoriscono certo la crescita, ma loro sono tenaci e combattivi, proprio come un ragazzo che conobbi anni fa. Sapete, era fuggito da casa per andarsene in giro a raccogliere musiche dimenticate; le trascriveva e poi le provava sul suo violino» disse Manfredi con noncuranza.
«E quel ragazzo che fine ha fatto?» lo stuzzicò Ariel.
«Si è trasformato in una bellissima fanciulla, proprio come nelle favole» rispose.
«Credo che stiate facendo un po’ di confusione: nelle favole è un ranocchio che si trasforma in principe» lo corresse petulante.
« Ma la mia è una favola speciale» le mormorò all’orecchio, agganciando il suo sguardo.
Un’ombra di malinconia attraversò l’allegro scintillio dei suoi occhi. Ariel immediatamente percepì il mutamento di umore del marito e strinse più forte la sua mano. Manfredi ricambiò la stretta, rassicurandola.
«Sarà opportuno rientrare, quelle nuvole non promettono nulla di buono» disse, osservando le nubi scure che a tratti coprivano il sole, ormai basso all’orizzonte. Ripercorsero il sentiero e oltre una stretta curva apparve un insieme eterogeneo di frontoni e camini di mattoni scoloriti e consumati su un’armatura esterna di grosse travi. Ariel si bloccò: rigida come un palo osservava lo scenario mentre sul suo viso prendeva forma un’espressione di panico.
«Che avete?» domandò Manfredi, fissandola attonito.
«Solo un capogiro; colpa di questo vento. Non sono ancora assuefatta a questo clima» mentì, sorridendo al marito. Per un lungo istante rimasero in silenzio. Manfredi le prese il viso tra le mani e premette le labbra su quelle di lei. Si sentiva in colpa ogni giorno di più per averla trascinata in quell’avventura, ma soprattutto sentiva il peso della menzogna. Ariel, dal canto suo, era turbata dal malessere che la affliggeva e di cui non sapeva riconoscere la causa.
«Vi amo» mormorò in un soffio, staccandosi da lei.
«Vi amo anch’io» rispose Ariel, rasserenata da quelle due parole che sapeva sincere. Le tornò alla mente una frase che sua madre ripeteva spesso quando, lei o le sue sorelle, le domandavano come facesse a comprendere e accettare certi comportamenti del marito. «Non è necessario comprendere se si ama.» La ripeté in un sussurro, e il vento disperse le sue parole.
Giunti a casa, Ariel si avviò immediatamente verso la camera del bambino e Manfredi si ritirò in biblioteca, in attesa che venisse annunciata la cena. Crollò sulla poltrona a fianco del camino e volse lo sguardo attorno: tutto gli era estraneo; i mobili, le suppellettili, niente di quella stanza gli apparteneva. Fu colto da un senso di smarrimento che gli procurò un dolore quasi fisico. Avesse avuto almeno il clavicembalo, avrebbe potuto trovare conforto nella musica. Gli mancavano le conversazioni serali con Giovanni, il sovrintendente, che puntualmente lo ragguagliava sulla situazione delle sue tenute e sui progressi del suo figlioccio. Sorrise tra sé, ricordando l’imbarazzo dell’uomo la sera che gli aveva chiesto di fare da padrino di battesimo al suo primogenito. Si rigirava nervosamente il cappello tra le mani e l’aveva ridotto a un cencio informe. Il suo imbarazzo era aumentato quando lui, per celia, l’aveva rimproverato di averlo tenuto all’oscuro della lieta notizia e infine la gioia nei suoi occhi quando l’aveva rassicurato che per lui sarebbe stato un onore fare da padrino a suo figlio. All’epoca era convinto che non avrebbe mai avuto un figlio suo, ma anche dopo la nascita di Valentino aveva continuato a provvedere al bambino come se fosse stato suo figlio. Anche Ariel gli era affezionata e lo viziava spudoratamente. Nel silenzio della stanza gli parve di risentire l’educato tocco alla porta che ogni sera annunciava il suo arrivo.
«Ho bussato ma non mi avete sentito». La voce di Simone, lo fece trasalire.
«Ero assorto nei miei pensieri» si scusò il marchese, sorridendo stancamente all’uomo che gli stava di fronte.
«Accomodatevi» lo invitò, rivolgendogli un sorriso tirato.
«Ho assoluta necessità di parlarvi. Vi ho visto rientrare e mi sono preso la libertà di venirvi a disturbare.»
«Vi ascolto» rispose Manfredi con un leggero tremito ansioso nella voce.
«Non sono buone notizie quelle che vi porto.» iniziò titubante.
Manfredi, con un gesto impaziente della mano lo invitò a proseguire.
«Subito dopo la vostra partenza, a palazzo c’è stato un incendio …»
«Un incendio?» lo interruppe Manfredi allarmato, e senza lasciare il tempo di rispondere a Simone. «Qualcuno si è fatto male?» si informò.
«No, no, tranquillizzatevi, non si è fatto male nessuno, ma hanno dato fuoco ai granai e tutto il raccolto è andato in fumo.»
«Come è potuta succedere una cosa simile?»
«Non è successa» puntualizzò Simone, spazientito. «Il fuoco ai granai è stato appiccato!»
«Volete dire che qualcuno ha intenzionalmente distrutto tutto il raccolto? Perché avrebbe dovuto fare una cosa simile …»
«Accidenti a voi marchese» sbottò Simone «Possibile che non capiate? È un avvertimento: avrebbero dato fuoco al palazzo, ma l’hanno trovato disabitato e allora si sono accontentati di bruciare i raccolti.»
«Avete detto che è accaduto subito dopo la nostra partenza … ma è trascorso più di un mese!»
«Beh, sapete qui le notizie arrivano con un certo ritardo, quando arrivano» rispose sarcastico Simone.
Manfredi si abbandonò sulla poltrona e trasse un lungo sospiro. «Avete ragione» ammise stancamente. «Non siamo proprio a due passi da casa» proseguì, accennando un mezzo sorriso.
«Ed è un bene per voi e per la vostra famiglia.» affermò Simone. Poi, per alleggerire l’atmosfera cupa si dilungò a spiegare al marchese il percorso tortuoso compiuto dalla notizia, soffermandosi su particolari futili riguardo al viaggio del mercantile proveniente dall’Italia e sulle abitudini goderecce del capitano amico suo che gli aveva portato il dispaccio. Manfredi lo lasciò parlare a ruota libera.
«Vi sono debitore.» disse, quando Simone terminò il suo racconto che senza ombra di dubbio aveva manipolato a suo piacimento, rivolgendogli uno sguardo colmo di riconoscenza.
«Non mi dovete niente» si schernì Simone. «Voi, Ariel e il piccolo siete le persone più care che ho al mondo, ora che il conte Valentino non c’è più.»
Come suonavano strane quelle parole in bocca ad un uomo rude, abituato alla vita difficile del soldato. Manfredi comprese la profondità dei sentimenti che esse intendevano esprimere e avrebbe voluto abbracciarlo, ma si trattenne, ben sapendo che un gesto tanto confidenziale lo avrebbe messo in profondo imbarazzo.
«Domani vorrei portare Ariel e il bambino giù alla baia. Vorreste accompagnarci?». Dopo una breve esitazione, Simone annuì.
«Andremo quando la bassa marea sarà al culmine, così potrete visitare le grotte. Porterò una torcia, è buio pesto là dentro.»
«Non sapevo ci fossero delle grotte.»
«Oltre le dune, lungo la scogliera; non si vedono e con l’alta marea il loro ingresso viene ostruito dall’acqua. Alcune sono lunghi cunicoli, ma altre sono grandi come questa stanza..»
«Allora siamo d’accordo» disse Manfredi, improvvisamente animato. «Sarà un’avventura memorabile per il piccolo e anche per Ariel, spero» concluse titubante. Con deliberata brutalità, Simone stroncò il suo entusiasmo. «Non sarà certo una passeggiata al mare che risolverà la faccenda tra voi e vostra moglie. Decidetevi a dirle la verità, una buona volta!» «Domani, di ritorno dalla gita le parlerò, ve lo assicuro» disse. «Ma dell'incendio non fatene parola con lei, ne resterebbe troppo turbata.» Simone annuì e si congedò con un inchino; poco dopo il marchese andò a raggiungere Ariel la quale accolse la notizia della passeggiata alla baia con un sorriso abbagliante come il sole.
Simone si caricò Valentino sulle spalle e, seguito da Ariel e Manfredi, si incamminò lungo la strada costiera. L’ingresso della grotta che traforava il promontorio stesso era orlata da sbuffi di schiuma che a breve si sarebbe ritirata, lasciando la caverna completamente all’asciutto. Con le spalle leggermente incurvate per contrastare il vento risalirono il viottolo lungo la falesia; camminavano in silenzio; d’altra parte le loro parole sarebbero state inghiottite dal ruggito del mare che si ritirava e dalle grida dei gabbiani. Facendo attenzione a non scivolare sulle pietre bagnate, ansimanti e sudati, impiegarono più di mezz’ora a raggiungere l’ingresso della grotta.
Simone li precedette all’interno; al riparo dal vento accese la torcia e immediatamente l’odore della pece si diffuse nell’aria facendo lacrimare gli occhi. Il cunicolo era abbastanza ampio da permettere di camminare agevolmente; la fiamma, stuzzicata dall’aria, disegnava bizzarri ghirigori sulla pietra luccicante di umidità. Mano a mano che si inoltravano nel budello, il rumore del mare si affievoliva, finché non ci fu che silenzio, disturbato appena dal rumore dei loro passi attutiti dallo strato di sabbia depositata dal mare. Un silenzio irreale, quasi magico. Valentino camminava davanti alla madre e ogni tanto alzava il visetto verso di lei. Con l’indice appoggiato alle labbra, Ariel lo esortava a tacere e a seguire Simone, la cui figura massiccia si stagliava davanti a loro come un monolite di scisto, forte e rassicurante. Là sotto anche il tempo perdeva significato; Ariel non avrebbe saputo dire se fossero trascorse ore o minuti. All’improvviso si trovarono di fronte una parete di roccia che sbarrava il cammino. Si voltò e rivolse uno sguardo perplesso al marito. Manfredi allargò le braccia e stava per parlare quando la luce della torcia scomparve e il buio li avvolse. Soffocando un urlo, Ariel si precipitò tra le braccia di Manfredi, il quale, invece di accoglierla, in maniera piuttosto rude l’afferrò per le spalle, la spinse contro la parete e a tentoni corse in avanti gridando il nome del figlio.
«Venite a vedere!» li esortò Simone, a cui fecero eco i gridolini di gioia del bambino. Manfredi chiuse gli occhi; le gambe gli tremavano e il cuore batteva ad un ritmo preoccupante.
«Perdonate, credevo mi seguiste» si giustificò Simone, comparendo dalla fessura della parete, invisibile dal cunicolo e illuminando il volto stravolto del marchese.
«Vi strangolerei» sibilò costui, riprendendo lentamente il controllo sulle sue paure; ma Simone già era davanti ad Ariel che, aggrappata alla roccia, fissava il vuoto con gli occhi sbarrati. La chiamò più volte e, non ricevendo risposta, prima la scosse poi, non riscontrando alcuna reazione, la schiaffeggiò. Ariel ebbe un sussulto, come se si fosse svegliata di soprassalto.
«Accidenti a voi, mi avete fatto spaventare a morte!» brontolò Simone, prendendola per un braccio e guidandola verso il marito.
«Venite?» La vocina insistente di Valentino trovò in Simone l’unico interlocutore.
«Arriviamo, arriviamo!» rispose, esortando Ariel e Manfredi a seguirlo. Il marchese passò un braccio attorno alla vita della moglie, sorreggendola. «Come vi sentite?» domandò premuroso. Ariel annuì e riuscì anche a rivolgergli un timido sorriso.
La fenditura della roccia portava ad uno stretto corridoio lungo solo un paio di metri al cui termine li attendeva Valentino scalpitante. Lo spettacolo che si presentò ai loro occhi li lasciò senza fiato. Con un paziente lavoro durato millenni il mare aveva scavato una grotta che nemmeno la creatività più disinvolta di un architetto avrebbe potuto concepire. Simone posò la torcia in un foro che sembrava fosse stato creato apposta per sorreggerla e prese Valentino per mano.
«Ti piace questo posto?» domandò, sollevandolo per farlo sedere su un alta sporgenza, simile ad un trono. Il bambino annuì raggiante. «Allora ti nomino re della grotta.» «Ma non ho la corona!» lo rimproverò petulante. «Oh, quella l’ho nascosta perché i pirati potrebbero rubarla» si inventò. «Ma avete il mantello, maestà» disse, drappeggiandogli sulle spalle la coperta che aveva portato con sé. Si guardò intorno e scorse un pezzo di legno, probabilmente lasciato dalla marea. Lo prese e lo mise in mano al bambino. «Questo è lo scettro, adesso sei un vero re.» Mentre Simone era impegnato con il bambino, Ariel e Manfredi ammiravano quel capolavoro della natura, formatasi probabilmente nel Mesozoico e nel Cenozoico. Le forme morbide, tondeggianti, sensuali delle pareti, interrotte da aguzze spade di roccia riflettevano i mutevoli interventi operati dal mare. Il gocciolio ipnotico proveniente da un punto imprecisato rendeva l’ambiente suggestivo. Manfredi accarezzò la guancia della moglie ancora arrossata dallo schiaffo e lei lo ricompensò con un sorriso sincero. «Che posto meraviglioso!» disse, guardandosi attorno estatica.
«Immaginavo vi sarebbe piaciuto» intervenne Simone. «Ma ora dobbiamo andarcene. Tra non molto la marea comincerà a salire e se non ci affrettiamo all’ingresso della grotta l’acqua arriverà alle caviglie» disse, prelevando Valentino dal suo trono. Se lo mise sulle spalle, afferrò la torcia e si avviò alla testa del gruppo.
«Simone è stato nominato cavaliere del re o cavallo del re?» domandò Manfredi ad Ariel a voce abbastanza alta da farsi udire dall’interessato. «Destriero di corte!» rispose Simone, in tono offeso.
Ripercorsero il tunnel molto più velocemente che all’andata ed emersero alla luce quando il mare lambiva appena la lingua di sabbia sottostante. La superficie dell’acqua, appena increspata dalle corte onde che si rincorrevano, rifletteva il colore del cielo, viola al tramonto. Il vento si era fatto più intenso e azzannava gli scheletrici arbusti lungo il sentiero.
«Stanotte ci sarà tempesta» pronosticò Simone, annusando l’aria.
«Ma se non si vede una nuvola» lo contraddisse Manfredi, osservando il cielo, incendiato da strisce di luce arancioni.
«Ascoltate il mare, lui non mente mai» concluse Simone categorico.
Attraversarono il villaggio deserto. Dalle capanne dei pescatori, addossate le une alle altre a formare una barriera contro la furia del vento, proveniva l’odore di montone, di pesci, di patate e cipolle che cuocevano. Infreddoliti e stanchi, giunsero a casa che già faceva buio e accettarono riconoscenti il tè fumante che Maeve servì loro davanti al camino acceso. La balia prese in consegna il bambino che durante il tragitto si era addormentato, avvolto nella coperta. Protestò solo quando la donna tentò di togliergli dalla manina il bastoncino che teneva stretto.
«Lasciateglielo» le ingiunse Ariel. La ragazza aprì la bocca per protestare, ma di fronte allo sguardo inequivocabile della padrona, abbassò gli occhi e si congedò con un breve inchino. Anche Simone, borbottando qualcosa a proposito dei cavalli da accudire, si dileguò, lasciando soli i due coniugi, non prima però di aver lanciato a Manfredi un’occhiata di intesa. Ariel si servì un’altra tazza della profumata bevanda che cominciava ad apprezzare.
«Andate a prendere il violino, vorrei ascoltare un po’ di musica» la invitò Manfredi.
«Come desiderate» lo assecondò. Passandogli accanto, Manfredi le sfiorò la mano.
Le parole profetiche di Simone si avverarono puntualmente e nella notte si scatenò una tempesta furibonda. Attraverso gli scuri della camera i lampi illuminavano il cielo nero come le ali di un corvo, accompagnati da tuoni che facevano tremare i vetri e da scrosci violenti di pioggia. Simone si affacciò all’uscio della sua camera e rimase ad ascoltare la furia degli elementi: per quella notte non sarebbe arrivata nessuna minaccia dal mare. Soltanto un pazzo si sarebbe azzardato ad avvicinarsi alle coste della penisola con quel tempo.
Il mattino successivo, l’unico segno lasciato dall’impeto del mare era una colonna di nebbia che presto si sarebbe dissolta. L’aria pulita profumava di salmastro e i pascoli in lontananza brillavano sotto il cielo sgombro di nuvole.
«Mi accompagnate al villaggio?» domandò Ariel al marito, allacciandosi il corsetto.
«Ho del lavoro da sbrigare, fatevi accompagnare dalla governante e da Matteo» le rispose in tono sgarbato. Ariel lo guardò sconcertata.
«Come desiderate, ma è una giornata così bella. È un vero peccato che la sprechiate rintanato qui tra le vostre carte» insistette.
«Ci sono affari che devo sbrigare» tagliò corto Manfredi. «Portate con voi anche la balia e il bambino. Non desidero essere disturbato» ordinò, uscendo dalla stanza senza nemmeno rivolgerle una parola di saluto.
Rimasta sola, Ariel si soffermò ad analizzare il cambiamento avvenuto nel comportamento del marito da quando erano partiti dall’Italia, anzi, da quando aveva appreso la notizia della morte del conte Valentino. All’inizio aveva attribuito il suo malumore al lutto per la perdita dell’amico, ma da allora era trascorso parecchio tempo. I modi bruschi, alieni alla sua indole gentile, erano segnali di un’apprensione profonda. Il suo sguardo, una volta diretto, ora era sfuggente e se gli domandava ragione di questo atteggiamento, rispondeva a monosillabi o non rispondeva affatto, limitandosi a un ‘perdonatemi’ e andando a rifugiarsi nello studio. Era giunta a pensare che la sua presenza lo irritasse. Inoltre c’era quella fissazione di non permetterle di uscire di casa da sola. Ancora rabbrividiva al ricordo della scenata che le aveva fatto quella volta che era uscita per comprare del filo senza avvisare nessuno della casa. La sua assenza era durata poco più di mezz’ora ma quando era tornata lui l’aveva praticamente trascinata nella biblioteca e l’aveva rimproverata con parole dure. Colta di sorpresa, Ariel non aveva replicato, ma in seguito aveva evitato di restare sola con lui per giorni, dormendo anche nella camera di Valentino, adducendo la scusa che il bambino non stava bene. La situazione, però, le pesava moltissimo e, alla fine, si era decisa a confidarsi con la cognata Letizia, la quale, aveva intuito che qualcosa aveva spezzato l’armonia che regnava tra i coniugi, ma non era stata in grado di darsi una spiegazione. Consigliò ad Ariel di fare lei un primo passo per riconciliarsi. Manfredi era tornato a dimostrarsi un marito affettuoso e un padre premuroso e Ariel aveva deciso di dimenticare l’increscioso episodio. Poi, come un fulmine a ciel sereno, era arrivato l’annuncio del viaggio. A malincuore, ma senza darlo a vedere, Ariel aveva ubbidito, ma gli incubi che già la tormentavano, si erano intensificati. Ora, isolata in una terra straniera, aveva ancor più nostalgia della sua casa; la lontananza da Letizia e dai suoi familiari, la mancanza di punti di riferimento e l’incertezza della situazione la rendevano insicura e vulnerabile. Decise che avrebbe lasciato trascorrere ancora un po’ di tempo prima di affrontare l’argomento col marito; ma allora avrebbe preteso risposte precise alle sue domande. Promise a se stessa di guardare avanti con coraggio e determinazione. Rinfrancata dai suoi stessi pensieri, si sistemò lo scialletto sulle spalle, prese il violino e si accinse a raggiungere la camera del figlio. Era una bella giornata e gli avrebbe fatto bene una passeggiata all’aria aperta. Matteo, probabilmente già avvertito dal marchese, l’attendeva all’ingresso.
La piccola piazza del villaggio era stranamente animata.
«Chissà cosa è successo» domandò Ariel curiosa.
«Aspettate qui» ordinò Matteo e si diresse a passo deciso verso la piccola folla di pescatori. Ariel si alzò in punta di piedi, cercando di sbirciare tra le teste, ma il capannello formava un cerchio compatto attorno a quello che doveva rappresentare il motivo di interesse. Riuscì a distinguere Matteo che parlava con uno dei pescatori e attese pazientemente che l’uomo tornasse, cosa che avvenne di lì a pochi minuti.
«Hanno pescato un grosso pesce e adesso se lo stando spartendo.» disse Matteo. Poiché Valentino iniziava a dare segni di impazienza, si incamminarono lungo un viottolo che conduceva fuori dal villaggio verso i pascoli. Non c’erano pericoli, pertanto Ariel lasciò il bambino libero di scorrazzare nell’erba e ne approfittò per impartire una breve lezione di buona creanza alla balia, il cui comportamento, a volte inadeguato al suo ruolo, l’aveva irritata in più di un’occasione. Matteo, taciturno e scuro in volto, precedeva le due donne. Camminarono per un’ora buona prima che Valentino, stanco di correre e rotolarsi nell’erba, chiese di essere preso in braccio. Si sedettero su uno dei tanti muretti di pietra che delimitavano i pascoli e Ariel estrasse dalla custodia il violino e intonò un motivetto allegro.
«Che avete Matteo?» domandò turbata dall’insolito comportamento accigliato e taciturno dell’uomo solitamente gioviale e affabile. «Non vi è piaciuta la mia musica?» lo punzecchiò.
«Oh no, suonate sempre magnificamente» rispose, accennando un sorriso stiracchiato che sembrava più una smorfia.
«E allora cosa vi succede? Perché quella faccia scura?» insistette.
«Ecco … devo aver mangiato qualcosa che mi ha fatto male» si lamentò.
«State male? Avete la febbre?» si allarmò Ariel, posando il palmo della mano sulla fronte dell’uomo che istintivamente si ritrasse imbarazzato.
«State tranquilla, non è niente; passerà presto.» la rassicurò.
«Rientriamo, allora. Maeve vi preparerà una tisana con le erbe che mi ha donato la moglie di Giovanni prima di partire. Fa’ miracoli; Manfredi beve un intruglio preparato da lei quando è afflitto da uno dei suoi attacchi di emicrania. È disgustoso, ma lenisce il dolore in pochi minuti. Andiamo» ordinò, consegnando Valentino alla balia. «La strada è lunga.»
«Conosco una scorciatoia» disse Matteo. «Passa dietro le rovine dell’abbazia. Ci farà risparmiare un bel po’ di strada, sempre che non abbiate paura dei fantasmi.» Vedendo che la balia sussultava sbarrando gli occhi, si rivolse a Matteo in tono spazientito. «Non dite sciocchezze, Matteo. «E voi ricomponetevi» disse rivolta alla balia. «Su andiamo, a quest’ora i fantasmi, ammesso che esistano, dormono della grossa. Non crederete mica a queste storie. Quanto a voi, Matteo, se spaventate in questo modo le ragazze, non ne troverete nemmeno una disposta a sposarvi.»
«Non ci penso affatto a sposarmi. Sto bene come sto, io» rispose Matteo, convinto.
«Davvero non vi piacerebbe avere una moglie, dei figli …» lo stuzzicò Ariel.
«Non dico che non mi piacerebbe, ma sono abituato a vivere a modo mio …»
«Sì, sì. Ma anche voi avrete bisogno di sentirvi amato.»
«Sono troppo vecchio per … per queste cose» disse, arrossendo a disagio.
«Ho capito. Vi piacciono tante ragazze e non sapete quale scegliere» proseguì Ariel in tono provocatorio.
«Vi prendete gioco di me» replicò Matteo, senza acredine.
«Un poco. Ma, seriamente, sarei felice di vedervi sposato con una brava ragazza, che si prenda cura di voi.»
«Ci penserò» la tranquillizzò.
«E quello cos’è?» domandò Ariel, indicando una stele di pietra grigia e consumata dalle intemperie, vicino ad una polla d’acqua.
«È una croce celtica» spiegò Matteo. «Ce ne sono tante, sparse un po’ dappertutto. È il simbolo di un’antica religione.»
«Cosa sapete di questa religione?» domandò Ariel, interessata.
«Prima dell’arrivo dei cristiani, gli abitanti di qui adoravano la dea Madre che rappresentava la natura. I loro sacerdoti, i druidi, celebravano i loro riti in luoghi come questo, vicino a delle fonti o a dei ruscelli, poiché l’acqua era il simbolo della vita. I cristiani li combatterono e li sconfissero; costruirono le loro chiese nei loro luoghi di culto, uccisero i druidi e tutti coloro che non vollero convertirsi.»
«Che triste storia» commentò Ariel indignata. Camminarono in silenzio per un tratto.
«E ditemi, a che cosa vi riferivate quando avete accennato ai fantasmi?» domandò.
«Una vecchia leggenda racconta che certe notti, vicino all’abbazia, si sente il pianto disperato di un bambino e quando ciò accade succede qualche disgrazia.» le raccontò Matteo. Quello che non le disse, però, era che il pescatore con cui aveva parlato al villaggio gli aveva raccontato che nella notte in molti avevano udito quel pianto e qualcosa era successo. Qualcosa di molto brutto.
«Sarà il vento, che incanalandosi tra le rovine dell’abbazia crea dei suoni che assomigliano al pianto di un bambino. So farlo anch’io col mio violino e vi assicuro che non c’è niente di soprannaturale, sono i crini dell’archetto che sfregano sulle corde in un certo modo» replicò Ariel pragmatica.
«Siamo arrivati» annunciò Matteo, indicando l’ingresso posteriore della casa a pochi metri da loro.
«Ci avete fatto risparmiare un bel po’ di strada» disse Ariel, togliendosi lo scialle e posandolo sulla cassapanca all’ingresso insieme al violino. «Portate il bambino nella sua stanza e avvisate in cucina che vi portino il pranzo.» disse alla balia. «E voi» intimò, minacciando Matteo con un indice ammonitore «non muovetevi. Torno subito.»
Avvilito, l’uomo scostò lo scialle e si sedette sulla cassapanca. «Accidenti a me. Cosa mi è mai venuto in mente di dirle che avevo un problema di stomaco. Adesso mi toccherà ingoiare qualche intruglio schifoso e pretenderà che lo beva davanti a lei. Ci scommetto la paga di una settimana» brontolò tra sé.
«Vedo che avete ancora male.» La voce di Ariel lo fece trasalire. «Bevete questa, vi sentirete subito meglio,» disse, porgendogli una tazza colma di un liquido fumante da cui saliva un profumo dolciastro ma, dovette riconoscere, per nulla sgradevole. «Su, bevete» lo esortò, con un sorriso incoraggiante.
«Ma è bollente» protestò Matteo.
«Oh quante storie fate! Bevete a piccoli sorsi e non vi scotterete»
Non avendo modo di sfuggire al suo destino, Matteo si portò la tazza alle labbra sotto lo sguardo inflessibile della donna.
«Bevetela tutta, e il vostro stomaco vi ringrazierà» disse Ariel compiaciuta. Prese lo scialle e uscì, diretta alle proprie stanze. I suoi passi veloci risuonarono per le scale. Quando udì la porta della stanza che si chiudeva, Matteo trasse un rumoroso sospiro di sollievo.
«Avete perso qualcosa?» domandò Manfredi entrando, mentre Matteo stava guardandosi intorno alla ricerca di un recipiente dove versare il liquido rimasto nella tazza, che in parte finì sulla casacca e sui pantaloni.
«Quelle pianticelle hanno proprio bisogno di essere innaffiate. Sono certo che gradirebbero molto più di voi il contenuto di quella tazza» disse il marchese, indicandogli la fioriera appesa al davanzale. Matteo non se lo fece ripetere.
«Ho riconosciuto l’odore delle erbe» spiegò, rivolgendogli un sorriso complice. «Per quale ragione mia moglie vi ha propinato uno dei suoi rimedi miracolosi?»
«È stata tutta colpa mia» rispose l’uomo, contemplando desolato gli abiti macchiati. «Le ho detto che avevo un problema di stomaco, anche se non era vero.»
«E perché mai?» insistette Manfredi.
Dall’espressione tormentata dell’uomo, comprese che non si era trattato di un gioco, ma che qualcosa di grave lo aveva indotto a dire quell’innocente bugia.
«Andate a cambiarvi e raggiungetemi nello studio» lo invitò Manfredi, precedendolo. In preda all’ansia, nell’attesa, si versò una dose generosa di vino, ma l’odore gli diede la nausea e nemmeno lo assaggiò. Quando udì i passi dell’uomo che saliva le scale, si precipitò alla porta.
«Entrate» disse e chiuse la porta a chiave, dopo essersi assicurato che Ariel non fosse nei paraggi. Fece accomodare Matteo, che era ansioso di raccontare la storia quanto Manfredi lo era di ascoltarla.
«Questa mattina dei pescatori hanno trovato un morto sulla spiaggia. La marea ritirandosi l’ha lasciato lì. Lo hanno portato al villaggio. Aveva il volto sfigurato e tagli su tutto il corpo» iniziò senza preamboli.
«Certamente avrà sbattuto contro gli scogli. Questa notte il mare era una furia, lo si sentiva da quassù.» commentò Manfredi. «I pescatori rischiano la vita ogni notte per sfamare le loro famiglie. È un lavoro gramo il loro.»
«Ma non era un pescatore, il morto»
Manfredi si fece scuro in volto e torvo, agganciò lo sguardo dell’uomo, inducendolo a proseguire.
«Ho parlato con uno di quelli che l’hanno portato al villaggio. Non è uno del posto, e nemmeno dei villaggi qui attorno. Si conoscono tutti e nessuna barca ha preso il mare ieri notte. Nessuno sano di mente si sarebbe avventurato in mare. E la cosa strana è che quando l’hanno trovato era nudo.»
«Nudo?»
«Nudo.»
«Può darsi che andando a sbattere contro la scogliera gli abiti si siano lacerati e il mare li abbia trascinati via» ipotizzò Manfredi.
«Anche a brandelli gli abiti avrebbe comunque dovuto averli addosso. Non è la prima volta che vedo un morto annegato, ma uno completamente nudo non l’ho mai visto prima» lo contraddisse Matteo.
«Certo, è inconcepibile che uno che sta per annegare pensi a levarsi i vestiti.» ammise il marchese.
«È quello che ho pensato anch’io» confermò Matteo, lasciando però intendere dal tono della voce che, se stimolato, avrebbe esposto la conclusione a cui era giunto. Manfredi attese in silenzio che l’uomo proseguisse, poi, spazientito lo investì adirato.
«Allora vi decidete a dire cosa pensate, o devo ricorrere alle tenaglie per cavarvi le parole di bocca?»
«Penso che quel poveretto non sia annegato. Secondo me è stato ammazzato, spogliato e poi buttato in mare. Scommetto che non ha ingoiato nemmeno una goccia d’acqua.»
«Come ipotesi è un po’ fantasiosa, ma verosimile.»
«Volendo nascondere un omicidio, il modo più sicuro è far credere che l’assassino sia il mare.»
«Il mare non rischia la forca. Ma perché vi preoccupa così tanto questo morto annegato o ammazzato che sia?»
«Non lo so, ci sono delle cose che non capisco in questa faccenda e non mi piace, signor marchese, non mi piace per niente. Uno sconosciuto nudo e irriconoscibile viene trovato proprio qui dopo il vostro arrivo. Il mio istinto mi dice che qualcosa non va.»
«E il vostro istinto è infallibile» disse Manfredi ma subito si pentì di aver pronunciato quella frase. «Non prendetevela a male, Matteo. Vi do la mia parola che mi fido ciecamente del vostro istinto. Non ho dimenticato quanto mi è stato di aiuto e so per certo che in una certa occasione ha salvato la vita al conte Valentino.»
«Se mi avesse dato ascolto anche quella volta, sarebbe ancora vivo. L’avevo avvisato del pericolo, ma non volle sentire ragioni.»
«Il conte Valentino era un uomo d’onore. Andò a quell’incontro perfettamente consapevole che avrebbe potuto essere una trappola; me lo confidò in una lettera che scrisse pochi giorni prima e che mi giunse, purtroppo dopo la sua morte.» Estrasse un foglio da un cassetto dello scrittoio e lo porse a Matteo. «Leggete voi stesso.» Con mani tremanti, Matteo prese il foglio e lesse attentamente ciò che il suo signore, amico, salvatore aveva scritto e una lacrima gli rigò il volto stanco.
«Avete già parlato con Simone di questa storia dello sconosciuto annegato?» domandò Manfredi, ripiegando il foglio.
«No, signore, non ne ho avuto la possibilità. Appena siamo rientrati vostra moglie ha insistito che non mi muovessi mentre andava a prendere le erbe.»
«Cosa avete raccontato ad Ariel, a parte la bugia che vi è costata assai cara?»
«Le ho detto che i pescatori avevano pescato un grosso pesce e che se lo stavano dividendo, per quello erano tutti riuniti lì in piazza.»
«Avete fatto bene. Non è necessario che sappia la verità. È già abbastanza turbata ultimamente. Per fortuna comprende ancora poco la lingua del posto e farò in maniera di tenerla lontana dal villaggio per qualche giorno.» Si alzò e andò ad aprire uno stipetto da cui tirò fuori una bottiglia di vino che porse a Matteo.
«Tenete, questa è per voi. Vi farà dimenticare la tisana di mia moglie.»
Matteo ringraziò. Confuso e riconoscente prese il dono, lo infilò sotto la blusa e si apprestò a lasciare la stanza.
«Quando vedete Simone, ditegli di venire da me» disse Manfredi quando Matteo era già sulla porta.
Gli alloggi della servitù si trovavano sul retro dell’edifico accanto alle stalle e al fienile. Eusebio stava in piedi, a testa bassa, di fronte a Simone, mentre costui gli stava parlando gesticolando animatamente. Il rumore di passi sul selciato attirò la sua attenzione e distolse lo sguardo dal ragazzo. Vedendo che si trattava di Matteo gli andò incontro. Tutto in lui esprimeva una grande collera.
«Il marchese vi attende nel suo studio» lo informò, riferendogli l’ordine ricevuto da Manfredi e benché morisse di curiosità, conoscendo l’amico, si guardò bene dal domandargli il motivo del suo disappunto. Lo avrebbe saputo dall’altra fonte, che in quel momento se ne stava seduta sulla panca di pietra con la testa tra le mani. Avvicinandosi, Matteo notò che le spalle ossute del ragazzo sussultavano un poco e ne dedusse che stava piangendo.
«Posso?» domandò, indicando il sedile. Eusebio alzò appena gli occhi arrossati sulla figura che gli stava davanti e annuì.
«Grazie» rispose Matteo accomodandosi. «Certo che qui il clima fa proprio schifo; siamo in piena estate e fa un tale freddo» proseguì, guardando di sottecchi la figura china del ragazzo. «Avete sentito la tempesta di stanotte? A me sembrava di avere il mare sotto il letto.» Non ricevette risposta, e nemmeno se l’aspettava. Simone doveva aver strigliato per bene il ragazzo per ridurlo in un tale stato di prostrazione.
«Per fortuna ho qui con me il rimedio ideale contro questo gelo» disse, facendo schioccare le labbra soddisfatto, accingendosi ad estrarre il fiaschetto di vino dalla casacca.
«Ne volete un goccio?» offrì, allungando la bottiglia verso il ragazzo che scosse il capo, senza nemmeno degnarla di uno sguardo.
«Avanti, bevetene un goccio, vi scalderà le ossa, state tremando» insistette.
«Non bevo quella robaccia!» brontolò il ragazzo, disgustato.
«Robaccia!» gli fece eco Matteo indignato. «Questa non è ‘robaccia’, ragazzo mio, è dell’ottimo vino che viene dritto dritto dalla cantina del marchese. Ne ha portato una cassa dall’Italia e pensare che lui nemmeno l’assaggia, al contrario di suo padre che era un vero intenditore; avrebbe prosciugato il mare se fosse stato di vino. Su, bevetene un sorso, giusto per farmi compagnia. È così triste bere da soli.»
Il ragazzo raddrizzò le spalle e allungò svogliatamente la mano verso la bottiglia. Pensò che se l’avesse assecondato, l’uomo si sarebbe tolto dai piedi e l’avrebbe lasciato in pace.
«Se proprio insistete» disse, portandosi il collo della bottiglia alle labbra e ingoiando appena un goccio del liquido.
«È buono, vero?» domandò Matteo impaziente. Il ragazzo annuì, restituendogli la bottiglia.
«Ma vi siete appena bagnato le labbra, su bevetene ancora un sorso, coraggio» insistette Matteo, spingendo nuovamente la bottiglia verso di lui. Titubante, Eusebio si portò la bottiglia alle labbra. Non aveva alcuna voglia di bere, ma se non l’avesse fatto l’uomo si sarebbe offeso e lui non voleva offenderlo. Sapeva che era il migliore amico di Simone e non aveva alcuna voglia di farsi rimproverare un’altra volta. Chiuse gli occhi e ingoiò una buona dose di vino. Matteo lo lasciò deglutire tre o quattro volte prima di levargli di mano la bottiglia.
«Vi è piaciuto eh?» disse con un sorriso complice. Eusebio annuì, passandosi sulla bocca il dorso della mano. Matteo attese pazientemente che il vino facesse il suo effetto; nel frattempo si portò la bottiglia alle labbra e bevve un piccolissimo sorso. Eusebio aveva chiuso gli occhi e si era appoggiato al muro; le sue viscere erano pervase da un piacevole calore che lo facevano sentire bene. Un sorriso soddisfatto gli aleggiava sulle labbra. Anche Matteo sorrise: il suo piano stava funzionando a meraviglia.
«Questo lo berrò stasera insieme al mio amico Simone» annunciò, riponendo la bottiglia nella tasca della casacca. «È un brav’uomo, il mio amico, peccato per quel suo caratteraccio. Se gli salta la mosca al naso non capisce ragione.» Come Matteo aveva sperato, Eusebio abboccò all’amo e con un piccolo incoraggiamento avrebbe ingoiato esca, lenza e canna.
«A chi lo dite!» rispose il ragazzo, ringalluzzito dall’alcol. «Si è messo a gridare e quando gli ho detto che non era colpa mia, per poco non mi metteva le mani addosso.»
«Non mi meraviglia. Mi dispiace per voi, mi sembrate un bravo ragazzo» disse Matteo, mostrandogli tutta la sua solidarietà. «E di che cosa vi avrebbe accusato ingiustamente?» insistette, augurandosi che il ragazzo fosse ancora abbastanza sobrio da riuscire a spiegarsi con sufficiente logica.
«Ingiustamente, dite bene. Io il mio lavoro lo faccio, nessuno può dire che rubo il pane che mangio!» piagnucolò, con voce impastata.
Matteo stava perdendo la pazienza, ma si costrinse a mostrarsi comprensivo.
«Se avete subito un’ingiustizia avete trovato in me un vostro difensore, ma dovete dirmi di cosa precisamente vi si accusa» insistette.
Il ragazzo si guardò attorno sospettoso, quasi temesse che Simone si materializzasse davanti ai suoi occhi poi, con fare cospiratore si avvicinò a Matteo.
«Ogni giorno Simone fa il giro delle stalle per controllare che tutto sia in ordine» iniziò a raccontare. «Io ero in cucina a mangiare, lui è entrato come una furia e mi ha trascinato fuori. Non capivo, ero spaventato perché lui ha cominciato a urlare che ero un buono a nulla, che ero un irresponsabile e che non facevo il mio lavoro.»
«E che motivo aveva di accusavi di ciò?» lo interruppe Matteo.
«Ha trovato i cavalli affamati e sporchi. Ma non era colpa mia, i miei animali erano puliti e avevano biada e acqua in abbondanza. Erano quelli affidati alle cure di Alfonso che erano sporchi!»
«E l’avete detto a Simone?»
«Sì, sì» rispose il ragazzo con foga.
«Allora perché se l’è presa con voi e non con Alfonso?» insistette Matteo che cominciava ad avere una certa difficoltà a comprendere.
«Perché Alfonso non c’è. Non è nel suo alloggio e non è neanche venuto a mangiare. Stamattina ho governato io anche le sue bestie, ma questa sera no. Però sarei andato a controllare dopo cena e avrei dato loro da mangiare e avrei pulito la stalla, anche se toccava a lui» concluse, mettendo il broncio.
«Se avete governato le bestie questa mattina, significa che Alfonso già non era in casa» ragionò Matteo ad alta voce, mentre nella sua mente prendeva forma un’ipotesi inquietante. «Da quando non lo vedete?» domandò, sforzandosi di non far trapelare la sua apprensione.
Eusebio alzò le spalle e ci pensò su, prima di rispondere. «Un paio di giorni, credo. L’ho incontrato mentre usciva dal suo alloggio e gli ho chiesto dove andava perché aveva il vestito della festa e mi è sembrato strano. Mi ha risposto che andava giù al villaggio. Da allora non l’ho più incontrato.»
«E non avete detto a nessuno che non era tornato?» domandò Matteo, inquieto.
«No, a nessuno. Non volevo che passasse dei guai e poi io non faccio la spia» concluse, fissando serio con gli occhi lucidi ma colmi di dignità Matteo che si alzò, prese il ragazzo per un braccio e lo costrinse a seguirlo.
«Adesso voi venite con me dal marchese e ripetete tutta la storia» disse, trascinandolo a forza.
A Eusebio girava la testa, aveva la nausea e le gambe a malapena lo reggevano. Inciampando e barcollando arrivarono a metà del cortile, quando lo stomaco del ragazzo vinse la battaglia, cacciando fuori il vino che lo opprimeva. Matteo attese che il ragazzo si liberasse, quindi lo accompagnò nel suo alloggio, lo fece lavare e cambiare. Quando ritenne che fosse sufficientemente presentabile, lo accompagnò nello studio, dove Manfredi e Simone stavano lavorando sui registri del conte Valentino.
Matteo bussò e, senza attendere risposta, entrò, spingendo il ragazzo davanti a sé. Eusebio, vedendo Simone si ritrasse intimorito, ma uno spintone lo catapultò al centro della stanza.
«Perdonate l’intrusione, ma questo giovane ha una storia molto interessante da raccontare» esordì Matteo tra lo stupore generale. Poiché il ragazzo esitava, Manfredi lo incoraggiò. «Siamo curiosi di conoscere la storia che avete da raccontare. Non abbiate timore, parlate.»
Eusebio ripeté ciò che aveva riferito a Matteo, ma con maggiore sforzo, perché privo dell’aiuto dell’alcol che gli scioglieva la lingua e con lo stomaco ancora sottosopra. La presenza di Simone, inoltre, lo rendeva impacciato. Nemmeno una volta osò alzare gli occhi sui presenti. Finito il racconto, Manfredi si alzò e gli andò vicino. Eusebio si ritrasse, ma il marchese gli posò una mano sulla spalla. «Avete fatto la cosa giusta. Ora andate a riposare, e se vedete o sentite qualcosa che vi pare importante, non esitate a venire a riferirmelo.»
«Prima devo governare i cavalli» replicò, lanciando uno sguardo di sfida a Simone.
«Questa sera ci penserà qualcun altro, non preoccupatevi» lo rassicurò il marchese. «Andate a riposare, ne avete bisogno. Buona notte.» lo congedò. Eusebio accennò un inchino e uscì. Quando il rumore di passi si dissolse, i tre uomini ripresero a parlare.
«L’avete fatto ubriacare» affermò Simone, soffocando una risatina.
«No!» lo contraddisse Matteo sdegnato. «Gli ho offerto un goccio di quel vino che voi marchese mi avete donato. Era così abbattuto a causa dei rimproveri di Simone che mi ha fatto pena e volevo risollevargli il morale.»
«Ah … il buon samaritano» lo canzonò Manfredi. «Io credo, invece, che eravate curioso di sapere cos’era successo tra Simone e il ragazzo e siete ricorso a questo ignobile stratagemma per farlo parlare. Scommetto che non aveva mai assaggiato un goccio d’alcol prima; stava malissimo, poveretto.»
«Già,» intervenne Simone, «aveva la faccia color della cenere. E non sa cosa l’aspetta domattina quando si sveglierà!»
«Un po’ di mal di testa non lo ammezzerà di certo» sbuffò Matteo.
«Chiederò ad Ariel un po’ delle sue erbe miracolose» suggerì il marchese. «E voi, Matteo, gli preparerete una tisana. Che idea vi siete fatto di questa sparizione?»
«Probabilmente la stessa che vi siete fatto voi, e cioè che Alfonso è lo sconosciuto ripescato in mare.»
«Mi sembra un’ipotesi un po’ azzardata» obiettò Manfredi.
«Ma non impossibile.» replicò Matteo. «Cosa sapete di lui?» La domanda era rivolta a Manfredi che dovette ammettere di conoscere assai poco dell’uomo.
«Mi mostrò una lettera di presentazione del suo precedente datore di lavoro che lo considerava un uomo pulito, onesto, capace, un bravo lavoratore, insomma. Non si ubriacava, non era un attaccabrighe. Quando gli chiesi se era disposto ad affrontare un lungo viaggio e un’assenza prolungata da casa, mi rispose che nulla lo tratteneva più perché aveva avuto una disgrazia in famiglia e desiderava solo andare via. Non ebbi il coraggio di indagare sul tipo di tragedia che poteva averlo colpito. Lo affidai a Martino che lo mise alla prova. Effettivamente ci sapeva fare coi cavalli, e così l’ho preso al mio servizio.»
«Avete conservato la lettera con la quale si è presentato?» domandò Simone.
«Certo, ve la mostrerò, ma ora dobbiamo riprendere il nostro lavoro» proseguì, indicando i registri sparsi su tutto lo scrittoio. «Se volete darci una mano a mettere ordine in questo caos, siete il benvenuto» disse rivolto a Matteo.
«Vi ringrazio, marchese, ma purtroppo devo andare ad occuparmi dei cavalli» si affrettò a puntualizzare l’uomo.
«Può occuparsene benissimo il ragazzo di stalla» insistette Manfredi, con un filo di perfidia poiché ben conosceva l’antipatia che Matteo nutriva per la carta e l’inchiostro e in particolare per i numeri.
«Preferisco pensarci io, a quei cavalli; voglio essere sicuro che siano in buona salute e non abbiano piaghe, o gli zoccoli consumati. Con permesso» si congedò, guadagnando l’uscita a tutta velocità.
«Siete un codardo!» gli urlò dietro Manfredi. Scese le scale a precipizio, inseguito dalle risa provenienti dallo studio.
Mentre il marchese e Simone si scervellavano per comporre il rompicapo dei conti, Matteo si dedicò ad un lavoretto di ricerca. Dopo aver accudito ai cavalli, fece un giro negli alloggi della servitù. Dalle porte chiuse provenivano i suoni di respiri profondi. Socchiuse l’uscio della camera di Eusebio e sorrise tra sé, constatando che il ragazzo dormiva beato. Quindi si diresse verso la camera occupata da Alfonso. Bussò alla porta, non volendo correre il rischio di passare per un brigante. Per sicurezza bussò una seconda volta, attese qualche secondo e aprì l’uscio con circospezione. Come si aspettava, la stanza era deserta. Appoggiò la lampada sul canterano e indagò l’ambiente: un pagliericcio, un armadio e una cassapanca, tutti mobili vecchi e privi di serratura. Aprì l’anta dell’armadio che conteneva solo un forte odore di canfora. Rivolse quindi la sua attenzione alla cassapanca. Alfonso doveva essere un uomo estremamente ordinato e metodico, visto che le camicie, le braghe e la biancheria erano impilati in perfetto ordine. Facendo attenzione a non metterle in disordine, infilò la mano sotto le camicie, le alzò e le pose sopra le braghe. Ciò che vide lo lasciò annichilito. Sotto quelle poche cose dozzinali si nascondeva un corredo di abiti costosi che un vetturino non si sarebbe mai potuto permettere neanche lavorando dieci vite. «Per la miseria!» esclamò. Continuò a frugare tra camicie di lino e calze di seta, finché le sue dita incontrarono qualcosa di duro sotto una pila di fazzoletti di bisso finemente ricamati. Si trovò nelle mani un libretto dalla copertina di pelle scura. All’apparenza sembrava un libro di preghiere, ma quando lo aprì, sui sottili fogli ingialliti non c’erano scritte le lodi a Dio Onnipotente ma delle iniziali e delle cifre. Si mise in tasca la sua preziosa scoperta e con pazienza rimise la biancheria come l’aveva trovata; se Alfonso fosse tornato non avrebbe dovuto accorgersi che qualcuno aveva frugato nelle sue cose.
«Vi vedo turbato,» disse Ariel quando, durante la cena, constatò che il marito non aveva udito una parola di quello che gli stava dicendo.
«Perdonatemi, ma ho ancora la testa piena di numeri; mettere ordine nei registri di Valentino è un’impresa a dir poco colossale. È come camminare in un labirinto di cui non si vede l’uscita» le spiegò.
In realtà, Manfredi era distratto a causa dei recenti avvenimenti; la sparizione di Alfonso, il ritrovamento di uno sconosciuto apparentemente morto annegato e il dubbio che Matteo aveva insinuato nella sua mente. Inoltre non aveva ancora pensato ad uno stratagemma per tenere lontana Ariel dal villaggio per qualche giorno. Pertanto, quando il maggiordomo si presentò, annunciandogli che un messaggero proveniente da St. Michael Mount aveva consegnato la missiva posata sul vassoio, non sarebbe stato più felice se gli avesse portato il Santo Graal su un piatto d’argento. La busta portava lo stemma di Lord St. Aubyn.
«Sir John St. Aubyn ci invita a St. Michael Mount» disse, ripiegando la lettera. «Ha saputo del nostro arrivo e desidera fare la nostra conoscenza. Nella lettera Sir John dice che lui e Valentino erano amici e andavano spesso a caccia insieme.»
«Quando partiamo?» domandò Ariel, con gli occhi che brillavano d’eccitazione.
«Dopodomani. Fate preparare il vostro abito da sera. Ci sarà un ricevimento.»
«Un ricevimento!» esclamò Ariel al colmo della gioia.
Manfredi annuì, sorridendo indulgente di fronte all’esultanza della moglie. L’invito di Sir John era un dono del cielo; l’Arcangelo Michele quella sera doveva aver posato le sue ali su di lui.
Valentino non accolse con altrettanto entusiasmo l’annuncio che i genitori si sarebbero assentati. Divenne intrattabile, rovesciò la scodella del latte e prese a calci negli stinchi la balia. Le sue grida risuonavano per tutta la casa. Ariel, per porre fine a quella tortura prese il bambino e lo portò a fare una passeggiata. Imboccarono un viottolo che si snodava in mezzo ad un grande prato, costeggiato da file di betulle, simili a sentinelle messe a guardia della tipica costruzione in stile vittoriano, tutta di legno con una veranda che correva lungo tutto il perimetro, che si intravedeva in lontananza.
Davanti a lei, il bambino rincorreva libellule e farfalle, lanciando piccole grida di gioia. ‘Per fortuna si è adattato senza grandi difficoltà’ pensò Ariel mentre lo seguiva con lo sguardo. ‘Al contrario di me.’
L’entusiasmo per la partenza per St. Michael Mountain era svanito in fretta e di nuovo avevano preso il sopravvento la nostalgia di casa, e quella opprimente sensazione di pericolo di cui non conosceva la causa, ma che era diventata inseparabile e sgradita compagna. Come un gatto che sente il pericolo con l’istinto, lei lo avvertiva accanto a sé. Un senso di impotenza e di paura non la abbandonava mai. Ariel aveva imparato a fidarsi del suo istinto. Istinto e intuito l’avevano salvata da situazioni sgradevoli in diverse occasioni quando, ragazzina, era scappata di casa e, travestita da maschio, aveva girovagato per le contrade del Piemonte. Ma allora poteva contare solo su se stessa e sulla sua capacità di discernimento e su Puck il suo fedele gufo. Ora, al contrario, era circondata da persone di cui poteva fidarsi ciecamente. Manfredi, del resto, non avrebbe mai permesso ad alcuno che reputava potesse rappresentare una minaccia, di avvicinarsi alla sua famiglia.
Assorta nei suoi pensieri, aveva perso di vista Valentino. Alzò gli occhi e un’ondata di panico la travolse quando si rese conto di essere sola. Col cuore in gola, iniziò a correre alla cieca nell’erba alta, gridando il nome del figlio. Corse finché non ebbe più fiato, poi si lasciò cadere nell’erba, singhiozzando disperata.
Il tocco timoroso di una mano sulla spalla la indusse ad alzare lo sguardo. Attraverso il velo delle lacrime vide Valentino lì davanti a lei per mano ad uno sconosciuto. Soffocando un grido di gioia, lo afferrò e lo strinse a sé. Sempre tenendolo stretto, si accinse ad alzarsi. Lo sconosciuto si chinò per aiutarla e il suo sguardo diffidente incontrò due profondi occhi scuri che le sorridevano indulgenti. Si rassettò l’abito sgualcito. Doveva avere un aspetto orrendo coi capelli in disordine e gli occhi gonfi.
«Questo signorino si è introdotto nella mia proprietà» esordì l'uomo in perfetto italiano, mentre Ariel cercava le parole per ringraziarlo nel suo inglese alquanto impacciato. Lo fissò a bocca aperta e impiegò qualche minuto a ritrovare la voce.
«Parlate la mia lingua» mormorò titubante.
«In gioventù ho studiato per qualche tempo in Italia. È lì che ho imparato la vostra lingua. Il mio nome è Patrick York e voi siete la marchesa che abita nella residenza del conte Valentino. Sapevo del vostro arrivo e sono lieto di avere fatto la vostra conoscenza, grazie a vostro figlio» disse, indicando Valentino abbarbicato alle gonne della madre.
«Mi dispiace che sia entrato nella vostra proprietà» si scusò Ariel mortificata. «Solitamente non si allontana mai da me.»
«Stava rincorrendo un leprotto» lo giustificò l’uomo. «Sicuramente non aveva intenzione di introdursi furtivamente. Poi ho sentito voi che lo chiamavate e l’ho accompagnato qui. Vi ha fatto prendere un bello spavento, meriterebbe un castigo» disse, fingendosi accigliato. Ma i suoi occhi sorridevano divertiti.
«Non mancherà di venire punito,» replicò Ariel seriamente. «Così imparerà a non allontanarsi.»
«Io abito laggiù» disse. «Venite, mia sorella vi preparerà una tazza di tè; avete l’aria di averne un gran bisogno, e, forse, ci saranno dei biscotti per questo signorino.»
«Siete molto gentile, ma vi abbiamo già arrecato fin troppo disturbo» protestò Ariel.
«Sarebbe un onore per me se accettaste» insistette l’uomo. «Anche mia sorella Rachel ne sarà felice. Ricevere visite è un privilegio da queste parti.»
«L’ho notato» concordò Ariel. «Se non si è nativi del posto, si viene guardati con una certa diffidenza. Accetto volentieri una tazza di tè.»
La donna che aprì la porta aveva lo stesso viso espressivo e raffinato del fratello, la stessa carnagione color latte e gli stessi occhi scuri. Anche i capelli velati da una vaporosa cuffietta avevano la stessa tonalità del grano maturo. Nessuno avrebbe potuto definirla carina, però era attraente. Immaginò avesse una trentina d’anni. Il sole le aveva fatto spuntare lentiggini sul naso e i denti leggermente accavallati le conferivano un’aria sbarazzina. Indossava un sobrio abito scuro che però non riusciva a mascherare la grazia e l’eleganza del portamento. Accolse gli ospiti con un amabile sorriso e li condusse, attraverso l’atrio dalla volta alta rivestita di legno e con una scala da cui si intravedeva il ballatoio, nel salotto dove li fece sedere su comode poltrone rivestite da un tessuto a fiori che conferiva luminosità all’ambiente austero. Valentino sulle ginocchia della madre rosicchiava un biscotto mentre gli adulti conversavano. Ariel venne così a sapere che il luogo dove si trovava era la canonica e che Patrick York era il pastore del villaggio.
«Purtroppo il mio gregge è alquanto sparuto» confidò con profondo rammarico. Rachel posò la mano sulla sua e gli sorrise comprensiva. «Date loro il tempo di conoscervi. Sono brave persone e vedrete che impareranno a volervi bene come amavano il vostro predecessore.» Patrick ricambiò il sorriso riconoscente. Anche Ariel era convinta che presto gli abitanti del villaggio avrebbero apprezzato le doti di quelle due persone gentili che comunicavano un’impressione di bontà e di integrità morale. Scoprì, con sua grande gioia, che entrambi i suoi ospiti amavano la musica e che Rachel suonava l’organo durante le funzioni religiose. A sua volta, Ariel raccontò che suo padre era mastro organaro, che lei suonava il violino e che a casa, in Italia, aveva un clavicembalo a pedal che suo marito aveva ereditato dalla nonna materna che l’aveva ricevuto come dono di nozze dal marito. Il tempo trascorse senza che se ne accorgessero e quando Valentino cominciò a dare segni di impazienza, era pomeriggio inoltrato. Il pastore si offrì di accompagnarli a casa col calesse, cosa che mandò in visibilio il bambino.
«Tornate a trovarci» la invitò Rachel mentre si allontanavano lungo il sentiero.
«Vi porterò le musiche che vi ho promesso» le assicurò Ariel, felice di aver trovato un’amica con cui condividere la sua grande passione.
Dalla finestra dello studio Manfredi vide il calesse che avanzava in direzione della casa e si precipitò all’ingresso. Schegge di foschi pensieri gli avevano attraversato la mente, quando venne informato dalla governante che Ariel e il bambino erano usciti senza essere accompagnati da Simone o da Matteo. Trasse un profondo sospiro di sollievo quando vide Ariel e Valentino scendere dalla vettura. Il bambino gli corse incontro e allungò le braccine per essere preso in braccio, mentre Ariel si avvicinava accompagnata dallo sconosciuto. Presentò il reverendo York al marito, il quale lo salutò affabilmente e lo invitò per un tè. Ma il suo sorriso non ingannò Ariel; il lieve tremito della mascella tradiva una profonda inquietudine interiore. Il pastore declinò l’invito di trattenersi e si congedò in fretta.
«Ringraziate vostra sorella e ditele che le porterò le musiche che le ho promesso» lo salutò Ariel.
Rientrati in casa, Manfredi accompagnò Valentino dalla balia mentre Ariel salì in camera a rinfrescarsi. Dalla veranda vide le nuvole scure che coprivano il sole già basso all’orizzonte; anche quella notte ci sarebbe stata burrasca. Si cambiò d’abito. Ne scelse uno color lavanda che metteva in risalto la sua pelle leggermente dorata dal sole. Legò i capelli con un nastro dello stesso colore e lasciò che i boccoli ramati ricadessero morbidi sulle spalle, quindi si accinse a raggiungere il marito che l’attendeva per la cena. Lo sguardo ammirato che le rivolse fu la conferma che aveva fatto la scelta giusta. Per un lungo istante rimasero a guardarsi in silenzio. Dietro lo scintillio dei suoi occhi tuttavia scorse un’ombra di malinconia e si sentì pervadere da un’ondata di tenerezza. Dal canto suo Manfredi si domandava come avrebbe fatto a rivelarle la verità. La paura di perderla gli procurava un dolore quasi fisico; era una prospettiva alla quale non voleva pensare. Ma era arrivato il momento di porre fine a quella situazione logorante e riconquistare la serenità di spirito. Poi si ricordò dello sconosciuto che aveva accompagnato a casa lei e il bambino e il cuore prese a battergli così velocemente che si sentì soffocare. Distolse lo sguardo da lei e si trincerò dietro un ostinato mutismo. Ariel, abituata ai mutamenti d’umore improvvisi del marito, per quanto amareggiata, si adeguò a consumare il pasto in silenzio. Solo quando Maeve ebbe portato via gli ultimi piatti, Manfredi le rivolse la parola.
«D’ora in avanti non uscirete se non accompagnata da me o da Simone o Matteo e non vi avvicinerete mai più alla canonica.» esordì il marchese. Lo sconcerto di Ariel si tramutò in sbigottimento. «Non ve lo sto chiedendo, ve lo sto ordinando. Ho del lavoro da sbrigare prima della partenza» concluse gelido, uscendo dalla stanza e lasciando Ariel a bocca aperta, frastornata dalle parole che aveva udito. Una volta chiuso nel suo studio, Manfredi si versò due dita di brandy e lo trangugiò tutto d’un fiato. Il respiro gli si mozzò in gola e vampate di calore gli attraversarono il corpo come lance infuocate. Si appoggiò allo scrittoio e chiuse gli occhi. Lacrime cocenti gli rigavano il volto affilato dall’angoscia.
Fu una lunga notte; rimase seduto su una poltrona fino all’alba, impossibilitato a prendere sonno. La sentiva singhiozzare, lunghi singhiozzi convulsi che gli spezzavano il cuore.
Ariel aprì la finestra e inspirò profondamente l’aria impregnata di salsedine. I primi barlumi di luce contornavano il profilo delle falesie. La luce si sarebbe fatta via via più brillante, cambiando le tonalità e le sfumature delle rocce che si riflettevano nell’acqua. Le grida dei gabbiani riempivano il silenzio. Invano aveva atteso Manfredi per ore, poi il sonno aveva avuto il sopravvento, ma era stato un sonno agitato, popolato da sogni paurosi. L’entusiasmo per il viaggio era svanito insieme alla nebbia notturna. Si fece forza e si accinse a completare gli ultimi preparativi. Un tocco educato alla porta annunciò l’ingresso di Maeve che le portava la colazione. Il profumo del pane tostato e dei biscotti appena sfornati le diedero la nausea, pertanto optò per una tazza di tè. Andò a salutare Valentino prima di partire alla volta di Saint Michael. Soltanto quando udì le ruote della carrozza scricchiolare sulla ghiaia si risolse a scendere. Manfredi l’accolse con un sorriso, ma il suo volto mostrava chiari i segni di una notte insonne. Entrambi avevano sentito la mancanza l’uno dell’altro ed ora, seduti nell’angusto spazio della carrozza con i corpi che si toccavano ad ogni sobbalzo si scoprirono a gioire di quel contatto e pian piano Ariel mise da parte i mille interrogativi che la turbavano e Manfredi si impose di accantonare le sue paure.
St. Aubyn
L’aria fresca del mattino aveva il particolare acuto profumo della brughiera; dovunque si sentivano cantare chiurli e pivieri. Attraversarono antichi villaggi con le casette dai caratteristici tetti di paglia, colline di erica che splendevano al sole come ametiste, attraversate da torrentelli bordati da siepi di biancospino. Il paesaggio incantevole ebbe un effetto prodigioso sullo spirito di Ariel e il suo buonumore contagioso fece sì che anche Manfredi condividesse la sua gioia. Verso mezzogiorno si fermarono in una taverna. Il locandiere, un giovane dal viso simpatico, servì loro due abbondanti porzioni di arrosto, il cui profumo aleggiava nella sala da pranzo affollata di avventori.
Proseguirono il viaggio lungo una strada che saliva a chiocciola sulle collinette verdi e morbide come frittelle; in lontananza pascoli e marcite si perdevano in una foschia azzurra. Oltre al canto degli uccelli e al gorgheggiare dei torrenti, l’unico segno di vita era il fumo che usciva dai comignoli dei casolari che sporadicamente punteggiavano di bianco e grigio il verde uniforme. Arrivarono in vista della spiaggia in concomitanza con la bassa marea. La carrozza imboccò la lunga lingua di terra lasciata libera dal mare; St. Michael Mount davanti a loro pareva un miraggio incantato. Mentre si avvicinavano all’isolotto, Manfredi le raccontò in breve la storia dei St. Aubyns, proprietari del Monte.
«State dicendo che da quattro generazioni tutti i baronetti si chiamano John?» esclamò Ariel, ridendo divertita.
«Proprio così. Non si può dire che brillino di originalità» replicò Manfredi.
«In quanto ad originalità non sono d’accordo con voi. Non credo siano molte le famiglie che per ben cinque generazioni abbiano dato al figlio primogenito sempre lo stesso nome.»
«John St. Aubyn Vo ha diciassette anni; forse sarà lui in futuro ad interrompere la tradizione» ipotizzò Manfredi. «Soprattutto se la sua futura sposa avrà delle obiezioni e sarà cocciuta come qualcuno di mia conoscenza …» la canzonò. Ariel scrollò le spalle. «Un cambiamento non sarebbe la fine del mondo!» replicò, con una punta di impertinenza. «Da quanto tempo va avanti questa storia?»
«Da più di cent’anni» le spiegò Manfredi. «Esattamente dal 1647 quando il colonnello John St. Aubyn fu nominato governatore del monte, che in seguito acquistò nel 1650 e da allora i St. Aubyns ne sono i proprietari. Per secoli il monte è stato meta di pellegrinaggio. La leggenda racconta che nel 495 l’Arcangelo Michele apparve a dei pescatori, seduto su un sedile di pietra all’ingresso del castello. Ecco il motivo per cui si chiama St. Michael.»
«Questo Paese è così ricco di leggende!» disse Ariel.
«Oh sì, dalla notte dei tempi! Il Pucà, ad esempio, era lo spirito dei boschi che catturava le persone nella foresta con luci e suoni incantati oppure rubava il latte dai mastelli nelle fattorie, o la Selkie, era una foca dall’aspetto umano che convinceva il malcapitato a gettarsi in acqua e a seguirla. Oppure il gigante Cormoran che proprio da St. Michael scendeva nei villaggi a rubare mucche e pecore finché un ragazzino di nome Jack andò sul monte e nella notte, mentre il gigante dormiva, scavò un pozzo. All’alba suonò un corno per svegliarlo. Arrabbiato e accecato dalla luce del sole, il gigante cadde nel pozzo e morì» raccontò Manfredi, mentre la carrozza si avvicinava lentamente all’isolotto.
«E non dimenticate la leggenda di Re Artù» gli ricordò Ariel.
«La leggenda delle leggende; si racconta che Artù appartenesse alla casata della Dumnonia e che fosse originario di Dintagell, sulla costa settentrionale della Cornovaglia. Vi porterò a visitare quel posto magico, se lo desiderate» le bisbigliò dolcemente, accarezzandole la mano.
Prima che Ariel potesse rispondere, la carrozza si arrestò davanti all’ingresso illuminato dalle luci di decine di torce che infondevano un’aura fatata al principesco palazzo. Un valletto aiutò gli ospiti a scendere e un solerte cameriere si occupò dei loro mantelli nell’anticamera. Ad accoglierli, all’ingresso del salone si trovavano John St. Aubyn IV e la sua consorte Lady Elisabeth Wingfield che aveva sposato nel giugno del 1756 con una cerimonia regale a Londra nella chiesa di St. James. Ariel era in preda allo sbalordimento più assoluto; non aveva mai visto nulla di più sontuoso ed elegante. Fu assalita dal panico pensando di dover trascorrere la serata in mezzo a tutta quella gente a lei sconosciuta, che parlava una lingua che comprendeva a stento. Ma non voleva che Manfredi dovesse provare imbarazzo a causa sua, pertanto trasse un profondo sospiro e si lasciò guidare al centro del salone. Manfredi prese due coppe di vino dal vassoio che un cameriere itinerante teneva abilmente in equilibrio e ne porse una ad Ariel, che ne assaggiò un sorso.
«È buono, vero?» domandò una voce femminile dietro di lei, facendola sussultare. Per poco non rovesciò il vino sull’abito. Lady Elisabeth Wingfield le stava sorridendo gentilmente.
«È vino italiano, toscano, per la precisione. È una delle passioni di mio marito» proseguì. «Venite, sediamoci» la invitò, indicandole un prezioso divanetto. «Durante l’inverno, trascorriamo un lungo periodo in Italia; non immaginate quanto invidio il clima del vostro Paese.» Introdurre una conversazione parlando del tempo era una delle abitudini anglosassoni che più divertivano Ariel.
L’interessamento di Lady Aubyn per la giovane straniera indusse le altre altezzose dame a rivolgerle la parola. Sebbene poco avvezza all’universo salottiero, Ariel ne conosceva le regole universali: nessuna di quelle blasonate nobildonne l’avrebbe degnata di uno sguardo, nemmeno per curiosità, ma, per una regola non scritta ma inderogabile, era fondamentale compiacere la baronessa, e se lei dimostrava di gradire la sua compagnia, si sarebbero comportate di conseguenza. Fu così che, suo malgrado, Ariel si trovò al centro dell’attenzione. Si rese conto di essere in grado di sostenere una conversazione e questa rivelazione la rincuorò alquanto. Manfredi, dal canto suo, pareva perfettamente a suo agio e ciò meravigliò non poco la sua giovane consorte che ben conosceva la sua insofferenza nei confronti delle riunioni mondane. Venne annunciata la cena; al lungo tavolo apparecchiato con argenti, cristalli e diafane porcellane che brillavano alla luce delle candele, attendevano i valletti che fecero accomodare gli ospiti ai posti rigorosamente assegnati, obbedendo alle regole ferree della nobiltà: più alto era il titolo nobiliare, più vicino ai padroni di casa era la collocazione. Quando tutti ebbero preso posto, lady Elisabeth annunciò che in onore degli ospiti italiani, sarebbero stati serviti unicamente cibi provenienti dall’Italia. Ad un suo cenno, una fila di camerieri entrò nel salone reggendo vassoi luccicanti sui quali erano adagiati maialini arrosto, pernici, quaglie, fagiani coreograficamente ornati da sculture di verdura variopinta, di cui tutti si servirono abbondantemente. Infine fece il suo ingresso trionfale una monumentale torta di frutta che, contravvenendo alla rigida etichetta anglosassone, venne accolta da un applauso. Quando Lord e Lady Aubyn si alzarono, gli uomini si diressero nella sala da fumo dove venne loro servito brandy e whisky, mentre le dame si ritrovarono in salotto a sorseggiare tè aromatizzato o un bicchierino di cherry. Alcune chiacchieravano tra loro, altre approfittarono di quei momenti di distensione per schiacciare un pisolino. Ariel adocchiò un divanetto appartato e decise che avrebbe atteso là l’apertura delle danze. Ebbe così modo di ammirare gli arredi preziosi, gli stucchi, le pitture del soffitto. Ma la sua contemplazione venne interrotta da voci che si levavano sopra il brusio sommesso che regnava nella sala. Si guardò attorno e in mezzo a un capannello di dame, scorse la baronessa che rimproverava un ometto imparruccato che cercava disperatamente di giustificarsi, raggiungendo solo lo scopo di fare arrabbiare ancor di più la padrona di casa. La sua elementare padronanza della lingua non le permetteva di comprendere il motivo della disputa, pertanto si risolse ad abbandonare la sua comoda postazione e ad avvicinarsi per chiedere spiegazioni. Una dama la informò che il violinista dell’orchestra che avrebbe dovuto suonare si era ubriacato ed ora giaceva addormentato sul tavolo della cucina e non c’era modo di svegliarlo. D’altra parte, nemmeno si reggeva sulle gambe e sarebbe stato un ben misero spettacolo. Colui che stava parlando alla baronessa era il direttore che non sapeva più come fare a giustificarsi. Ariel si avvicinò alla baronessa. «Se lo desiderate, posso sostituire io il violinista» le disse a bassa voce, in modo che solo lei e il direttore intendessero le sue parole. Lady Elisabeth la guardò allibita. «Sarebbe oltremodo sconveniente per una donna del vostro rango; un vero scandalo!»
«Potrebbe indossare gli abiti del violinista e, legati i capelli in una coda, nella penombra sarebbe difficile riconoscerla» suggerì il direttore dell’orchestrina il quale, al contrario della baronessa, si mostrò entusiasta dell’inattesa offerta che avrebbe salvato il compenso della serata.
Lady Elisabeth meditò sulla proposta, infine diede il suo consenso.
«Venite» disse ad Ariel, guidandola fuori dal salone. «Una cameriera vi aiuterà a cambiarvi d’abito nel mio appartamento. È stato molto gentile da parte vostra proporvi per questo umile servizio.»
«Perdonate la mia impertinenza Lady Elisabeth, ma non lo ritengo affatto un umile servizio. La musica è una nobile arte ed io considero un privilegio poter suonare per i vostri ospiti» replicò Ariel con una sfumatura di orgoglio nella voce.
«Noi inglesi abbiamo delle regole molto rigide riguardo alla distinzione di classi sociali e ai ruoli che ne conseguono» le spiegò la baronessa. «Ad ogni modo vi ringrazio della vostra offerta» concluse con malcelata disapprovazione.
«Attendete qui,» la invitò, facendola accomodare nel suo salottino privato. «Una cameriera vi porterà gli abiti e vi aiuterà a cambiarvi. Ora devo tornare dai miei ospiti.»
Ariel aveva appena iniziato a sciogliere i nastri inanellati tra i capelli, quando un discreto tocco alla porta annunciò l’ingresso della cameriera. Con abili movimenti la ragazza slacciò il corsetto e l’aiutò a liberarsi delle numerose sottogonne. L’aiutò ad indossare calzamaglia e la camicia, le raccolse i capelli in una coda che legò con un semplice nastro di seta nera. Qualche problema si presentò con le scarpe, troppo lunghe per il suo piede, ma con qualche batuffolo di bambagia la cameriera le adattò al suo piede. Ariel infilò la giacca di broccato blu e si rimirò allo specchio soddisfatta del risultato: anche Manfredi avrebbe faticato a riconoscerla. La cameriera intanto aveva posato l’abito sul divanetto e ne stava accarezzando la seta morbida e lucente. I suoi occhi dicevano quanto le piacesse. «Potete provarlo, se desiderate.»
La ragazza la fissò con gli occhi sgranati, incredula.
«Davvero, se vi fa piacere, avete il mio permesso di indossarlo» le confermò Ariel, uscendo. Nel corridoio adiacente al salone trovò ad attenderla il direttore che le porse il violino e gli spartiti con un gran sorriso riconoscente. Ariel seguì gli altri orchestrali sul palco. Lord e Lady Aubyn aprirono le danze. Nessuno prestò la minima attenzione ai musicisti.
Nel medesimo tempo, al piano superiore, la giovane cameriera aveva indossato l’abito di Ariel e si stava pavoneggiando, quando vide riflessa nello specchio una sagoma con il volto nascosto da una sciarpa di seta. Non l’aveva sentita entrare e aprì la bocca, ma fulminea, la figura le mise una mano sulla bocca per impedirle di urlare. Nell’altra mano brillò, sinistra, la lama di un coltello.
Minuetti e pavane si susseguirono fino a notte inoltrata. Manfredi, alieno alle danze, era rimasto in un salotto in compagnia di un paio di nobili con i quali si intrattenne a dissertare di politica e degli ultimi scandali della Casa Reale, argomento che suscitava un interesse maggiore delle scaramucce politiche tra le Nazioni del Continente. Pensò che Ariel si stesse divertendo nel salone: in quell’enclave circondato dal mare non correva alcun pericolo. Un po’ a causa della spossatezza, un po’ per colpa della cena sostanziosa e un po’ per noia chiuse gli occhi e si lasciò cullare dalla musica che giungeva smorzata attraverso le pareti rivestite di legno che emanavano un profumo dolce di cera. Era quasi l’alba quando sentì una mano che lo scuoteva delicatamente. Aprì un occhio e attraverso l’obnubilazione del sonno scorse il volto sorridente ed eccitato di Ariel. Ma quando il suo sguardo si posò sul suo abito, si riscosse. «Ma come vi siete abbigliata ?» domandò indignato.
«Mi dona, non è vero?» lo stuzzicò maliziosa, facendo una mezza giravolta. L’espressione torva del marito non la preoccupò più di tanto e gli raccontò ciò che era accaduto.
«Lady Elisabeth, alla fine, ha molto apprezzato la mia proposta ed è stato divertente indossare di nuovo abiti maschili.» Manfredi sospirò rassegnato. «Ora, però, affrettatevi a cambiarvi d’abito; la bassa marea non tarderà a lasciare libero il passaggio verso la terra ferma» la sollecitò.
Ariel corse via. Se non avesse trovato ad attenderla la cameriera assegnatale da Lady Elisabeth si sarebbe arrangiata da sola, decise. Era stanca, aveva sonno e i piedi le facevano un male cane imprigionati in quelle maledette scarpe. In poche parole, non vedeva l’ora di andarsene.
Se aveva preso in considerazione l’ipotesi di non trovare la cameriera ad attenderla, non l’aveva nemmeno sfiorata l’idea di non trovarvi neppure l’abito; sul momento non si preoccupò più di tanto sebbene il fatto la irritasse, ma d’altra parte, aveva autorizzato lei stessa la ragazza a provare il vestito. Ricordò dove si trovava la cordicella per chiamare la servitù e cominciò a tirarla con insistenza. Si sedette poi sul divano ad attendere la ragazza e come prima cosa si tolse le scarpe per dar sollievo ai piedi gonfi e arrossati. Passò qualche minuto ma la ragazza non arrivò. Suonò nuovamente. Passarono altri minuti ma non accadde alcunché. Oltremodo irritata si attaccò alla cordicella e continuò a tirarla finché una governante arrivò trafelata. Arcigna e segaligna nel suo austero abito nero, squadrò Ariel dalla testa ai piedi, mostrando sul suo volto cavallino il suo incondizionato disappunto.
«Dov’è la cameriera che ieri sera mi ha aiutata a cambiarmi d’abito?» domandò scortese.
«Non lo so, milady.»
«Cosa significa ‘non lo so?» domandò. La sua pazienza era ridotta ormai al lumicino.
La donna rimase impassibile.
«Significa, milady, che la ragazza è scomparsa.»
«Anche il mio abito è scomparso» reiterò Ariel.
La governante rimase in silenzio, ma un tremito della mascella ossuta tradì la sua preoccupazione per le possibili ripercussioni che il presunto furto avrebbero potuto avere sulla sua posizione. Dell’abito scomparso non le importava, né tanto meno della ragazza che giudicava troppo frivola, anche se non aveva nulla da ridire sul suo lavoro.
«Qualcun altro può aver spostato il mio abito in un’altra stanza?» domandò ancora Ariel.
«No, milady.»
«Da quando è scomparsa la ragazza?»
«Non lo so, milady.»
«Ma non rientra nei vostri compiti controllare la servitù?»
«Sì, milady.»
«Ne deduco che non avete svolto il vostro dovere con il dovuto zelo» insinuò Ariel, compiaciuta di aver trovato una pecca nel comportamento di quella megera.
«Mi è stato riferito che non ha dormito nel suo letto stanotte» disse la donna, riluttante.
«Quindi è da ieri sera che manca» dedusse Ariel.
«Suppongo di sì.»
«Vi siete preoccupata di farla cercare?»
«Sì, milady» rispose, ma l’attimo di esitazione prima di rispondere confermò ad Ariel il sospetto che stesse mentendo e che non si era preoccupata minimamente di rintracciarla.
«Lady Elisabeth è stata informata dell’accaduto?»
«Non ancora milady»
Ariel aveva ormai capito che da quella donna non avrebbe ottenuto altre risposte se non si,milady no, milady e si arrese.
«Procuratemi un abito qualunque e mandatemi una cameriera che mi aiuti a cambiarmi. E fate in fretta.»
«Sì, milady» rispose la donna congedandosi con un rigido inchino.
«Sì, milady, no, milady» ripeteva Ariel imitando la voce nasale della governante. Irritata più per essersi sbagliata sul conto della ragazza che per il furto dell’abito, misurava il pavimento a piedi scalzi mentre attendeva la cameriera che fortunatamente non si fece attendere.
«Come vi chiamate?» le domandò, mentre la ragazza l’aiutava a liberarsi della camicia.
«Harriette, milady» rispose la ragazza, mentre si accingeva a slegare i nastri dei calzoni.
Notò che aveva gli occhi gonfi e che teneva la testa china per nascondere il viso congestionato dal pianto.
«Perché piangete?» domandò, posandole una mano sotto il mento per costringerla ad alzare il volto.
«Perché Helly è scomparsa» rispose, soffocando i singhiozzi che le serravano la gola.
«Insieme al mio abito» puntualizzò Ariel.
«Helly non è una ladra» la difese con slancio la ragazza. «Non ha mai rubato nemmeno un nastro in vita sua.»
«È vostra amica? La conoscete bene? Siete certa di non sbagliarvi sul suo conto? Certe persone sanno nascondere bene la loro vera natura.»
«La conosco bene, è mia sorella» rispose, scoppiando in un pianto dirotto.
Ariel le porse un fazzoletto e le concesse qualche minuto per sfogarsi.
«Calmatevi, ora. Asciugatevi gli occhi. Non disperate, vedrete che vostra sorella tornerà presto» la rincuorò Ariel.
«Volesse il cielo!» rispose la ragazza, senza troppa convinzione.
Aiutò Ariel a indossare il semplice abito di cotone. Prima di congedarla, le fece scivolare in mano un paio di monete, quindi si affrettò a raggiungere Manfredi. Lo trovò nell’atrio in compagnia di Lord e Lady Aubyn. Lady Elisabeth, vedendola, le andò incontro e insieme scesero le scale.
«Miss Middleton mi ha riferito del furto del vostro abito. Sono così desolata! Ordinerò alla mia sarta di confezionarvene uno uguale» sussurrò.
«Non datevi pena per l‘abito, milady. Ho parlato con la sorella della ragazza scomparsa accusata di aver commesso il furto e mi ha giurato che sua sorella non è una ladra. Mi è parsa sincera.»
«Effettivamente non ho mai ricevuto lamentele sul suo conto. Miss Middleton l’additava spesso ad esempio per le altre ragazze perché era precisa e puntuale. Tutto ciò è inspiegabile» replicò Lady Elisabeth.
«Sono certa che quando tornerà, sarà lei stessa a dare una spiegazione dell’accaduto» la rassicurò Ariel.
«Anche se non intendo denunciarla all’autorità per evitare uno scandalo, riceverà la giusta punizione. Vi prego di non far menzione ad alcuno di questo increscioso episodio; non voglio che il nome degli Aubyn diventi argomento di pettegolezzo» la pregò Milady.
«Avete la mia parola, milady. A mio marito dirò che l’abito ha subìto un danno mentre veniva stirato e che ora le sarte stanno rimediando» inventò Ariel, lì per lì. «Dio mi perdonerà questa piccola bugia.»
«Vi sono immensamente grata, marchesa» replicò la baronessa.
Dopo i convenevoli di rito, Ariel e Manfredi si accinsero a salire in carrozza. Ormai la marea si era ritirata e la striscia di terra che collegava l’isola alla terraferma luccicava tra due ali di nebbia azzurrina. Eusebio incitò i cavalli e la carrozza si avviò lentamente.
«Sono esausta,» confessò Ariel, soffocando uno sbadiglio.
«È stato un bel ricevimento, non è vero?» domandò con voce sonnacchiosa.
«Sì,» rispose laconico Manfredi.
Confusa, Ariel gli rivolse uno sguardo interrogativo.
«Mi sarebbe piaciuto danzare con la mia dama» chiarì con un pizzico di risentimento.
«Ma se non ballate mai!!!!» replicò. «Non potevo certo rifiutare un favore a milady.»
«Come faceva lady Elisabeth a sapere che suonate il violino?» indagò Manfredi stizzito.
«L’ha saputo da me. Mi è venuto spontaneo offrirmi di sostituire il violinista. Era così disperata all’idea che la sua festa potesse essere rovinata per colpa di un musicista ubriaco.»
«Conoscendo la vostra indole generosa non mi stupisco del vostro comportamento, quello che mi lascia esterrefatto è il fatto che lady Elisabeth abbia accettato la vostra offerta. Voi mia cara appartenete alla nobiltà ed è impensabile per un suddito di sua maestà che una dama del vostro rango si abbassi a svolgere un compito così plebeo» spiegò Manfredi.
«Come vi ho detto, milady era fuori di sé; il ricevimento rischiava di trasformarsi in un fallimento. Le ho spiegato che nessuno avrebbe notato la mia assenza, una volta indossati gli abiti e la parrucca sarei passata inosservata. Chi fa caso agli orchestrali durante un ricevimento?»
«Nessuno» ammise Manfredi «Sono praticamente invisibili. Ma potevate almeno avere la buona creanza di mettermi al corrente dei vostri piani.»
«Non ce n’è stato il tempo!» si giustificò Ariel. «Sono mortificata» si scusò. «Mi perdonate?» domandò intrigante, sfiorandogli le labbra.
Manfredi le prese il viso tra le mani e le posò un casto bacio sulla fronte.
«Riposatevi ora mia cara» la esortò Manfredi attirandola a sé. Ariel appoggiò il capo sulla sua spalle e dopo pochi minuti dormiva profondamente.
Anche Harriette dormiva profondamente con indosso l’abito di Ariel. Sul fondo dell’oceano.
La Lettera
A metà del viaggio il tempo si guastò. Il gelido vento proveniente da nord filtrava nella carrozza, facendo rabbrividire gli occupanti. I mantelli non erano sufficienti a contrastare il freddo pungente. Stretti l’una all’altro Ariel e Manfredi cercavano conforto nel calore dei loro corpi. Dal cielo color piombo scendeva una pioggia fitta che, trasportata dal vento, formava vortici impazziti che andavano a infrangersi contro i finestrini. Oltre la cortina d’acqua il paesaggio era sprofondato nella nebbia.
Giunsero a Sen.Ostell sotto una pioggia torrenziale. Simone e Matteo presero in consegna i cavalli e spedirono Eusebio, gelato fino al midollo, in cucina dove l’attendeva un fumante piatto di minestra.
Il maggiordomo aiutò Ariel e Manfredi a liberarsi dei mantelli e ravvivò il fuoco nel caminetto del salotto, mentre la solerte Maeve si affrettò a servire il tè.
«Dite alla balia di portare qui il bambino» la sollecitò Ariel, porgendo la tazza a Manfredi.
«Perché non andare a riposare un po’ prima?» le domandò premuroso. «Non avete dormito la scorsa notte.»
«Riposerò più tardi, ora voglio vedere Valentino» rispose decisa «e assicurarmi che stia bene.»
«Siete troppo apprensiva» la rimproverò.
«Può darsi» concesse Ariel «ma Valentino è un bambino speciale e ha bisogno di attenzioni speciali.»
«C’è chi si prende cura di lui in maniera eccellente» le ricordò Manfredi.
«Ne sono perfettamente consapevole, ma io sono sua madre ed è di me che ha bisogno» replicò, sottolineando il proprio ruolo.
«Avrà sempre più bisogno di voi, Valentino è un piccolo tiranno.»
L’amabile battibecco tra i coniugi fu interrotto dal rumoroso ingresso del bambino che si precipitò tra le braccia del padre. Ariel assistette in silenzio al lungo scambio di effusioni tra padre e figlio, ma alla fine non resistette alla tentazione: «E secondo voi sarei io quella che si fa tiranneggiare!» esclamò caustica.
«Andate ad abbracciare vostra madre» mormorò Manfredi all’orecchio del figlio, ma lui rivolse ad Ariel un sorriso furbetto e si avvinghiò ancor di più al padre, nascose il visetto nell’incavo del suo braccio emettendo gridolini sempre più acuti. Manfredi rivolse ad Ariel uno sguardo desolato, dispiaciuto che la sua espressione ferita indugiasse sul suo volto. Valentino sbirciava da dietro la spalla; Ariel se ne accorse e si alzò dirigendosi verso il salottino dove attendeva la balia. In un attimo abbandonò le ginocchia del padre e la raggiunse; senza smettere di strillare si attaccò alla gonna della madre e prese a tirare con forza, pestando i piedi. Ariel lo fissò torva, rimase immobile, in attesa. Valentino insistette con quello stillicidio ancora per qualche minuto poi lanciò un ultimo sguardo alla madre e cambiò strategia; le abbracciò le ginocchia, volgendo su di lei il visetto arrossato ma aperto in un sorriso accattivante.
«È un vero guitto» commentò Manfredi.
«E un grande ruffiano» rincarò Ariel, prendendolo in braccio. «Ma è l’uomo della mia vita» concluse, baciandogli la testolina.
«Credevo di essere io l’uomo della vostra vita» protestò Manfredi, fingendosi risentito.
«Vi illudete mio caro; non vedete con quanto affetto mi abbraccia?»
Manfredi si avvicinò e circondò le spalle della moglie. «Volete che vi dia un saggio del mio affetto?» le sussurrò all’orecchio con fare sensuale. Un lieve rossore colorò le guance di Ariel che gli rivolse un sorriso radioso. Valentino allungò il braccio verso il padre per allontanarlo.
«Per amore di questa donna, vi sfido a duello» scherzò Manfredi, toccando con l’indice il corpo del bambino che a sua volta allungò la manina verso il volto del padre. Manfredi rischiò un paio di volte di venire accecato prima di dichiararsi sconfitto. Ariel sollevò il bambino sopra la testa, dichiarandolo vincitore della sfida, quindi lo posò a terra e chiamò la balia. Valentino mostrò tutto il suo disappunto con strilli e calci e quando la ragazza lo prese in braccio le artigliò alcune ciocche di capelli e iniziò a tirare con tutta la rabbia che aveva in corpo. Ariel e Manfredi accorsero in aiuto della poverina che, con le lacrime agli occhi, cercava invano di allontanare la mano del bambino. L’intervento dei genitori lo costrinse a mollare la presa, ma subito si vendicò addentando il naso della balia. Mentre Manfredi gli chiudeva il naso per costringerlo ad aprire la bocca, Ariel lo afferrò sotto le ascelle e lo allontanò dalla ragazza. Valentino continuò a scalciare e a urlare, finché resosi conto di essere tra le braccia della madre, si acquietò.
«Ritiratevi pure» disse Manfredi alla ragazza che si tastava il naso per controllare i danni.
«Per oggi siete libera. Valentino starà con noi.» aggiunse Ariel.
La ragazza non se lo fece ripetere e con un inchino rapido si ritirò. Nel giro di un’ora, promettendosi a vicenda di non farne parola ad alcuno, tutta la servitù era al corrente di quanto era accaduto. Sebbene nessuno osasse esternare il proprio pensiero, ognuno fece le proprie considerazioni sull’increscioso episodio.
Ariel si trasferì nella nursery col bambino mentre Manfredi salì nello studio a sbrigare del lavoro. Fuori la pioggia continuava a cadere monotona come un metronomo. Era pomeriggio quando lasciò lo studio per recarsi nella nursery; avrebbe dato il cambio ad Ariel nella cura del piccolo, ma quando aprì la porta della camera li trovò che dormivano abbracciati. Si allontanò senza far rumore e prese a girovagare per la casa. L’ora del tè era ancora lontana ma di tornare a lavorare non aveva voglia. Poi si ricordò che una volta, parlandogli della casa, il conte Valentino aveva menzionato una stanza della musica. Decise lì per lì di andare a cercarla tra la ventina di stanze che componevano l’edifico. Avrebbe impiegato un po’ di tempo a trovarla, ma non era certo quello che gli mancava.
Oltre al corpo centrale l’edificio constava di due ali, delle quali una era occupata dagli alloggi della servitù, dai magazzini e dalle stanze di servizio e l’altra era praticamente disabitata. A occhio e croce potevano esserci una decina di camere e tra queste, forse, la stanza della musica. Indossò un mantello, prese delle candele e, così attrezzato, iniziò la sua ricerca.
Ariel si svegliò nella stanza avvolta nella semioscurità. Rannicchiato di fianco a lei Valentino dormiva beato. Ariel gli accarezzò i riccioli e indugiò a contemplare il visetto lievemente arrossato. Con estrema cautela, per non svegliarlo, scese dal letto e si rinfrescò il viso per cancellare ogni traccia di sonno. Si sentiva bene, riposata e piena dell’energia di cui avrebbe avuto bisogno per svolgere al meglio il suo compito di madre di un bambino esigente di cure come suo figlio. Che fosse diverso dagli altri bambini l’aveva saputo alla nascita quando la levatrice, pensando di non essere udita, l’aveva chiamato mostriciattolo e gli aveva augurato una morte precoce. Quando glielo aveva messo tra le braccia lei l’aveva trovato bellissimo e anche Manfredi aveva dichiarato orgoglioso che era il bambino più bello del mondo. Ariel era scoppiata a piangere e gli aveva riferito le parole della levatrice. Manfredi l’aveva abbracciata giurandole che non avrebbe permesso a nessuno di far del male al figlio e che l’avrebbe protetto a costo della vita. Com’era prevedibile, la notizia che il figlio dei marchesi era ‘strano’ fece il giro del Borgo e fu praticamente impossibile trovare una balia. Valentino piangeva per ore e niente sembrava in grado di acquietarlo. Gli abitanti evitavano persino di passare sotto le finestre del palazzo di mattoni rossi e se intravedevano Ariel con lui in braccio che passeggiava nel parco, allungavano il passo e si facevano il segno di croce. Manfredi aveva chiesto aiuto al suo amico Jacopo il quale aveva contattato la madre superiora di un orfanotrofio esponendole il caso. Tra le orfanelle c’era una ragazza che lei riteneva idonea a svolgere quel difficile compito e così Manfredi era partito per Torino per incontrare Doretta, che era stata trovata diciotto anni prima nella ‘ruota’ dalla suora portinaia e aveva trascorso la sua esistenza all’interno delle mura dell’orfanotrofio. Ubbidiente, di carattere mite e volenterosa, si prendeva cura dei bambini più piccoli con affetto e pazienza. Doretta si era affezionata subito a Valentino e anche il bambino gradiva le sue attenzioni. I suoi pianti a poco a poco diminuirono e una relativa tranquillità tornò a regnare nel palazzo. Da allora erano trascorsi quattro anni. Doretta non era più la ragazza timida e impacciata ma una giovane donna semplice nei modi e sicura di sé nel proprio ruolo, ancorché un po’ maldestra nei rapporti con l’altro sesso. Le buone suore le avevano insegnato tante cose, ma l’universo maschile non era materia di loro competenza. Così era toccato ad Ariel istruirla.
Valentino si girò nel letto piagnucolando. Vedendo la madre accanto, sorrise e si lasciò lavare e pettinare senza far storie. Mise il broncio solo quando nella stanza entrò Doretta con il vassoio della cena.
«Se mangiate senza fare i capricci resto qui.» lo rabbonì Ariel. «Andate a dare un bacio a Doretta e domandatele scusa per esservi comportato da monello con lei.» Valentino ubbidì e in cambio ricevette dalla ragazza una carezza e un biscotto al miele. Ariel rimase con lui fino a notte; solo quando fu certa che fosse profondamente addormentato richiamò la balia.
«Avete visto il marchese?» le domandò.
«No, signora» rispose la ragazza.
«Non è venuto a dare la buona notte al bambino» disse, con una punta di preoccupazione nella voce. Quello della buona notte era un rito tra padre e figlio a cui Manfredi non rinunciava.
«Avrà avuto un contrattempo» ipotizzò la balia.
«Sarà certamente come dite voi. Buona notte» si congedò Ariel, dirigendosi immediatamente nella sala da pranzo dove era certa di incontrare Manfredi. Trovandola deserta con la tavola apparecchiata intatta, la sua apprensione crebbe. Sicuramente non era uscito sotto quella pioggia incessante che aveva trasformato il vialetto che conduceva al villaggio in un rigagnolo di fango. Domandò notizie del marito a tutta la servitù ma ricevette solo risposte negative. Sull’orlo del panico mandò a chiamare Simone e Matteo che già erano al corrente dell’assenza del marchese. Mandarono a dire ad Ariel che erano impegnati a cercarlo e che sarebbero andati da lei non appena avessero avuto notizia del ritrovamento. Non le rimase altro da fare che aspettare. Salì nella propria camera e si stese sul letto; ma non resistette a lungo. Il senso di oppressione le faceva mancare il respiro; le pareva che le pareti si stringessero attorno a lei. Decise che avrebbe atteso Manfredi nello studio; lì almeno avrebbe trovato conforto nella presenza degli oggetti cari al marito. La stanza era illuminata dal fuoco del camino che qualcuno aveva mantenuto acceso e il profumo della legna aleggiava nell’aria. Ariel aspirò profondamente chiuse gli occhi, ricacciando le lacrime. Si impose di non piangere anche se la paura che qualcosa di brutto potesse essere successa al marito rendeva la sua determinazione fragile come il cristallo. Si sedette sulla sua poltrona preferita davanti al camino e rimase ad osservare i giochi di luce delle fiamme. La pioggia aveva smesso di cadere e l’unico rumore era lo scoppiettio dei ciocchi. Incapace di stare ferma, andò allo scrittoio e accese il lume. Più per tenere la mente occupata che per reale interesse aprì la cartella gonfia di fogli che giaceva sul tavolo. Si sedette e cominciò a sfogliare le pagine fitte di cifre; alcune incolonnate in bell’ordine, altre scritte di sghimbescio, ornate da sbavature d’inchiostro e intercalate da note e da cancellature. ‘Tipico del conte Valentino’ pensò Ariel con una punta di malinconia. Presto si stancò anche di quell’occupazione. Alzandosi, urtò inavvertitamente una pila di fogli. Imprecando, si sporse e riuscì ad afferrarli prima che, svolazzando, si spargessero sul pavimento. Cadde solo una busta e Ariel si chinò a raccoglierla. Era una comune busta, priva di contrassegni o stemmi, e poiché non era sigillata e mancava il nome del destinatario, non ritenne sconveniente sbirciarne il contenuto. Venne colta da un senso di vertigine, le parole cominciarono a danzarle davanti agli occhi e dovette sedersi per non cadere. Quei fogli le rivelavano con chiarezza la causa del loro allontanamento, ma soprattutto erano una prova inconfutabile che Manfredi le aveva mentito o, per lo meno, le aveva nascosto la verità. Troppo turbata per proseguire la lettura, uscì di corsa dallo studio sbattendo la porta e salì in camera dove crollò sul letto, divisa tra collera, dolore e una paura che le gelava il sangue nelle vene. Alla luce della recente scoperta, la prolungata quanto inspiegabile assenza di Manfredi assumeva una connotazione ben più sinistra. Si chiese come stessero procedendo le ricerche. Rimase distesa sul letto. Incapace anche di piangere, fissava il soffitto senza vederlo. Rimase in quella condizione di semi incoscienza finché non venne ridestata da un tramestio di passi e di voci al piano di sotto. In preda ad una frenesia incontrollabile si alzò e barcollando scese le scale. Udì la voce di alcuni uomini tra le quali riconobbe quella di Simone, ma non riusciva a distinguere le parole. Il primo ad accorgersi della sua presenza fu Matteo che, premuroso, le andò incontro. «Abbiamo trovato il marchese sano e salvo» si premurò di comunicarle. «Simone l’ha accompagnato nello studio; venite, vi conduco da lui.» Insieme risalirono al piano superiore. Ariel procedeva a piccoli passi, come se fosse restia ad incontrare il marito. Matteo ne fu molto stupito. La donna che conosceva lui si sarebbe precipitata nello studio impetuosa come una valanga e il suo stupore crebbe quando Ariel si bloccò davanti alla porta e quasi dovette costringerla ad entrare.
Nella penombra scorse Simone chino sulla poltrona dove Manfredi era sprofondato. Il fruscio dell’abito sul pavimento lo fece voltare e immediatamente corse a prendere una sedia e vi fece accomodare Ariel, temendo che sarebbe svenuta da un momento all’altro.
«Fatevi animo,» la esortò, porgendole un bicchiere d’acqua. «A parte il bernoccolo, il marchese sta bene, non avete nulla da temere.»
Ariel bevve un lungo sorso. Scrutò il volto del marito non meno pallido del suo; sulla fronte spiccava una protuberanza rosso violacea coperta da una pezzuola bagnata. Non c’erano né sangue, né altri segni di lacerazioni, almeno non sul viso. Il resto del corpo era avvolto in una calda coperta.
«Come potete vedere con i vostri occhi, vostro marito sta bene, a parte quel corno che si è procurato andando a sbattere contro un mobile» la rassicurò l’uomo con un sorriso. Al contrario Ariel gli lanciò uno sguardo d’acciaio. Sconcertato, Simone rimase a fissarla inebetito, poi, all’improvviso, un pensiero, un brutto pensiero, gli attraversò la mente. Entrando, aveva scorto sullo scrittoio dei fogli sparpagliati, ma non vi aveva prestato attenzione. Il dubbio che improvvisamente lo aveva assalito divenne certezza; la rabbia, il dolore che leggeva negli occhi della donna e il lieve tremito delle sue mani erano il segno che Ariel aveva scoperto la verità e lui si era guadagnato lo status di complice del marchese.
Accennò ad aprire la bocca, ma Ariel gli intimò di tacere con un gesto perentorio.
«Se non avete più bisogno di me, io vado» disse, avvicinandosi alla poltrona del marchese.
«Andate pure a riposare, amico mio. Prendetevi cura di voi e grazie per avermi evitato una notte al gelo» concluse con un sorriso.
‘Non credo di avervi fatto un favore,’ pensò l’uomo ‘La notte che vi attende non sarà migliore.’ Sulla porta si voltò e ciò che vide non gli piacque per nulla. Ariel sedeva rigida, delusa e amareggiata mentre Manfredi riposava sereno, ignaro della bufera che a breve lo avrebbe travolto. A causa dell’emicrania non aveva ancora aperto gli occhi e il silenzioso diverbio avvenuto a pochi passi da lui gli era completamente alieno.
Quante volte aveva esortato Manfredi a rivelarle la verità; sapeva che un giorno o l’altro Ariel l’avrebbe scoperta e aveva messo in guardia il marchese. Era successo e poteva solo augurarsi che l’amore che Ariel provava per lui fosse più forte della delusione causata dal suo comportamento. Si avviò verso le scuderie, prendendo a calci tutto ciò che gli capitava a tiro.
Il fuoco nel camino ardeva brillante, ma l’atmosfera nella stanza era algida. Manfredi ne percepì il gelo quasi a livello fisico, tanto che rabbrividì nonostante il calore della coperta. Socchiuse gli occhi e scorse la figura della moglie impassibile con lo sguardo fisso sul fuoco.
«Sono stato uno sciocco ad avventurarmi in quelle stanze disabitate senza avvisare nessuno» esordì, sicuro che il comportamento della moglie fosse dovuto allo spavento per la sua sparizione. «Quando quella dannata porta si è richiusa alle mie spalle e non sono più stato in grado di aprirla, il mio unico pensiero eravate voi.» Attese una risposta che non arrivò. Nella penombra crescente non riusciva distinguere in maniera nitida il volto di Ariel e il suo silenzio lo mise in apprensione. Superando la sensazione di nausea le si avvicinò.
«Perdonatemi se vi ho fatto stare in ansia» disse, posandole le mani sulle spalle. Non ottenendo risposta, andò a mettersi davanti a lei. «Avete l’aria terribilmente preoccupata, mia cara» commentò, non meno sconvolto di lei. «Fatevi animo, come vedete sono qui davanti a voi sano e salvo.» Poi, un pensiero inquietante gli attraversò la mente «È successo qualcosa al bambino?» domandò con la voce strozzata dall’ansia. Ariel scosse il capo e per la prima volta da quando era entrata nella stanza parlò.
«No, Valentino sta bene» rispose con voce monocorde.
«Allora perché siete così triste, amore mio?» domandò supplichevole.
«Sto cominciando a pensare che non vi conosco affatto» rispose Ariel in tono pacato che non ingannò comunque il marito che lo riconobbe foriero di tempesta.
«Cosa intendete dire?» replicò rude.
«Che mi avete mostrato di voi solo quello che volevate vedessi» rispose, evitando di guardarlo. C’era amarezza nella sua voce e paura. A Manfredi bastò un rapido sguardo allo scrittoio per capire; la risposta era lì davanti ai suoi occhi. Deglutì, si sentì stringere lo stomaco dalla paura.
«Oh buon Dio!» esclamò, nascondendo il viso esangue tra le mani.
«Lasciate in pace Dio» gli intimò Ariel, che si sforzava di trattenere le lacrime. Vedendolo così vulnerabile, avrebbe voluto abbracciarlo, rassicurarlo mentre una parte di lei avrebbe desiderato inveire contro di lui, tempestarlo di pugni.
«Se vi ho nascosto la verità è perché volevo proteggere il bambino e voi, naturalmente» spiegò. «Sono convinto di aver fatto la cosa giusta portandovi qui e allontanandovi dal pericolo.» Si diresse verso lo scrittoio; la testa gli doleva terribilmente e aveva la sensazione che uno sciame d’api inferocite vi ronzasse dentro. Ariel lo vide barcollare, ma non si mosse. Da un cassetto estrasse una busta piuttosto voluminosa.
«Quella che avete letto è solo l’ultima delle missive che ho ricevuto» disse, estraendo una dozzina e più di fogli.
«Così tante!» esclamò Ariel, risvegliandosi dal suo stordimento.
«La prima risale a parecchio tempo fa» rispose Manfredi, accingendosi a leggerla.«Il demonio entrerà nella vostra casa. L’angelo vendicatore vi distruggerà»
«Sono le parole di un folle!» esclamò Ariel indignata.
«Anche a me sembravano frutto di un delirio insano e non ho dato alcuna importanza alla cosa. Il nostro titolo ci rende facili bersagli per menti malate che sfogano le loro frustrazioni su di noi.» Tolse un altro foglio dalla pila e lo porse ad Ariel. Un demone maldestramente disegnato le rivolgeva un ghigno minaccioso.
«Non mi sembra di ravvisarvi alcuna minaccia» commentò, restituendo il foglio al marito, che concordò.
«Infatti; ma leggete questa missiva e capirete» disse porgendole un altro foglio nel quale l’anonimo angelo vendicatore non si limitava a generiche allusioni a satana, ma minacciava apertamente il bambino, figlio del demonio e lei in quanto sua madre.
«Capite perché non ve ne ho parlato?» mormorò Manfredi, prendendo tra le sue le mani gelate della moglie.
«No, non lo capisco» rispose senza guardarlo negli occhi. «Io sono sua madre ed è mio dovere proteggerlo. – Nella buona e nella cattiva sorte- ricordate? Invece voi mi avete tenuta all’oscuro di un fatto tanto grave. Non sono forse degna della vostra fiducia? Vi ho deluso dando alla luce un bambino particolare? Vi vergognate di lui?» Ormai Ariel era come un fiume in piena che aveva rotto gli argini. Ma l’emozione la tradì e scoppiò in un pianto disperato. Manfredi le si avvicinò per consolarla, ma Ariel impulsivamente lo respinse.
«Sono desolato» sussurrò Manfredi. «Ma sono convinto di aver agito per il vostro bene.»
«Comprendo che volevate proteggerci, ma mi avete esclusa, mi avete mentito!» gridò Ariel esasperata.
«Non devo rendere conto a voi delle mie decisioni!» urlò di rimando il marito, pentendosi di quelle parole prima ancora di aver terminato la frase, ma ormai era tardi per rimediare. Le sue parole sembravano aleggiare nell’aria e la sua furia riecheggiare nella stanza con un fragore di tuono. Ariel lo fissò con gli occhi gonfi di lacrime, si alzò e, senza proferire parola, uscì dalla stanza.
«Fermatevi!» le intimò Manfredi, ma gli rispose il tonfo della porta che sbatteva.
Svuotato di ogni energia, Manfredi aprì l’anta della libreria dove teneva una bottiglia di whisky da offrire agli ospiti. Prese un bicchiere e ne versò una dose molto generosa che bevve tutta d’un fiato, crollando sulla poltrona. Non seppe mai quanto tempo della sua vita fu inghiottito dal buco nero dell’oblio.
Fu in quello stato che lo trovò Simone qualche ora dopo, quando salì per portargli la tisana contro l’emicrania. Allarmato, lo afferrò per le spalle e lo scrollò chiamandolo per nome. Lentamente lo sguardo vacuo di Manfredi mise a fuoco la figura che lo sovrastava.
«Accidenti a voi!» imprecò «Volete farmi morire di paura?» Manfredi gli rivolse uno sguardo triste, poi si rannicchiò nella poltrona, nascose il volto tra le mani e scoppiò in un pianto senza ritegno, incurante di mostrare la sua fragilità all’amico che, a disagio, si voltò verso la finestra per nascondere le lacrime che gli rigavano il volto.
«L’ho perduta!» continuava a ripetere tra i singhiozzi.
«Sapevo che un giorno o l'altro avrebbe scoperto la verità» affermò Simone, guardando torvo il bicchiere colmo a metà di liquore.
«Se n’è andata.» rispose, sorseggiando il liquore morbido, con un leggero aroma di torba che saliva nel naso ed evaporava dentro la testa.
«Tornerà presto, non preoccupatevi» lo rassicurò. «Non può stare lontana da voi, vi ama troppo.» Manfredi lo guardò riconoscente, ma com’erano spenti e vuoti i suoi occhi! Il sorriso che apparve sulle sue labbra risultò privo del benché minimo calore. Con movimenti incerti riempì nuovamente il bicchiere. Simone lo guardò accigliato.
«Non servirà a niente ubriacarvi», sentenziò. Manfredi ingoiò il contenuto del bicchiere. «Non volete bere con me?» domandò, con un’espressione di sfida sul viso. Non ottenendo risposta, alzò il bicchiere «Alla vostra salute!» farfugliò strabuzzando gli occhi. «Per la miseria!» inveì Simone afferrando al volo il bicchiere prima che planasse sul pavimento. Prese dell’acqua dalla brocca e gliela spruzzò sul viso. «Maledizione, aprite gli occhi!» lo esortò, scuotendolo vigorosamente. «Avanti, svegliatevi, principe degli idioti!»
«Attento a come parlate» rispose Manfredi con la voce impastata dall’alcool. «Vi ho sentito.»
«Ne sono lieto. Forza, alzatevi, vi accompagno nella vostra stanza. Una bella dormita è quel che vi ci vuole» affermò, afferrandolo saldamente sotto le ascelle. «Si può sapere cosa vi è saltato in mente? Bere in quel modo, proprio voi che non assaggiate neppure un goccio di vino» brontolava, tentando di tenerlo eretto. Presto si rese conto che cercare di farlo camminare era una battaglia persa e sbuffando se lo caricò su una spalla come un sacco. Sentendosi sollevare, Manfredi provò a ribellarsi, tempestandogli le spalle di pugni e minacciando incomprensibili ritorsioni. «Adesso smettetela, se non volete un bel pugno in faccia. O ve ne state buono o vi faccio rotolare dalle scale come una botte» lo minacciò Simone.
«Il marchese sono io e gli ordini li do io!» biascicò.
«Certo, certo, gli ordini li date voi» replicò Simone uscendo dalla stanza col suo fardello sulle spalle.
«Oh Santo Iddio! Manfredi!!!» gridò Ariel che in quel momento attraversava il corridoio.
«Non allarmatevi, marchesa» la rassicurò Simone. «È solo ubriaco.»
«Ubriaco?» gli fece eco Ariel incredula. «Manfredi non tocca un goccio di vino!»
«Invece stasera si è scolato un’intera bottiglia di whisky. Doveva essere un’occasione molto speciale, marchesa» ribatté, fissandola con occhi accusatori. Ariel capì cosa intendeva dire; secondo lui era colpa sua se Manfredi era in quello stato.
«Anche per me è stata una serata molto speciale ma non per questo mi sono ridotta così» ribatté astiosa, indicando il corpo del marito che ciondolava inerte.
«Dove lo state portando?» domandò.
«Nel suo letto, ha bisogno di una bella dormita» rispose pacato.
«No» replicò Ariel categorica. Simone alzò gli occhi sul volto corrucciato della donna. «Non voglio un ubriaco nel mio letto. Portatelo dove vi pare, tranne che nel nostro letto» disse, sottolineando quel ‘nostro’. «Come desiderate, marchesa. Lo porto nella mia stanza. Vi auguro una buona notte, marchesa» sottolineando marchesa con un tono di voce carico di ostilità.. Si allontanò in fretta lungo il corridoio, lasciando Ariel in preda ad emozioni intense e contrastanti. Accennò a una rimostranza, ma subito si zittì e cercò invano di ricacciare indietro le lacrime. Simone abbozzò un sorriso quando udì la porta in fondo al corridoio chiudersi con un tonfo.
Raffiche di vento spingevano la pioggia contro i vetri delle finestre della camera dove Ariel, distesa sul letto, aveva la sensazione di essere risucchiata da un vortice al quale non poteva sottrarsi. Il sonno l'aveva colta di sorpresa, ma non era un sonno ristoratore. Le immagini confuse e spaventose che le sfilavano davanti agli occhi parevano emergere da un mare nero; si affastellavano disordinate, senza controllo. Si girava e rigirava nel letto, ma l'incubo la investiva con forza, finché, lentamente alle prime luci dell'alba si dissolse, come cancellato tratto dopo tratto da una mano misericordiosa.
«Devo parlare col marchese» esordì Matteo quando di buon mattino incontrò Simone nel cortile sul retro della casa. Matteo era mattiniero. Pur avendo alle sue dipendenze un piccolo esercito di inservienti, era sempre il primo ad arrivare nelle stalle. Amava le quiete ore dell’alba, il tepore odoroso di fieno e paglia che ristagnava nella stalla, i nitriti tranquilli dei cavalli in risposta alle sue carezze sui musi umidi.
«Non è possibile» rispose laconico l’amico.
«Ma è importante che gli parli, e che gli parli adesso» insistette.
«Il marchese adesso non può ricevere visite. Se è una cosa tanto urgente puoi dirla a me e gliela riferirò.»
«Può ricevere te e io non posso parlargli?» replicò Matteo risentito. Simone lo afferrò per un braccio e lo trascinò in un angolo, lontano da eventuali orecchie indiscrete.
«Adesso stammi a sentire e giura che non parlerai a nessuno, di quanto sto per dirti» mormorò. Matteo lo fissava stralunato.
«Allora, mi dai la tua parola?» insistette Simone. L’amico annuì, preoccupato dal tono della sua voce.
«Il marchese si trova nella mia stanza, più precisamente nel mio letto, dove sta dormendo profondamente. Per questo non puoi disturbarlo. Non avrà un risveglio piacevole, prevedo che la vendetta della bottiglia di whisky sarà tremenda» sentenziò con un mezzo sorriso. «Ieri sera l’ho trovato ubriaco fradicio.» In poche frasi Simone raccontò all’amico, sempre più esterrefatto, gli accadimenti della sera precedente. Non tutto però. Deliberatamente aveva tralasciato l’incontro con Ariel. «Ecco il motivo per cui non voglio che venga disturbato» concluse. Matteo annuì, anche se ancora non aveva ben chiara la ragione della presenza del marchese nella stanza dell’amico. «Ora» proseguì Simone «se vuoi dire a me ciò che volevi riferirgli sono tutto orecchi.» Matteo perlustrò con lo sguardo il cortile.
«Alfonso è tornato. Stamattina sono andato alle stalle per dare una mano ad Eusebio; povero ragazzo, sei stato molto duro con lui.»
«Gli ho solo lisciato un po’ il pelo, giusto per ricordargli qual è il suo dovere» si giustificò Simone.
«Lui il suo dovere l’aveva fatto, ma tu l’hai aggredito senza dargli la possibilità di spiegarsi!»
«Vuoi parlarmi del ritorno di Alfonso o preferisci continuare a recitare la parte dell’angelo custode? Perché se è così ho altre cose da fare» tagliò corto Simone.
«Va bene, va bene. Però potresti portare il ragazzo alla locanda per una birra» propose.
«D’accordo!» rispose spazientito «ma adesso ti decidi a parlarmi di Alfonso? Come ha giustificato la sua assenza?»
«Ha detto che è andato a fare una passeggiata nella brughiera e che si è perso; si è fatto buio e non è più riuscito a trovare la via del ritorno. Ha aggiunto che farà la parte di lavoro di Eusebio, visto che lui si è occupato dei suoi animali in sua assenza.» Simone rimase a fissarlo in attesa.
«Tutto qui?» disse Simone. Matteo allargò le braccia avvilito «Tutto qui» confermò. «Non è molto credibile come storia» commentò Simone «Ha impiegato tutto questo tempo per ritrovare la strada di casa e poi dove ha trascorso le notti? Se ha alloggiato in una locanda dei dintorni, avrebbe potuto chiedere informazioni e sarebbe stato di ritorno il giorno successivo. Non può neppure aver trascorso le notti all’addiaccio, sarebbe morto di freddo. Sai, credo che il caro Alfonso non ce la racconti giusta. Seguirò il tuo consiglio. Stasera inviterò Eusebio alla locanda, magari a lui ha detto qualcosa di più. Ad ogni modo, appena il marchese sarà in condizioni di ascoltarmi, gli racconterò tutto quanto. Buona giornata.» «Anche a te» rispose Matteo allontanandosi pensieroso.
Non aveva raccontato ad alcuno della sua visita all’alloggio di Alfonso, né tantomeno delle sue scoperte. Adesso, però, il ritorno inaspettato dell’uomo lo aveva messo in una situazione scabrosa. Dal libretto trafugato aveva ricopiato diligentemente iniziali e cifre, che avrebbe consegnato al marchese, ma non aveva fatto in tempo a rimetterlo dove l’aveva preso. In cuor suo si era convinto che Alfonso fosse in qualche modo scomparso, pertanto se l’era presa comoda. Ora rifletteva sul modo di rimettere tutto a posto in fretta, prima che il proprietario ne scoprisse la sparizione. Questa riflessione lo portò ad un’altra, in direzione opposta. Non avrebbe restituito il libretto, decise su due piedi. Alfonso si sarebbe accorto della sua scomparsa e avrebbe dedotto che qualcuno aveva frugato tra le sue cose. Era curioso di vedere quale sarebbe stata la sua reazione. L’idea gli piacque e, rasserenato, si avviò fischiettando verso il villaggio.
Manfredi si svegliò. Il ricordo di quanto era accaduto la sera precedente gli causò un dolore tremendo, anche peggiore del dolore alla testa. Ma non era in grado di spostare indietro il tempo: Allungò una mano e si toccò il capo. Il dolore era così penetrante che gli stava facendo venire la nausea. Nella penombra scorgeva le ombre di arredi che gli erano estranei. Nella grigia luce dell’alba giaceva immobile nel letto. Provò a sollevare la testa. Immediatamente la stanza si animò di vita propria e iniziò a ruotare in perfetto sincronismo con il suo stomaco, mentre un’armata di solerti scalpellini lavoravano nella sua testa. Esausto ripiombò sul letto. La porta si spalancò. Una sagoma scura apparve sulla soglia. Il familiare odore pungente dell’intruglio contro l’emicrania gli procurò un conato di vomito. Simone rimase sulla soglia, in attesa. Manfredi si ripulì, sollevando la testa dal catino che il previdente servitore aveva posto di fianco al letto.
«Mi sembra di aver mangiato sterco di cavallo» gemette, asciugandosi le lacrime che gli rigavano il viso disfatto. «La mia testa!!!» si lamentò.
«Una sbornia non ha mai ammazzato nessuno» minimizzò Simone. «Bevete, questo vi allevierà l’emicrania. Lo stomaco l’avete liberato, dormite ancora un po’, vedrete che poi starete meglio.»
«Avete visto Ariel?» domandò, mentre l’amico gli sosteneva il capo per permettergli di bere un po’ della tisana che avrebbe dovuto alleviare gli spasmi, a patto che lo stomaco collaborasse, cosa che fino ad ora non era accaduta.
«No, non l’ho vista» rispose Simone. La delusione che si dipinse sul volto del marchese gli procurò una fitta al cuore. «Sicuramente non ha voluto disturbarvi» proseguì. Manfredi gli rivolse un timido sorriso, riconoscente per il tentativo dell’amico di alleviare la sua frustrazione.
«Ubriacarmi non è stata una grande idea» disse.
«No, non lo è stata» confermò Simone. «Adesso mettetevi giù e riposate. Più tardi farete un bel bagno e tornerete come nuovo.»
«Puzzo peggio di un montone» si rammaricò, annusando schifato la camicia umida di sudore stantio.
«Su questo vi do ragione; puzzate veramente tanto» disse, prendendo il catino per vuotarlo nella latrina.
«Simone» lo richiamò Manfredi. «Grazie, siete un vero amico.» A disagio, Simone bofonchiò un goffo ringraziamento incomprensibile, grato alla semioscurità che nascondeva il rossore del viso.
Nello stesso momento, in un’altra stanza, un uomo, rosso di collera e col cuore a mille, stava freneticamente rovesciando sul pavimento il contenuto di un baule. Un libro volò nella stanza, atterrando accanto ad un mucchio di biancheria. Calzoni, camicie e biancheria venivano meticolosamente scandagliati, rovesciati e gettati da parte, tra imprecazioni e maledizioni sussurrate. Quando anche l’ultimo indumento ebbe superato l’esplorazione inconcludente, l’uomo si sedette in mezzo a quel macello e nascose il viso tra le mani. Ormai gli era chiaro che in sua assenza qualcuno aveva sottratto il prezioso libretto. Ora sarebbe stato più difficile portare a termine l’incarico, ma in nessun caso si sarebbe dato per vinto. Avrebbe continuato a svolgere il suo compito di stalliere e avrebbe evitato di allontanarsi dalla tenuta per non alimentare sospetti e, se la fortuna lo assisteva, avrebbe anche scoperto l’autore del furto. Si alzò e cominciò a raccogliere gli indumenti sparpagliati. Con precisione maniacale li piegò uno ad uno e li ripose nel baule. Quindi si sedette al tavolino, estrasse dal cassetto penna, calamaio e un foglio. Con bella calligrafia vergò: “ N.D. Marchesa Letizia …”
La debole luce grigia velava l’orizzonte di una coltre malinconica. Distesa sul letto, Ariel ascoltava il vento che gemeva e fischiava giù nella grande brughiera. Ne immaginava i mulinelli che appianavano l’erba, e diradavano la coltre di nebbia. Si sentiva intorpidita e aveva la sensazione che niente fosse reale, se stessa compresa. Sfortunatamente non esisteva un vento in grado di sperdere le nubi temporalesche che si addensavano nella sua testolina. Aveva trascorso parte della notte in lacrime, soprattutto di rabbia e di delusione. A ciò si aggiungeva la preoccupazione per le condizioni di Manfredi. Impaurita e sconcertata, si sentiva schiacciata da una situazione tanto imprevedibile quanto minacciosa. Alle prime luci dell'alba si alzò indolenzita per le posizioni scomode in cui si era girata e rigirata nel letto, disorientata e confusa. Si levò a sedere; restare lì a piangersi addosso non avrebbe risolto i suoi problemi e la situazione non sarebbe migliorata nemmeno se avesse versato un mare di lacrime. Con uno scatto tirò indietro le coperte e scese dal letto. Il contatto dei piedi nudi sul pavimento la fece rabbrividire, ma le diede anche una sferzata di energia. Andò al canterano e aprì l'ultimo cassetto da dove, sotto una montagna di indumenti, estrasse i suoi vecchi calzoni, la casacca e il mantello. Li aveva conservati in ricordo del suo primo incontro con Manfredi, ma non immaginava certo di doverli ancora indossare. La casacca era perfetta, ebbe qualche difficoltà con i calzoni; le sue forme si erano ammorbidite, ma tirando un po' e trattenendo il respiro, alla fine riuscì ad infilarli. Raccolse i capelli sotto un'ampia berretta di lana, indossò gli stivali e si diresse alle scuderie. Il cortile era deserto e i suoi passi risuonavano sul selciato umido della rugiada notturna. Una striscia di luce biancastra illuminava appena il cielo. Dagli alloggi della servitù stava uscendo Matteo. Lo chiamò.
«Matteo!»
«Siete mattiniera» la salutò l'uomo, avvicinandosi.
«Aiutatemi a sellare un cavallo. L'avrei fatto da sola, ma visto che siete qui …»
«No, no signora. Non posso» rispose, indietreggiando. «Il marchese ha dato ordini precisi: non dovete allontanarvi da sola.»
«Il marchese non lo verrà mai a sapere. Su, fatemi questo favore» lo implorò, sfoderando tutto il suo fascino.
«No, signora, no. Gli ordini sono ordini.» replicò brusco. «Il marchese mi scorticherebbe vivo se sapesse che vi ho aiutata ad uscire da sola. A quest'ora, poi.»
Ariel cambiò tattica.
«Come va il vostro stomaco?» domandò.
«Bene» rispose, affrettandosi verso le stalle, tallonato da Ariel.
«E la vostra testa?»
«La mia testa? Non ha niente la mia testa»
Ariel gli si parò davanti. «Siete molto pallido, e che occhi arrossati!» affermò, assumendo un'espressione preoccupata. Gli posò una mano sulla fronte. «Come scotta! Sicuramente avete la febbre alta!»
«Ma io sto benone!» la contraddisse.
«Al contrario, voi state malissimo. Questa febbre è il segnale di una malattia ben più grave; e se non vi sentite male è anche peggio, significa che la malattia lavora dentro di voi in profondità.» Matteo la fissava stranito. «Andate a coricarvi, vi farò portare del brodo caldo.» Sebbene nella sua mente si fosse insinuato il tarlo del dubbio, oppose ancora resistenza. «Prima devo governare le bestie» affermò.
«Ci penseranno Alfonso ed Eusebio, voi andate a coricarvi» insistette, spingendolo verso gli alloggi. Per essere certa di averlo in pugno, Ariel giocò la sua carta vincente.
«Oh, vi stanno uscendo delle brutte bolle sul collo!» esclamò, inorridita. Matteo avvicinò la mano al punto indicato da Ariel, ma questa lo bloccò.
«Non toccatevi!» intimò. «Potreste infettarvi in tutto il corpo!»
Matteo, che aveva il sacrosanto terrore delle malattie, cominciò a tremare.
«State tremando!» disse Ariel. «La febbre deve esservi salita ancor di più. Vi accompagno nei vostri alloggi e mi raccomando, non fate avvicinare nessuno, potreste essere contagioso. Penserò io ad avvisare Eusebio e Alfonso.»
Durante il breve tragitto Ariel gli elencò tutte le catastrofiche conseguenze a cui sarebbe andato incontro se avesse trascurato i sintomi così chiari della malattia che stava attaccando il suo corpo. Ormai completamente sopraffatto, in preda al panico, Matteo si cacciò sotto le coperte.
«Più tardi verrò a controllare come state» lo rassicurò Ariel, chiudendosi la porta alle spalle. «Perdonatemi, Matteo» mormorò, allontanandosi in fretta. Aveva approfittato malignamente della sua unica debolezza: la paura delle malattie.
Ariel accese una lampada nella stalla ancora addormentata, dove l'odore dolce della paglia si mescolava a quello acre dei cavalli. Si levò qualche debole nitrito. Staccò la bardatura da un gancio alla parete e con abili gesti bardò la cavallina di cui conosceva la docilità. Avrebbe preferito montare un castrone, ma non voleva correre il rischio di essere disarcionata; la sua cavalcata doveva restare un segreto; sarebbe comunque stata di ritorno prima dell'arrivo dei garzoni.
Ariel mise la cavallina al passo; la brezza mattutina e il profumo di salsedine la rinvigorirono. Si fermò davanti a due macigni, resti di archi distrutti chissà da quando. Scese da cavallo e lo lasciò pascolare libero. Quindi si diresse verso la scogliera. Tranne il grido di qualche gabbiano, intorno era tutto silenzio. Chiuse gli occhi e si lasciò cullare dal balsamico sciabordio dell'acqua che si infrangeva sulle rocce frangiflutti che si allungavano nelle acque dell'oceano. Il sole cominciava ad illuminare gli scogli che le onde spruzzavano con gocce dorate quando Ariel tornò a prendere la sua cavalcatura. Lanciò la cavallina al galoppo lungo la scorciatoia; aveva fretta di rientrare. Accanto alle rovine della vecchia abbazia si levò l'ululato del vento, come il pianto disperato di un bambino, ma lei non vi prestò attenzione.
Sulla collina, nascosto dall'erica della brughiera, un uomo a cavallo, avvolto in un mantello scrutava il mare; una barca aveva attirato la sua attenzione poiché stava percorrendo lo stesso tratto di mare da un po'. Certamente i suoi occupanti non stavano pescando.
Nello stesso momento, Simone era nella stanza di Matteo e stava ascoltando la sua storia.
«Adesso vattene; Ariel ha detto che potrei essere contagioso» concluse.
«Ariel ti ha raccontato un sacco di frottole!» sbraitò Simone, tirando indietro bruscamente le coperte. «Fuori dal letto, subito!»
«Ma ho la febbre!» piagnucolò Matteo.
«Vecchio babbeo! Non hai la febbre e non ci sono bolle sul tuo collo. Ariel ti ha lanciato l'esca e tu hai ingoiato amo, lenza e anche la canna! Adesso vestiti in fretta; se il marchese viene a sapere che Ariel è andata in giro da sola, ci scortica vivi tutti e due. Io vado alle stalle e tu sbrigati!»
Nelle stalle trovò Eusebio intento a strigliare uno dei cavalli. Lo superò senza degnarlo di un saluto. 'Brutta giornata', pensò il ragazzo e non si meravigliò neanche più di tanto quando Simone lo strattonò per un braccio.
«Manca un cavallo!» gli urlò in faccia.
«Lo so,» rispose il ragazzo con calma. «Alfonso l'ha portato dal maniscalco.»
Con una colorita imprecazione Simone si avviò a grandi passi verso l'uscita e quasi si scontrò con Alfonso che teneva il cavallo per la cavezza. Che fosse stato dal maniscalco non c'erano dubbi, tanto puzzava di unghia bruciata.
«Buona giornata» lo salutò.
«Avete visto la marchesa?» lo investì Simone.
«No» rispose laconico Alfonso, oltrepassandolo.
«Stavo cercando proprio voi!» lo apostrofò Ariel, attraversando il cortile. Indossava il solito abito da casa e niente di lei faceva supporre che fosse appena rientrata da una cavalcata, tranne le guance un poco arrossate e i capelli umidi, particolari che non sfuggirono agli occhi indagatori del vecchio servitore.
«Ho qui la tisana per l'emicrania del marchese.» Simone la prese gentilmente per un braccio e la allontanò da orecchie indiscrete. «Volete che tutta la servitù sappia che il marchese non ha dormito nel suo letto stanotte?» sibilò. Ariel fece spallucce. «È probabile che già lo sappia, ma non mi importa. Volete essere così gentile da portargli questa tisana?» domandò sarcastica, cacciandogli in mano la ciotola ancora fumante. Si allontanò a passo veloce. Brontolando, Simone tornò al suo alloggio.
«Siete sveglio?» domandò a bassa voce, avvicinandosi al letto dove giaceva il marchese.
«Sì, ma vorrei non esserlo» biascicò Manfredi in preda alla nausea e ad una feroce emicrania.
«Il risveglio dopo una sbornia non è mai piacevole» sentenziò Simone. «Ariel vi ha preparato la tisana» disse, aiutandolo a sedersi.
«L'avete vista?» domandò Manfredi ansioso. «Come sta?»
«Bene, credo. Meglio di voi senza dubbio.»
«Vi ha detto … qualcosa?»
«Solo di farvi bere la tisana.»
«Ah,» commentò Manfredi, affondando il viso nella ciotola.
«Posso parlarvi liberamente?» domandò Simone. Manfredi annuì. «Ma parlate a bassa voce, vi prego. Oh, la mia povera testa!» si lamentò, abbandonandosi sui cuscini.
«Ariel non è una sciocca ragazzetta, è una donna forte e intelligente. Ha capito subito che io e Matteo vi abbiamo aiutato a … in questa faccenda. Per lei siamo anche noi colpevoli di averle tenuta nascosta la verità. Ma mentre noi possiamo sempre affermare di averlo fatto per lealtà nei vostri confronti, voi, beh, voi non avete scuse. Siete in un guaio, Manfredi, in un grosso guaio. Dovrete lavorare parecchio per riconquistare la sua fiducia.»
«Le ho taciuto la verità per proteggere lei e il bambino» replicò Manfredi stancamente.
«Ve lo siete ripetuto talmente tante volte che avete finito per credere alle vostre parole. Adesso dovete convincere vostra moglie.» Simone si avviò alla porta. «Aspettate che la tisana faccia effetto prima di alzarvi. Vi farò preparare un bagno caldo. Io starò qui intorno, chiamatemi se avete bisogno.» concluse, chiudendo la porta dietro di sé.
Ariel trascorse la giornata in compagnia del figlio, assecondando ogni sua richiesta. «Andiamo nei prati?» domandò il bambino. Ariel acconsentì; non c'era motivo di contrariarlo. Avrebbe già dovuto restare in casa nei giorni di pioggia, sarebbe stato sciocco non approfittare di un giorno di sole.
«Doretta, preparatevi e mandate a chiamare Alfonso. Andiamo a fare una passeggiata» ordinò alla balia, prendendo in braccio il bambino.
«Sì, signora» rispose mogia la ragazza, a cui la prospettiva di trascorrere il pomeriggio con Alfonso non sorrideva per nulla. Non che l'uomo fosse mai stato villano o importuno, ma lei aveva sempre la sensazione che la giudicasse. Raramente sorrideva, parlava solo se interrogato e sovente rispondeva a monosillabi. Avrebbe preferito che ad accompagnarle fosse stato Eusebio che rideva e scherzava con lei e non era nemmeno indifferente ai suoi sguardi civettuoli. Ma alla signora non piaceva questo suo comportamento e l'aveva anche rimproverata. Così, mentre camminava lungo il sentiero accanto ad Alfonso, teneva gli occhi bassi e taceva. Una brezza leggera portava il sentore ricco della torba e della vegetazione in decomposizione che l’aveva generata. Ariel si sedette su un tronco di un ontano caduto mentre Valentino correva e si rotolava nell'erba, lanciando gridolini di gioia. I suoi pensieri erano come uno stormo di gabbiani che giravano intorno in cerca di cibo, si posavano un attimo e si alzavano di nuovo in volo.
«Guardate! C'è il signore del calesse!» gridò il bambino, correndo incontro alla figura che scendeva lungo il sentiero assorto nella lettura.
«Marchesa, che piacere rivedervi» la salutò il reverendo Patrick, accennando un inchino.
«Reverendo» lo salutò Ariel.
«Posso avere l'onore di accompagnarvi?» Ariel annuì. Dietro a loro, Alfonso lo osservava accigliato. Doretta si chiese come mai la presenza del reverendo lo infastidisse così tanto, ma tenne per sé i propri pensieri.
«Valentino ha interrotto le vostre preghiere» disse Ariel, indicando il libro in cui il reverendo aveva inserito un segnalibro prima di chiuderlo.
«No, stavo solamente scegliendo i salmi per la funzione funebre di quella povera figliola; che tragico destino!» chiosò, con un sospiro.
«Cosa le è accaduto»? domandò Ariel.
«Credevo lo sapeste, marchesa. Ne parla tutto il villaggio. Il mare ha restituito il corpo di una giovane donna. Si è impigliato nella rete di alcuni pescatori. Non viveva nel nostro villaggio, la poveretta, ma è usanza che si celebri una funzione in suffragio in tutti i villaggi vicini. I pescatori sono persone rudi, ma estremamente rispettosi della morte.»
«Una giovane donna, avete detto?»
«Sì, una povera ragazza, figlia di pescatori.»
«Oh, è forse caduta in acqua da una barca e nessuno l'ha soccorsa?» domandò Ariel indignata.
«No, non era su una barca. L'avevano mandata a servizio con la sorella, ma non so dove; lontano comunque. Al villaggio dicono che quando l'hanno tirata sulla barca, indossava un abito elegante, da signora, non da povera sguattera. Forse l'aveva rubato e stava scappando quando è caduta in acqua. Che Nostro Signore abbia pietà della sua anima» concluse facendo il segno di croce.
«Amen» mormorò Ariel. Proseguirono in silenzio; anche Valentino camminava a testa bassa tendendo stretta la mano della madre. Fu il reverendo a sollevare il velo di tristezza che era calato sulla comitiva. «Sono desolato, marchesa, non era mia intenzione rattristarvi. Temo di aver rovinato la vostra passeggiata.»
Ariel gli sorrise, e per rasserenare l'atmosfera domandò: «È la vostra chiesa quella?» In fondo al sentiero, infatti, c'era un piccolo edificio in pietra circondato da un muro di cinta, anch’esso in grigia pietra grezza.
«Sì» rispose il reverendo, con gli occhi che brillavano di orgoglio. «Volete farmi l'onore di visitarla?»
«Certamente, con molto piacere.» rispose Ariel. Entrarono nel fresco ambiente sobriamente arredato con semplici panche. Le note lamentose del piccolo organo riempivano l'aria profumata di cera. Rachel non li aveva sentiti entrare, e si interruppe solo quando il fratello le posò una mano sulla spalla.
«Che gioia rivedervi!» esclamò, abbracciando Ariel. «Siete venuta per la funzione?» domandò.
«No, Rachel, li ho invitati a visitare la nostra chiesa» replicò il reverendo.
«È molto graziosa» si complimentò Ariel, indagando l'ambiente con lo sguardo.
«È piccola, ma come vi dissi, il mio gregge è molto sparuto ed è più che sufficiente. Durante le funzioni la maggior parte delle panche resta vuota» aggiunse, con una punta di rammarico.
«Non questa sera» replicò la sorella. «Ci sarà tutto il villaggio alla funzione.» Quindi si rivolse ad Ariel: «Andiamo in canonica, vi preparo una tazza di tè.» Ma Ariel declinò l'invito. «Vi ringrazio, ma si è fatto tardi e per Valentino è quasi ora del riposino pomeridiano.» Si salutarono con la promessa di rivedersi prima che il gelo e le piogge dell'inverno rendessero impraticabile il sentiero. Presero la scorciatoia che assecondava il profilo delle falesie.
«Chi piange?» domandò Valentino, semiaddormentato in braccio a Doretta.
«Nessuno» gli rispose Ariel, accarezzandogli i capelli. «È solo il vento.» Camminarono di buon passo; riccioli di nebbia si sollevavano dal terreno mentre il cielo diventata sempre più scuro e minaccioso. Giunti nel cortile, Alfonso si accomiatò con un inchino e si affrettò verso le stalle a svolgere i suoi compiti di stalliere. La notte sarebbe sopraggiunta presto. Lasciato Valentino alle cure della balia, Ariel si cambiò d'abito e bussò alla porta dello studio di Manfredi.
«Ariel!» esclamò stupito, andandole incontro.
«Come vi sentite?» gli domandò premurosa. Manfredi prese tra le sue le mani della moglie; col cuore che gli martellava nel petto.
«Mi fate entrare?» domandò ancora Ariel. Come risvegliato da un sogno, Manfredi si riscosse e la guidò verso una delle due poltrone che componevano l'austero arredamento.
«Allora, come vi sentite?» domandò nuovamente.
«Bene» rispose, senza staccare gli occhi dal viso della moglie, quasi temesse di vederlo svanire.
«Avete un aspetto orribile» lo contraddisse, usando il tono più neutro che le riuscì.
«Ubriacarmi non è stata una decisione particolarmente saggia» ammise contrito.
«Infatti» proseguì Ariel. «Siete mortalmente pallido e i vostri occhi poi, sembra che abbiate fatto a pugni con un esercito di selvaggi.» Manfredi non replicò, temendo che una parola male interpretata potesse farla fuggire. «E, nonostante tutto, voi dite di stare bene» concluse Ariel, sforzandosi di mantenere lo stesso tono distaccato. Se avesse dovuto seguire il suo istinto, sarebbe corsa tra le sue braccia e poi avrebbe tempestato di baci il volto disfatto. Manfredi mantenne la conversazione su un terreno neutro.
«Grazie alla tisana che mi avete preparato l'emicrania è scomparsa e Simone mi ha praticamente costretto a mangiare un'intera ciotola di pappa di avena che mi ha messo a posto anche lo stomaco. Quindi, nonostante il mio aspetto non sia dei migliori, posso affermare di stare bene.»
«Ne sono lieta» affermò, alzandosi per congedarsi.
«Ve ne andate?» domandò deluso.
«Vi lascio al vostro lavoro. Volete che vi chiami Simone?»
«No, non voglio che mi chiamiate Simone, voglio che restiate» rispose con un tono più autoritario di quanto avrebbe voluto. Ariel inarcò un sopracciglio, ma con studiata flemma, si sedette nuovamente.
«Ariel, so che siete adirata con me …» iniziò impacciato.
«Vi sbagliate, marito mio, io non sono adirata con voi» lo interruppe Ariel, guardandolo fisso negli occhi. «Se fossi adirata con voi, come avete detto, vi urlerei tutta la mia rabbia. Voi mi conoscete, sapete quanto sia impulsiva» concluse, assumendo un atteggiamento di timida sottomissione, che lasciò Manfredi esterrefatto.
«Oh, Ariel, sono così felice di sapere che non mi portate rancore e che mi avete perdonato!» Cercò le sue mani, impegnate a rassettare le pieghe dell'abito. Ma quando le sfiorò, Ariel le ritrasse.
«Ho solo detto che non sono adirata con voi, ma non che vi ho perdonato.» lo corresse. La delusione che lesse sul viso del marito le strinse il cuore, e le costò uno sforzo immane vincere il desiderio di abbracciarlo e dirgli quanto lo amasse.
«Credevo di avervi dimostrato di essere una brava moglie, ma vedo che mi considerate una sciocca, indegna della vostra fiducia; una fragile statuetta di biscuit da mettere in mostra.» Sapeva quanto quelle parole lo avrebbero ferito, e soprattutto quanto fossero lontano dalla verità, ma la delusione era ancora troppo cocente.
«Indubbiamente sareste una splendida statuetta, ma vi assicuro, mia cara, che non ho mai pensato a voi in questi termini e soprattutto non vi considero una sciocca» replicò Manfredi, risentito.
«Allora, perché mi avete tenuta all'oscuro delle minacce che avete ricevuto? Mi avete allontanata dai miei familiari, da Letizia, dalle bambine e mi avete portata in questo posto col pretesto di controllare l'eredità lasciatavi dal conte Valentino, dicendo che saremmo rimasti solo il tempo necessario per sistemare i vostri affari. E ditemi, torneremo a casa o resteremo qui per sempre?» concluse con un grido strozzato dal pianto. Manfredi si avvicinò e la prese tra le braccia. «Mi dispiace» le sussurrò all'orecchio. «Mi dispiace, ma ero così spaventato! Vi ho taciuto la verità per proteggere voi e il bambino. Per lo stesso motivo siamo venuti qui, al sicuro.» Ariel si scostò da lui e si asciugò le lacrime con la manica dell'abito, un gesto infantile che strappò un tenero sorriso al marito. «Temo che non siamo al sicuro.» affermò Ariel, seria.
«Cosa ve lo fa pensare? Avete contravvenuto ai miei ordini e siete uscita da sola? Siete stata avvicinata da qualcuno che non conoscete?» la incalzò Manfredi.
«Non ho contravvenuto ai vostri ordini, sono uscita con Valentino accompagnata da Alfonso e Doretta. Lungo il sentiero abbiamo incontrato il reverendo York che ci ha invitati a visitare la sua chiesa.» Ignorando lo sguardo truce del marito proseguì. «Sua sorella Rachel stava preparando i canti per una funzione funebre. È stato ripescato il corpo di una ragazza che era stata mandata a servizio presso dei nobili insieme alla sorella, Anche se Rachel non ha saputo dirmi il nome di questi nobili, non possono essere che gli Aubyn.»
«Mi dispiace per quella povera anima, ma questo cosa c'entra con la vostra affermazione?»
«Vi ricordate della festa dagli Aubyn?» domandò.
«E come potrei dimenticarla?» rispose Manfredi sarcastico.
«Vi ricordate che dopo la festa non indossavo più il mio abito?» Manfredi annuì. «Diceste che aveva subito un danno e che le sarte lo avrebbero riparato. Che fine ha fatto quell'abito, Ariel?» domandò severo.
«Alla cameriera che venne ad aiutarmi a cambiarmi piaceva molto e le diedi il permesso di provarlo. Ma quando tornai per indossarlo non trovai più l'abito e anche la ragazza era scomparsa. Mi mandarono la sorella che in lacrime giurò che sua sorella non aveva mai rubato nemmeno un nastro. Lady Elisabeth mi chiese di non farne parola ad alcuno, che avrebbe provveduto a fare confezionare un abito uguale. I pescatori che hanno ripescato il corpo della ragazza hanno detto che indossava un abito da signora, non da povera sguattera; Rachel mi ha anche detto quanto questo fatto avesse suscitato un vespaio di malignità sulla condotta morale della poveretta.»
Manfredi, che era giunto alla stessa conclusione di Ariel, si precipitò fuori dallo studio, chiamando a gran voce Simone e Matteo. Entrambi arrivarono di corsa.
Nelle scuderie Alfonso ed Eusebio stavano spargendo la paglia pulita.
«Andate a riposare, finisco io qui» disse Alfonso, quando fu certo che Simone e Matteo non potessero udirlo. Eusebio lo fissò interdetto. «Voi vi siete occupato degli animali affidati a me durante la mia assenza; è tempo che ricambi il favore.» spiegò. Ma Eusebio tentennava; più di ogni cosa temeva l'ira di Simone che si sarebbe abbattuta sicuramente su di lui se avesse scoperto che aveva abbandonato il posto di lavoro. Alfonso lo rassicurò: «State tranquillo, Simone non si accorgerà della vostra assenza.» «Ne siete sicuro?» domandò il ragazzo titubante. «Non avete sentito? Il marchese lo ha convocato insieme a Matteo; non torneranno tanto in fretta.» Alfonso prese la spazzola dalla mano del ragazzo e iniziò a strigliare il dorso della cavallina. «Allora vado» disse Eusebio, allontanandosi. Rimasto solo, Alfonso rivolse la sua attenzione agli zoccoli. Con un coltellino raschiò i residui di fango che non avrebbero dovuto esserci. «Io e te abbiamo un segreto» sussurrò alla cavallina, che gli rispose con uno sbuffo, scuotendo la criniera. Finì di ripulire gli zoccoli, accarezzò il muso dell'animale. «A domani, bricconcella.» Due stalli più avanti un castrone nero come la pece, scalpitava nervoso. Alfonso gli si avvicinò: «Buono, buono» lo rassicurò. Prese la coperta, i finimenti e li nascose sotto la paglia. «Tranquillo adesso. Più tardi, più tardi torno, ma ora devi stare buono.» Come se avesse compreso le sue parole, l'animale si acquietò. L’uomo sparse della paglia pulita e ripose il forcone al suo posto insieme agli altri attrezzi; quindi controllò per l'ultima volta che tutto fosse in ordine, spense la lanterna e si diresse al suo alloggio, accompagnato da una schiera di cupi pensieri.
«Entrate!» ordinò Manfredi. Se la vista di Ariel li sorprese, non lo diedero a vedere. La salutarono con un inchino e rimasero in piedi accanto alla porta. «Venite avanti» li esortò Manfredi. «Cosa sapete della giovane donna che è stata ripescata in mare?» domandò, senza preamboli. I due uomini si guardarono esterrefatti. «Allora?» li incalzò il marchese. «Niente» rispose Simone, a nome di entrambi. «Ariel mi ha appena informato che è stata ripescata una ragazza che probabilmente indossava un suo abito.» Lasciò loro del tempo per pensare, poi proseguì: «C'è stata anche una funzione funebre al villaggio e voi non ne sapete niente.» Una nota di rimprovero nella voce irritò Simone, particolarmente suscettibile. «Non scendiamo al villaggio da giorni» si giustificò. «C'erano i pascoli da controllare; alcune staccionate erano cadute e abbiamo dovuto recuperare gli animali che erano scappati» lo spalleggiò Matteo.
«Non vi sto accusando di nulla,» precisò Manfredi. «Se vi sono sembrato troppo brusco, è perché sono fortemente preoccupato.» Manfredi, in breve, mise al corrente i due amici delle circostanze della sparizione dell'abito e della cameriera. «Ma può darsi che la donna annegata non sia la cameriera. Anche quando hanno ripescato quell'uomo credevamo che fosse Alfonso» affermò Matteo con la schiettezza che gli costò un calcio negli stinchi da Simone e un'occhiataccia da Manfredi. Ariel, che fino a quel momento si era tenuta in disparte intervenne: «È annegato un uomo?» domandò. «La maggior parte degli abitanti sono pescatori e capita che vengano sorpresi dalla burrasca e qualcuno anneghi. Purtroppo accade abbastanza sovente» minimizzò Simone. Ma Ariel non era una persona che si potesse ingannare facilmente, la sua mente era molto più acuta di quella di tanti uomini, pertanto incalzò Simone con una fila di domande, finché non venne fuori tutta la verità. «Quindi voi sospettate che Alfonso faccia parte del complotto?» domandò infine. «Sicuramente nasconde un segreto.» asserì Matteo, guadagnandosi un secondo calcio. «E voi come fate a esserne certo?» domandò Ariel. E così Matteo si vide costretto a confessare la sua incursione nell'alloggio dell'uomo e a raccontare ciò che aveva scoperto.
Favorito dalla notte senza luna Alfonso tornò alle scuderie. Aveva appena fatto a tempo a raggiungere lo stallo, che la luce di una lanterna illuminò il vano della porta. Prontamente si nascose dietro delle balle di paglia. Passarono alcuni minuti e un'altra figura si materializzò. Dal suo nascondiglio non poteva vedere chi fosse entrato, ma riconobbe le voci di Eusebio e della balia. I rumori che seguirono erano inequivocabili ed a lui non rimase altro da fare che attendere. Solo quando fu certo che i due non sarebbero tornati, tolse la coperta e le briglie da sotto la paglia, bardò il castrone e con un balzo saltò in groppa; attraversò il cortile al galoppo e si immerse nella brughiera. Quando fu abbastanza lontano mise la sua cavalcatura al passo. Non era facile cavalcare senza sella, soprattutto di notte. In prossimità della scogliera, abbandonò il sentiero e si inoltrò nel folto della boscaglia. In lontananza si udì il grido di una civetta. Emise un lungo fischio che si confuse col sibilo del vento; un cane prese ad abbaiare e le finestre di una capanna quasi completamente coperta dai rampicanti, nascosta tra i cespugli, si illuminarono. Un uomo, con una lanterna a vento gli venne incontro lungo il sentiero.
«Milord» lo salutò.
«Alvin» rispose Alfonso, smontando da cavallo.
«Benvenuto Milord» lo salutò un ragazzetto, prendendo in consegna le briglie.
«Salute a te Oliver»
La luce tremolante della lanterna illuminava appena l'erba alta e le felci che ingombravano il sentiero, ma era sufficiente per impedire loro di inciampare in qualche radice sporgente. Oliver che li aveva preceduti, aveva portato il cavallo nella stalla e attendeva i due uomini davanti alla porta della capanna. Alvin, a causa di un incidente in mare, camminava lentamente, zoppicando, e Alfonso si adeguò alla sua andatura claudicante. Giunti a casa, Oliver prese la lanterna e il mantello di Alfonso e andò ad accucciarsi davanti al focolare, mentre i due uomini si sedettero l'uno di fronte all'altro intorno al vecchio tavolo. Dalla saccoccia interna del mantello Alfonso estrasse una borraccia e la porse al marinaio che la portò alle labbra e bevve un lungo sorso.
«Oggi è stata ripescata una ragazza in mare» disse Alfonso. «Ne sapete qualcosa?» Alvin annuì. «Al villaggio non si parla d'altro. Non era un bello spettacolo; hanno scoperto chi era dalla collana che portava al collo. Sua sorella ne ha una uguale. Tutte e due erano a servizio dagli Aubyns; la sorella dice che è scomparsa dopo una festa.»
«E dell'abito che indossava cosa sapete?» Alvin si strinse nelle spalle. «Solo quello che dicono in giro; che era un vestito da gran dama e si dice che lo abbia rubato e che stesse scappando quando è caduta in mare.»
«Ma voi non ci credete; lo capisco dalla vostra espressione» disse Alfonso. Alvin si passò una mano sul viso e sospirò: «Conosco la sua famiglia, gente onesta e timorata di Dio e non riesco a credere che Helly abbia rubato qualcosa.»
«Non lo credo nemmeno io» affermò Alfonso serio. «Purtroppo non posso avere una conferma della mia convinzione, almeno non ancora. Ma se le cose fossero andate come penso, dovrò fare lo stalliere ancora per molto tempo.»
«Vi siete assunto un impegno molto gravoso» affermò Alvin.
«Lo dovevo alla marchesa Letizia.» rispose Alfonso, laconico. Quindi posò sul tavolo una busta sigillata. «Quando salperà il prossimo vapore?» domandò.
«Se il mare è buono tra due giorni, ma già domani Oliver la darà al capitano in persona.»
«Devo andare ora, non voglio che qualcuno si accorga della mia assenza; stasera c'è mancato poco che mi scoprissero. Il giovane Eusebio e la balia hanno eletto la scuderia a loro alcova. Ho temuto che volessero trascorrervi tutta la notte.»
«Un bel guaio, milord.» disse Alvin, grattandosi il mento irsuto. «Ma se non potete venire, affidatevi a Oliver o a Maeve.» Alfonso estrasse dalla tasca un sacchetto di monete. «Questo è per il vostro disturbo» disse, posando il sacchetto sul tavolo. Alvin accennò a una protesta, ma Alfonso lo bloccò con un gesto della mano. «Sono per l'educazione di Oliver; con tutto il rispetto, vorrei che il suo non fosse un futuro di pescatore.»
«Nemmeno io, credetemi. Non vorrei un giorno che finisse come me, un povero sciancato.»
«È vero che la vostra menomazione non vi permette più di andare in mare, ma la vostra intelligenza e la vostra conoscenza del territorio sono state e sono indispensabili a tutti noi. Più di una volta ci hanno salvati da situazioni pericolose.»
«Faccio quello che posso» si schernì l'uomo. «Se non fosse per la benevolenza vostra e del capitano mi troverei in un ospizio o per la strada a chiedere l'elemosina.» Sul suo volto si dipinse un sorriso amaro.
«State tranquillo, avrete sempre la mia benevolenza e quella del capitano. Ve la meritate. Adesso devo proprio andare.»
«Oliver, va a prendere il cavallo di milord.» Il ragazzino ubbidì e corse fuori. Alfonso lo attese davanti alla capanna; non gli era sfuggito il visetto imbronciato.
«Va tutto bene Oliver?» indagò con prudenza. Il ragazzino annuì, ma tenne gli occhi ancorati a terra.
«Come vuoi. Se non vuoi dirmi cosa ti succede non posso certo costringerti, ma siamo amici e gli amici si aiutano, si confidano e soprattutto non si raccontano bugie.» Il ragazzino rimase in silenzio e Alfonso ritenne opportuno non insistere. Alla fine del sentiero si fermarono.
«Io voglio fare il pescatore; non mi importa cosa pensate voi e mio padre. Appena sarò abbastanza grande, mi imbarcherò con o senza la vostra benedizione» disse Oliver tutto d'un fiato, sfidando Alfonso con occhi fiammeggianti.
«Va bene, se è quello che vuoi. Ma non c'è niente di male ad essere un pescatore istruito.» rispose l'uomo conciliante. «Buona notte, Oliver.»
L'alba tracciava una sottile linea grigia sul mare ancora scuro quando Alfonso raggiunse il suo alloggio.
Rachel e Patrick
Manfredi indugiò davanti alla sua tazza di tè, godendosi l'incantevole vista del viso raggiante di Ariel; sotto il suo sguardo le sue guance si tinsero di un affascinante rossore al ricordo della notte appena trascorsa. Era da tempo passata la mezzanotte quando si era addormentata tra le sue braccia.
«Dovremmo invitare il reverendo e sua sorella per un tè.» esordì Manfredi. Ariel lo fissò con gli occhi sbarrati e aprì la bocca mentre una goccia di tè traboccò scottandole la mano.
«Fate attenzione e chiudete la bocca» la ammonì dolcemente Manfredi.
«Sono a dir poco stupita!»
«Lo vedo, ancora non avete chiuso la bocca! Ad ogni modo, non ho niente contro il reverendo York, se vi sono sembrato ostile nei suoi confronti è perché ero preoccupato per voi. Ora che conoscete la verità siete in grado di comprendere il mio stato d'animo.» Ariel gli rivolse un sorriso birichino: «Vi assicuro, mio caro che la vostra ostilità era estremamente palese.» Posò la tazza sul tavolino, si protese verso Manfredi e sussurrò «Ditemi, qual è lo scopo di questo invito?» Manfredi posò le mani sulle sue e agganciò il suo sguardo. «Cosa vi fa pensare che questo invito abbia uno scopo?» domandò di rimando. Ariel sfilò le mani da quelle del marito e prese la teiera. «Non avete alcuna simpatia per il reverendo» asserì, riempiendo le tazze di entrambi. «Non avete nessun obbligo sociale nei suoi confronti e non avete bisogno dei suoi servigi dato che siete cattolico e lui è protestante. Quindi, vi chiedo di nuovo, qual è lo scopo di questo invito?» Manfredi sospirò con finta rassegnazione; una delle doti che aveva sempre ammirato in Ariel era la sua capacità di deduzione, la sua pronta intelligenza. «Non posso nascondervi niente, a volte penso che sappiate leggere nel pensiero» disse, ma si rese conto immediatamente di aver commesso un terribile sbaglio; Ariel lo stava fissando con aria truce.
«Non posseggo questa dote» replicò sarcastica.
«Ad ogni modo, avete ragione; il mio invito non è del tutto disinteressato. L'inverno si sta avvicinando e sarebbe gradevole avere compagnia nelle lunghe giornate uggiose. Con la sorella del reverendo potreste dilettarvi a suonare e chiacchierare di quello che più vi aggrada.» Ariel annuì, ma le sue labbra tremarono e gli occhi le si riempirono di lacrime; poi raddrizzò le spalle e cercò di sorridere. «È una bellissima idea» mormorò.
«Allora perché piangete?» domandò Manfredi.
«Speravo che saremmo tornati a casa, prima dell'inverno» confessò a bassa voce.
«Non possiamo; non ancora» replicò. Il tono brusco del marito la fece trasalire. Lui abbassò lo sguardo e scosse la testa. «Comprendo il vostro disappunto» proseguì «ma a casa non torneremo finché non saprò chi ci minaccia.» Consapevole che anche Manfredi stava soffrendo per la lontananza forzata, si sforzò di sorridere e tentò di scusarsi per la sua momentanea debolezza. «Confido nella vostra capacità di giudizio e nella vostra forza protettrice» asserì con convinzione. «E poi come potrei sopravvivere senza porridge a colazione, pranzo e cena?» concluse con una risatina sommessa.
Manfredi le prese le mani e le baciò; l'intelligenza, il calore, il senso dell'umorismo erano le doti che ai suoi occhi la rendevano una donna attraente e piena di fascino.
Il vento era cessato e un timido sole si faceva strada tra la coltre di nebbia fitta che nascondeva l'intera pianura. Il paesaggio era avvolto in una luce lattiginosa. Ariel accolse con gioia la proposta del marito di accompagnarla alla canonica, come Valentino, anche se lui la manifestò in maniera più turbolenta. Stavano tranquillamente passeggiando lungo il sentiero quando i rampicanti che ricoprivano il muretto, ondeggiarono violentemente. Manfredi afferrò il bambino e lo gettò letteralmente tra le braccia di Ariel, spingendola dietro di sé. I lineamenti del viso pallidissimo si contrassero; dietro di lui Ariel scoccò un'occhiata sospettosa oltre la sua spalla. Dalle foglie spuntò un muso ricoperto di pelo fulvo. Valentino che non aveva mai visto un volpacchiotto prima si strinse convulsamente al collo della madre poi, la curiosità ebbe il sopravvento e si staccò da lei per guardare l’animaletto.
«Eccone un altro!» gridò, indicando tra i cespugli, da dove sporgeva un musetto curioso.
«Sono volpacchiotti» gli spiegò Manfredi «e scommetto che nei paraggi c’è anche la loro mamma.»
Ariel inspirò l’odore della salsedine mescolato all’umido sentore delle foglie cadute sul sentiero. L’autunno era alle porte; presto la nebbia avrebbe avvolto in un grigio monocromo i caldi colori del bosco. Morbidi cuscini di muschio ricoprivano i sassi. Mentre Manfredi raccontava al piccolo l’antica storia della volpe e la cicogna, Ariel si concesse il lusso di lasciar vagare i propri pensieri. Il ritrovamento del corpo della ragazza che indossava un abito elegante, molto probabilmente il suo, l’aveva turbata profondamente. Nonostante le rassicurazioni del marito, non ci voleva una mente eccelsa per arrivare alla conclusione che in fondo al mare avrebbe dovuto esserci lei. Ma chi poteva volere la sua morte? Perché Manfredi si ostinava a non voler tornare a casa se anche lì non erano così al sicuro come voleva farle credere? Domande senza risposta che le toglievano la serenità e il sonno. Si impose di allontanare quei cupi pensieri almeno per qualche ora; non voleva che il suo turbamento rovinasse la serenità di quella giornata.
Il reverendo li attendeva all’ingresso della canonica. Sicuramente li aveva visti arrivare perché, quando li introdusse nel piccolo soggiorno, il bollitore fischiava sulla stufa. Rachel, per l’occasione, aveva indossato il suo abito migliore e una vezzosa cuffietta di pizzo. Da perfetta padrona di casa, fece accomodare gli ospiti in un salottino appartato, versò il tè, quindi dedicò tutta la sua attenzione al piccolo, che mostrò di gradire molto il ruolo di protagonista, tiranneggiandola con continue richieste che puntualmente Rachel esaudiva, finché Ariel pose fine alle sue pretese con un imperioso «Adesso basta, Valentino!»
La conversazione, all’inizio un poco ingessata, col passare dei minuti divenne sempre meno formale. Manfredi e il reverendo scoprirono di avere interessi in comune in materia di arte e letteratura. Il reverendo Patrick si rivelò un interlocutore molto preparato ma comunque desideroso di approfondire le sue conoscenze culturali. Pertanto accettò con entusiasmo l’invito di Manfredi di visitare la sua biblioteca dove erano conservati i volumi preziosi che il conte Valentino aveva collezionato nel corso degli anni. Inevitabilmente il discorso cadde sul loro soggiorno in Italia. Fu Ariel ad introdurre l’argomento, rivolgendosi a Rachel, la quale pareva avere occhi e attenzioni solo per Valentino, ignorando tutti gli altri. Fu comunque il reverendo a rispondere alla sua domanda.
«Per mia sorella fu un periodo molto faticoso e impegnativo. Gli studi musicali ad alto livello occupavano praticamente ogni minuto della giornata e non le permettevano di avere altre distrazioni. Non è vero Rachel?»
«Sì, Patrick» rispose la giovane, continuando a giocherellare con Valentino. Abilmente il reverendo lasciò cadere l’argomento, invitando Manfredi e Ariel a vedere la collezione di monete antiche.
Al momento del congedo, Manfredi rinnovò l’invito. «Sarà un onore per noi essere vostri ospiti» rispose il reverendo.
Il sole stava calando lentamente e la luce morbida del crepuscolo mutava il colore dei campi, avvolgendoli in un’aura magica. Manfredi passò il braccio attorno alla vita di Ariel, attirandola a sé, lei posò il capo sulla sua spalla, godendo di quel contatto che tanto le era mancato, anche se non lo avrebbe ammesso nemmeno sotto tortura. Valentino si era addormentato in braccio al padre e la campagna si preparava alla notte in un silenzio irreale rotto solo dal ritmico rumore dei loro passi. Le grida dei gabbiani, in cerca di cibo, erano una eco lontana.
«Qualcosa vi turba?» le mormorò all’orecchio Manfredi, osservando l’espressione corrucciata della moglie.
«Che idea vi siete fatto del reverendo e di sua sorella?» domandò di rimando Ariel.
«Il reverendo è un uomo colto, conosce le opere di numerosi artisti e letterati, parla perfettamente la nostra lingua. Conversa piacevolmente e sa mettere a proprio agio il suo interlocutore. È conscio di possedere delle buone doti e ne va fiero senza però menar vanto e nemmeno cerca di nasconderle dietro un atteggiamento di falsa umiltà. La sorella è la classica zitella tutta casa e chiesa.»
«No,» lo contraddisse Ariel.
«No?» le fece eco Manfredi. Ariel non rispose, ma i suoi occhi dicevano più delle parole. «Cosa frulla in questa deliziosa testolina?» domandò Manfredi, stampandole un tenero bacio sulla tempia. Ma Ariel non si lasciò distrarre, la sua espressione rimase seria, troppo seria, e Manfredi si rese conto che i pensieri della moglie stavano percorrendo un sentiero insidioso.
«Mi era parso di capire che il reverendo fosse nelle vostre grazie» disse, esortandola così ad esprimere apertamente il suo pensiero.
«Concordo con voi sul fatto che sia un uomo di cultura» rispose Ariel,
«Ma?» domandò Manfredi, ben sapendo che c’erano altri pensieri che attendevano di essere espressi.
«Avete notato il tono autoritario con cui si è rivolto alla sorella e come si è premurato di rispondere lui alla domanda che io avevo rivolto a Rachel sul loro soggiorno in Italia e poi come si è affrettato a distogliere la nostra attenzione dall’argomento, invitandoci a vedere la sua raccolta di monete?» Manfredi, in realtà, non aveva prestato molta attenzione e non aveva colto le sfumature che invece ad Ariel erano balzate immediatamente all’occhio.
«Come è possibile che per un anno intero a Roma Rachel abbia trascorso le sue giornate solo studiando» proseguì, seguendo il corso dei suoi pensieri. «È inconcepibile! Il reverendo è una persona colta che avrebbe avuto la possibilità di fare una brillante carriera e Rachel passa un anno a studiare musica ad alti livelli per suonare l’organo alle funzioni in un villaggio dimenticato da Dio. Ma vi pare logico? Dovevano avere un buon motivo, anzi un ottimo motivo per venire a seppellirsi in questo posto» sentenziò.
Manfredi non aveva una risposta e si limitò a stringersi nelle spalle.
«Anche l’attaccamento di Rachel al bambino è strano» proseguì. «Ci ha servito il tè in fretta, senza dire una parola; ci ha praticamente ignorati per tutto il tempo. Esisteva solo Valentino.»
«Le piacciono i bambini …» azzardò Manfredi, che ancora non capiva dove Ariel volesse condurlo.
«No, c’è qualcosa di … insano nel suo comportamento. Quando ho redarguito il bambino, mi ha guardata come se, come se non ne avessi il diritto e quando ci siamo congedati ho dovuto letteralmente strapparglielo dalle braccia.»
«Non vi pare di esagerare?»
«Può darsi» concesse Ariel.
«Coraggio, esprimete liberamente il vostro pensiero» la esortò Manfredi, «la vostra reticenza a parlare mi sta irritando terribilmente.»
«Rachel è succube del fratello. Non c’è un briciolo di affetto tra loro, solo formale cortesia e una gentilezza, se così si può chiamare, fasulla come un soldino bucato. Chissà cosa accade in quella casa quando sono soli. Forse nascondono un segreto.»
«Una delle doti che più mi affascinano è la vostra capacità di fantasticare anche sulle situazioni più normali.»
«Vi state prendendo gioco di me?» domandò Ariel fulminandolo con uno sguardo.
«Oh no, vi sto facendo un complimento» replicò Manfredi, con un sorriso innocente stampato in volto. Proseguirono il cammino, lui canticchiando sottovoce una melodia, o meglio una nenia tanto monotona quanto irritante per Ariel che si sentiva offesa dall’atteggiamento del marito.
A casa li attendeva una piacevole sorpresa che ribaltò l’umore della giovane. In loro assenza era stato recapitato un plico. Manfredi lo aprì, sotto lo sguardo impaziente di Ariel che, riconoscendo la scrittura del padre, lanciò un gridolino di gioia, sufficiente a svegliare Valentino che si agitò tra le sue braccia. Anche Manfredi riconobbe la calligrafia dello suocero alta e stretta che gli ricordava le canne dell’organo che costruiva nel suo laboratorio.
«Andate nello studio e leggete la vostra lettera con calma» la esortò Manfredi, prendendole Valentino dalle braccia. Dopo averlo consegnato alla balia, raggiunse la moglie in biblioteca. Ariel aveva il volto bagnato di lacrime, ma la sua espressione era raggiante.
«Mia sorella ha avuto un altro bambino; un maschietto e, pensate, lo ha chiamato Manfredi, e si augura che possiamo essere presenti alla cerimonia del battesimo del piccolo. Ci sono notizie anche da Letizia» proseguì, accingendosi a leggere il foglio successivo. «Vi ricordate del conte Vittorio Amedeo Alfieri?» domandò.
«E come potrei dimenticarlo? A Torino non si parlava d’altro che della Societé des Sansguignon che aveva fondato con i suoi compagni dell’Accademia Militare.»rispose Manfredi distrattamente.
«Pare che abbia troncato la sua liaison amorosa con la marchesa Gabriella Falletti di Villafalletto dopo essere rientrato da un viaggio in Europa.»
«La marchesa Gabriella Falletti. Se non ricordo male è la moglie di Giovanni Antonio Turinetti, il marchese di Priero?»
«Proprio lei. Non dite che non sapevate del suo affaire amoroso.»
«No, mia cara, non lo sapevo» replicò leggermente contrariato.
«E per imporsi di non andarla a trovare il conte si è tagliato il codino.»
«Non ne vedo il nesso, mia cara.»
«Si vergognava a uscire di casa così tosato. Almeno così scrive Letizia.»
«E che altro scrive mia cognata?»
«Che Maria Clotilde di Francia ha sposato per procura Carlo Emanuele IV, il Principe di Piemonte. La chiamano la Gros-Madame.»
«Le solite vipere imbellettate» commentò Manfredi che detestava con tutto se stesso le malelingue.
«Oh, non siate così rigido» lo rimproverò amorevolmente Ariel. «È divertente! Non vi fa piacere sapere cosa accade nel nostro amato Piemonte?»
«Mi farebbe più piacere ricevere notizie non pettegolezzi salottieri» ribatté con un certo fastidio. Ariel alzò gli occhi su di lui; il tono della sua voce l’aveva messa in allarme. Finse di non essersi accorta del suo repentino cambiamento di umore, ignorò volutamente il suo viso accigliato e proseguì.
«Letizia scrive che si sono sposati anche i Duchi di Chiablese Benedetto Maurizio e Marianna. Pensate, per gli sposi sono stati allestiti gli appartamenti sopraelevando un edificio sulla citroneria della villa della Regina. E per le vie di Asti, Letizia scrive che da un po’ di tempo si aggira un biondo viaggiatore, un certo Donatien Alphonse Francois Marquis de Sade. Si dice che sia fuggito in Italia perché aveva qualche problema con la giustizia. Credete che …»
Manfredi accennò un sorriso. «Volete sapere se faceva parte dei nobili che Valentino aiutava a espatriare? No, non credo, ma chi può dirlo? È vero che il duca François è morto e la sua complice Zaira è ospite delle patrie galere, quindi quei due farabutti non possono più nuocere, ma possono esserci altri complici a noi sconosciuti.»
«Uno lo conosciamo» lo contraddisse Ariel.
«State pensando a mio nipote Maurizio, vero?» disse Manfredi con voce dura.
Ariel lo fissò con uno sguardo altrettanto gelido. Suo nipote aveva assoldato due balordi affinché convincessero suo padre Tancredi a rivelare la parola d’ordine che gli avrebbe consentito di entrare a far parte dei suoi loschi e redditizi affari: derubare i nobili francesi fuggitivi che attraversavano il confine con la complicità del conte Valentino. Ma la situazione era sfuggita loro di mano; cadendo sotto i colpi delle bastonate, il marchese aveva battuto la testa ed era morto senza rivelare alcunché. I due, spaventati, avevano trascinato il corpo in un bugigattolo ed erano corsi dal figlio per riscuotere la ricompensa. Costui, furibondo per la mancata riuscita dell’impresa, li aveva pugnalati e aveva gettato i loro corpi nelle acque turbolente del Po. Quando i turpi traffici vennero scoperti, tutti i malfattori subirono il giusto castigo. Manfredi, per non vedere macchiato il prestigio del casato, si adoperò affinché il nipote non venisse tradotto in carcere. A lui riservò comunque una punizione esemplare, costringendolo ad arruolarsi nelle truppe in presidio al forte di Fenestrelle da dove non avrebbe potuto fuggire. Erano trascorsi quattro anni e nessuno da allora aveva avuto più sue notizie e il suo nome non era più stato pronunciato.
«Voi mi leggete nel pensiero, mio caro, stavo pensando proprio a lui, ma non credo che possa fare alcun danno da quel luogo dimenticato da Dio. Ditemi, mio padre vi dà notizie del vostro amico Jacopo?» domandò per allontanare i pensieri del marito dal ricordi di un periodo per lui estremamente doloroso.
«Sì, mi dà notizie della sua salute» rispose laconico. Ariel non insistette, e continuò a leggere. Le sfuggì un risolino e Manfredi distolse lo sguardo dal rendiconto che il fedele sovrintendente Giovanni gli aveva inviato.
«Cosa vi fa sorridere, mia cara?» domandò.
«Letizia scrive che Clarissa studia pianoforte ed è anche molto brava, che si applica nello studio con costanza e passione, che le piacciono gli abiti eleganti e che passa ore davanti allo specchio ad acconciarsi i capelli. Ha nominato il vecchio Bartolo suo insegnante di ballo, e lui che le vuole bene come se fosse sua nipote, pazientemente le fa da cavaliere. Insomma, è una vera damigella. Adele, al contrario, è poco propensa a studiare la musica, per la verità dice che non ama proprio studiare; per farla leggere bisogna ricattarla e proibirle di stare all’aperto, in mezzo alla natura. Letizia ha scoperto che, appena può scappare, corre nei campi insieme ai contadini o nelle stalle ad accudire a mucche e cavalli e quando torna a casa puzza così tanto che la balia deve strigliarla dalla testa ai piedi. Quando non può uscire passa il tempo in cucina ed è diventata bravissima a impastare biscotti.»
«E voi che notizie avete?» domandò.
«Giovanni mi ha mandato il rendiconto delle terre. Il raccolto è stato buono e i nostri contadini non avranno di che preoccuparsi per l’inverno; avranno legna e farina in abbondanza. I danni dell’incendio al granaio sono stati minimi, ma si rammarica di non aver scoperto chi lo ha appiccato.»
«Credo che non lo scoprirà mai» lo interruppe Ariel.
«Concordo con voi. Ad ogni modo, non ci sono stati altri incidenti.» Manfredi mise da parte i fogli del resoconto e si accinse a leggere un biglietto ancora piegato. Man mano che leggeva, l’espressione del suo volto si faceva più tenera, e un dolce accenno di sorriso gli increspò le labbra. Infine, ripiegò il foglio e rivolse lo sguardo ad Ariel.
«La moglie di Giovanni vi manda i suoi saluti e prega sempre per noi. Il mio figlioccio, il piccolo Manfredi, è un bambino vivace e in buona salute.»
«E cosa vi ha fatto sorridere?» lo stuzzicò Ariel.
«Giovanni scrive che sua moglie sta preparando delle nuove pozioni, a dir suo ancora più efficaci ma ugualmente disgustose. Alla prossima occasione ci invierà un sacchetto di erbe essiccate.»
«Povero Giovanni, tocca a lui fare da assaggiatore. Ad ogni modo, quando gli risponderete porgetegli anche i miei saluti e dite loro che li ricordo sempre con grande affetto.» Il leggero tremito nella voce non sfuggì a Manfredi che si alzò e si avvicinò ad Ariel.
«Vi prometto» disse prendendo le sue mani nelle sue «che appena sarò sicuro che voi e il bambino non siete più in pericolo, torneremo a casa.»
«Vi credo» asserì lei, alzandosi. Manfredi l’attirò a sé. Il silenzio tra loro si protrasse a lungo, trasformandosi in tensione; la tensione in desiderio. La cosa più naturale del mondo fu il semplice movimento di posare le labbra sulle sue. Quando la bocca di lei si aprì sotto la sua, le mani di lui si infilarono sotto l’abito e toccarono la sua pelle liscia e fresca.
Un discreto tocco alla porta interruppe l’atmosfera magica che li aveva avvolti in un bozzolo serico.
Manfredi si scostò da lei e si diresse alla scrivania, mentre Ariel si rassettava gli abiti.
«Entrate» disse, fingendo di leggere i fogli sparsi sul tavolo.
«Perdonate, marchese». Al suono della voce, Manfredi ebbe un moto di meraviglia. Non si aspettava la visita di Alfonso.
«Marchese» lo salutò costui, entrando. Accortosi della presenza di Ariel, le rivolse un rispettoso inchino. «Marchesa». Al suo saluto Ariel rispose con un cenno del capo, augurandosi che, nella semioscurità, l’uomo non si accorgesse del rossore che le imporporava il volto.
«Cosa desiderate?» domandò Manfredi con un tono di voce infastidito.
‘Devo avere interrotto qualcosa di molto intimo,’ pensò Alfonso, ma ovviamente tenne per sé il proprio pensiero. «Vorrei la vostra autorizzazione ad assentarmi questa notte» disse. Manfredi incrociò le braccia sulla scrivania e fissò l’uomo negli occhi. Si attendeva una spiegazione, ma l’uomo sostenne il suo sguardo e rimase in silenzio, in attesa.
«Se avete terminato di svolgere le vostre mansioni siete libero di andare dove vi aggrada. «Ma» aggiunse, alzando un dito ammonitore, «dovrete essere di ritorno in tempo per assolvere ai vostri compiti domattina. Non voglio che Eusebio debba svolgere la vostra parte di lavoro.»
«Non accadrà, avete la mia parola» rispose Alfonso, congedandosi.
«Avete la mia parola»
Lo scimmiottò Ariel. Manfredi le scoccò un’occhiata sospettosa.
«Il vostro stalliere ha dei modi aristocratici; avete notato come è forbito nel parlare e il suo portamento non sembra quello di un servo abituato a prendere ordini, piuttosto quello di un signore abituato a darli.»
Manfredi le sorrise indulgente. «Mia cara, la vostra testolina è una fucina di idee. Oggi fantasticavate su un ‘inconfessabile segreto’ nella famiglia del reverendo, ora Alfonso da stalliere diventa un lord.»
«Non ho detto questo» replicò con noncuranza. Per un po’ rimase in silenzio, inanellando distrattamente una ciocca di capelli.
«Mi piacerebbe sapere dove deve andare stanotte.»
Manfredi mise da parte i fogli che stava controllando e con un tono irritato la redarguì. «Non sono affari vostri, né miei. Alfonso, come chiunque altro, svolte le sue mansioni, può occupare il tempo a suo piacimento.» Ariel colse l’irritazione del marito e non volendo rovinare l’atmosfera serena che si era nuovamente creata tra loro cambiò argomento di conversazione.
«Vorrei iniziare a redigere una lista di cibi da acquistare per il pranzo con i nostri ospiti.» Manfredi impilò i fogli sparsi liberando una parte del tavolo. Desiderava che Ariel restasse, la sua presenza lo rasserenava. «Accomodatevi» disse, porgendole un foglio e il calamaio. «Ma vi scongiuro, tacete, altrimenti non riesco a concentrarmi.»
Le ombre della notte erano già calate quando il raschiare delle penne sui fogli si interruppe quasi contemporaneamente.
«Avete completato la vostra lista?» domandò Manfredi.
«Sì, domani la darò a Simone o a Matteo» rispose, mentre si recavano in sala da pranzo per consumare la cena che consisteva nell’immancabile porridge e in un pasticcio di verdure.
«Forse sarebbe stato opportuno che anche noi partecipassimo alla funzione funebre» rifletté Ariel.
«No» la contraddisse Manfredi. «Noi non facciamo parte della loro comunità, La nostra presenza sarebbe stata considerata un’intrusione. Noi siamo ospiti in questo villaggio.»
«Il marchese ha ragione» intervenne Matteo che era entrato in quel momento. «Simone ed io, che siamo qui da molto più tempo, siamo ancora considerati degli estranei.»
«Quanto tempo occorre perché si venga considerati parte della loro comunità?» domandò Ariel.
«Un decennio, forse, o forse mai» rispose Matteo con una significativa scrollata di spalle.
«Che cosa vi serve?» domandò Manfredi.
«Niente, volevo solo informarvi che Alfonso è andato via subito dopo aver accudito gli animali.»
«Lo so» rispose il marchese. «È venuto da me a chiedere l’autorizzazione ad assentarsi fino a domattina.» Matteo mugugnò, grattandosi il mento. «Qualcosa vi infastidisce?» domandò Manfredi.
«No, no, nulla» si affrettò a rispondere Matteo e si congedò con un frettoloso inchino.
«Aveva molta fretta» commentò Ariel.
«Già, sembrava che all’improvviso lo inseguissero i diavoli dell’inferno» confermò Manfredi, perplesso. Si alzò, le prese la mano e cingendole la vita uscirono sulla veranda. Le lanterne delle barche dei pescatori sembravano lucciole danzanti sull’erba appena mossa dal vento. «Stanotte non ci sarà tempesta» sussurrò posando il capo sulla spalla del marito. «Ora capisco cosa sedusse Valentino: la magia di questo posto.» Rimasero ad ammirare l’affascinante e sempre mutevole spettacolo che il mare offriva loro, poi Manfredi l’attirò a sé. «Andiamo» sussurrò. Docile Ariel si lasciò condurre verso la loro alcova.
La Funzione
Le ombre della sera erano già calate quando una sagoma ammantata di nero si materializzò uscendo dall’ombra. Aveva scelto di percorrere la strada che si inerpicava lungo la brughiera sormontata da promontori a picco sul mare. La schiuma delle onde rimbalzava sulle rocce e le gocce d’acqua volteggiavano in una breve danza prima di ricadere in mare che si era fatto grigio scuro. L’intenso profumo di salsedine gli penetrava pungente nelle narici facendogli lacrimare gli occhi. Le nuvole spinte dal vento si erano addensate lungo la baia. In lontananza si udivano gli ultimi richiami degli uccelli e i belati delle pecore. Mancava ancora più di un’ora all’inizio della funzione, ma già una piccola folla stazionava nel prato davanti alla chiesetta; poteva sentire le voci aspre dei pescatori e, anche se non udiva distintamente le parole, ne immaginava i discorsi. Nessuno fece caso alla figura che si accostò alla finestra della canonica nascondendosi tra i cespugli che crescevano a ridosso dell’edificio. Attraverso le tende vaporose riuscì a distinguere le due figure che occupavano la stanza illuminata dalla fiamma nel camino che vacillava come un fuoco fatuo.
Il reverendo Patrick misurava a grandi passi il pavimento, gesticolando in preda a una frenesia delirante. Rachel, rannicchiata in un angolo, piangeva in silenzio. Era il ritratto dello sconforto e della desolazione.
«Siete una sciocca!» inveì il reverendo avvicinandosi alla sorella che si ritrasse coprendosi il viso con le mani. Lui l’afferrò per le spalle e la scosse come fosse una bambola di stracci.
Quando i marchesi si erano congedati, Patrick sembrava felice di aver trascorso un piacevole pomeriggio in compagnia di persone colte, che coltivavano interessi simili ai suoi. Da quando il conte Valentino aveva lasciato l’isola i marchesi erano stati i primi ospiti della canonica. Stava riponendo il servizio da tè quando lui era arrivato alle spalle e facendola girare su se stessa l’aveva schiaffeggiata duramente.
«.Che cosa ho fatto?» aveva domandato, non comprendendo in che modo avesse potuto provocare l’ira del fratello.
«Che cosa avete fatto?» aveva replicato sarcastico. «Che cosa non avete fatto! Il vostro comportamento è stato inqualificabile! Non avete prestato la minima attenzione ai nostri ospiti. Credete che la marchesa non se ne sia accorta? Io l’ho osservata; sorrideva, conversava amabilmente ma non vi toglieva gli occhi di dosso. E voi, ostinatamente, avete continuato a giocare con quello stupido marmocchio.»
«È un bambino dolcissimo» aveva reagito con foga Rachel.
«È insopportabile!» urlò il reverendo.
«Voi siete insopportabile!» La collera aveva sostituito la paura e le aveva dato la forza di sfidarlo. «Voi siete senza cuore! Mi avete privata di tutte le persone che amavo!»
«Per colpa vostra ho dovuto rinunciare a una brillante carriera!» replicò il reverendo livido di rabbia. «È a causa del vostro comportamento scandaloso che sono vicario in questo posto orribile, mentre avrei potuto aspirare a una brillante carriera diplomatica e voi, voi avreste suonato nei salotti aristocratici più prestigiosi. Invece eccoci qui perché voi non solo vi siete innamorata di quello sciagurato come una sguattera credulona, ma ci avete fatto un figlio!»
«Che voi non avevate alcun diritto di togliermi!» inveì la ragazza al culmine dell’esasperazione.
«E come l’avreste mantenuto, ditemi, suonando l’organetto agli angoli delle strade? O pensavate che avrei provveduto al vostro bastardo?» concluse con un sorriso maligno.
«Era il mio bambino!» mormorò tra le lacrime. Le forze l’avevano abbandonata e si era accasciata in un angolo e così la vide la figura nascosta all’esterno.
«Alzatevi e andate a rendervi presentabile, tra poco inizierà la funzione» sentì dire dal reverendo. Era lui che comandava, la sua voce non lasciava spazio a dubbi. La seguì con lo sguardo mentre si ritirava nella propria camera. Desiderò seguirla, violare l’intimità della sua stanza. All’improvviso fu scosso da un’ondata di sensazioni primitive ed esecrabili da provocargli le vertigini. Stava provando eccitazione sessuale; in quel momento desiderava Rachel più di quanto avesse desiderato una donna in tutta la sua vita. Disorientato, per sfuggire a quel turbamento si precipitò fuori con una tale foga che per poco con cadde.
Lo sconosciuto si precipitò dietro un cespuglio e solo quando fu certo di non essere visto uscì dal suo nascondiglio e si diresse verso la chiesa, pur rimanendo a debita distanza. Appoggiato al muricciolo si fermò in fondo al viottolo.
«Non dovreste essere qui.» Alvin era apparso al suo fianco. Era rimasto così turbato dalla scena a cui aveva appena assistito che non l’aveva sentito arrivare. Il marinaio indossava un gilet di pelle di pecora ed emanava un complesso miscuglio di acqua di mare, di lana, di muschio. Alfonso fu felice di vederlo.
«Stavo osservando il nostro bravo reverendo» disse.
«E cosa vedete?»
«Un bastardo ipocrita. Ho appena assistito ad una lite tra lui e la sorella. L’ha schiaffeggiata duramente e guardatelo ora, sorride amabile, come se niente fosse.»
«Non mi è mai piaciuto.» Alvin corroborò la sua affermazione sputando verso il reverendo. «Nemmeno il vecchio vicario mi piaceva; secondo quel vecchio babbeo eravamo tutti destinati all’inferno. Ha passato anni a predicare in una chiesa vuota. E adesso è arrivato quello là. Ha avuto la sfrontatezza di schiaffeggiare la sorella in vostra presenza?» domandò.
«Veramente lui non sapeva della mia presenza; ero nascosto dietro la canonica; ho visto tutto dalla finestra» ammise. Alvin aprì la bocca come se volesse fargli una domanda, poi ci ripensò.
«Voi fate parte della comunità» disse Alfonso. «Se non vi affrettate farete tardi alla funzione.» Il vecchio marinaio scrollò le spalle e brontolò qualcosa di incomprensibile. Quindi, zoppicando, si avviò verso la chiesa.
L’ultima luce stava svanendo. Dal mare soffiava una brezza leggera che trasportava il lugubre verso di una civetta. Rimasto solo, Alfonso si avviò lungo il sentiero ma era troppo presto per rientrare e si diresse verso la baia. Si sedette su uno scoglio; la vista del mare aperto era impressionante. La luna bianca ammiccava nel cielo terso. Chiuse gli occhi e rimase lì ad ascoltare il dolce sciabordio delle onde, finché non gli giunse, portato dal vento l’eco di un grido di donna.
Nella campagna deserta risuonava la musica malinconica dell’organo; un lamento prolungato e lugubre che accompagnava le lacrime di Rachel che scivolavano sui tasti. Quando la musica tacque, il reverendo si alzò e salì sul pulpito per pronunciare l’elogio funebre. Nella cappella l’aria umida e fredda era greve di odori rudi. Si concesse un momento di silenzio; abbracciò con lo sguardo il suo gregge, così amava definire i suoi parrocchiani, non perché si sentisse il loro pastore, ma perché puzzavano di lana bagnata. Non conosceva che una minima parte di quell’umanità che sedeva in silenzio, in attesa. Nessuno di loro lo stava guardando, il muro invisibile tra il pastore e il gregge era invalicabile.
Si schiarì la voce. «Sorelle e fratelli, siamo qui riuniti per ricordare la nostra sorella Helly tragicamente scomparsa» esordì.
Il pesante battente della porta della chiesa si aprì con un cigolio. Una figura avvolta in un lungo mantello entrò e andò a sedersi sull’ultima panca. Il cappuccio del mantello gli copriva la testa ed il volto era nascosto da una sciarpa di seta nera. Patrick riprese il sermone; esaltò le doti della giovane, espresse cordoglio per la sua famiglia, quindi invitò tutti a cantare le lodi al Signore, per accompagnare il viaggio della povera anima in Cielo. Ad un suo segnale Rachel iniziò a suonare e nella chiesa si levò un coro di voci stonate sovrastate da quella tenorile del reverendo. Al termine del canto augurò la buona notte e tutti si affrettarono a uscire tra uno strusciare di panche e uno sbattere di zoccoli e stivali. Patrick cercò con lo sguardo la figura incappucciata che con il suo ingresso aveva interrotto il sermone, ma non la vide. Non se ne preoccupò e si avvicinò alla sorella che stava raccogliendo i fogli dei canti. Istintivamente si ritrasse, temendo che potesse colpirla; poi pensò che nella casa del Signore non avrebbe osato e gli rivolse uno sguardo carico di rabbia.
«Il nostro gregge ha ridotto la chiesa a una stalla» disse, indicando i grumi di fango e foglie. «Ripulite. Subito!» ordinò. Un sorriso maligno gli increspava le labbra mentre infilava il mantello; la punizione, la vendetta o come diavolo la si voleva chiamare, era meglio delle percosse; Rachel aveva una paura terribile di restare da sola di notte nella chiesa piena di ombre e di rumori spaventosi. Attese che lei lo supplicasse, allora l’avrebbe derisa, umiliata. Ah! Che grande godimento sarebbe stato vederla implorare!
Rachel non proferì parola; si limitò a fissarlo con freddezza e si avviò verso lo sgabuzzino dove teneva scopa e spazzolone. Patrick rimase interdetto. Come aveva osato sfidarlo? Schiumante di rabbia percorse a grandi passi la navata scaraventando a terra le panche. Uscì sbattendo la porta.
La notte era buia e le nubi oscuravano la luna. Il sentiero che conduceva alla canonica era praticamente invisibile. Nella fretta, Patrick aveva dimenticato la lanterna ed ora procedeva a tentoni, imprecando ad ogni passo. Lo scricchiolio di un ramo spezzato lo fece trasalire. Si fermò; il respiro mozzato. Attorno a lui solo buio e silenzio. Col cuore che gli martellava nelle tempie si mise a correre alla cieca. La canonica gli sembrava un miraggio. Quando si accorse del ramo caduto sul sentiero era troppo tardi per evitarlo e cadde a faccia in giù nel fango. Ancora stordito cercò di sollevarsi sulle ginocchia, Ma due braccia robuste lo avevano afferrato per i piedi e lo stavano trascinando nel campo. Provò a opporre resistenza con l’unico risultato di affondare sempre più nella melma. Tentò di gridare, ma la bocca si riempì di terra e erba. Le braccia che lo avevano trascinato lo rivoltarono, lo afferrarono sotto le ascelle e lo sollevarono come un pupazzo di cenci, facendolo sedere con la schiena appoggiata al muretto di sassi. Attraverso gli indumenti bagnati sentiva il gelo della pietra. Aprì gli occhi. Riconobbe lo sconosciuto che era entrato in chiesa, ma la sua attenzione fu catalizzata dalla lama del pugnale che, nonostante il buio, brillava come una stella. L’uomo si chinò e, con lentezza esasperante, la appoggiò sulla sua guancia, facendola scorrere fino al collo. Lì si fermò. Con la punta iniziò a stuzzicare la vena pulsante, in un gioco perfido che al reverendo parve durare un’eternità. Un terrore paralizzante si impadronì del suo corpo; non reagì, non provò a difendersi. Semplicemente chiuse gli occhi e rimase in attesa.
«Reverendo!» Una voce sconosciuta lo stava chiamando. Attraverso le palpebre socchiuse vide un alone luminoso. ‘Sono morto’, pensò.
«Aprite gli occhi, per la miseria!» insistette la voce. Lui emise un gemito.
«Fatevi animo, è vivo» disse la voce, rivolgendosi a qualcuno che stava piangendo lì vicino.
«Sia lodato il Signore» rispose tra i singhiozzi una voce di donna.
Nella nebbia che gli offuscava la mente riconobbe la voce della sorella. «Rachel» mormorò.
«Patrick! Siete vivo grazie a Dio.»
«Aprite gli occhi, reverendo!» gli intimò l’altra voce.
Alla luce tremula della lanterna vide il volto della sorella sconvolto dal pianto e dietro di lei l’uomo col mantello. Il terrore si impadronì nuovamente di lui.
«Che vi succede?» domandò Rachel, fissando il volto stralunato del fratello. Patrick puntò il dito tremante contro l’uomo. «Voi mi avete aggredito e minacciato con un pugnale!» lo accusò.
«Voi vaneggiate!» lo contraddisse. « Sono accorso in aiuto quando vostra sorella ha gridato trovandovi sul sentiero. Pensava che foste morto.»
«Voi mi avete puntato un pugnale alla gola!» insistette, ignorando le sue parole.
«Reverendo, siete caduto e avete battuto la testa, per questo siete confuso» replicò.
«Voi volevate uccidermi!» ribatté cocciuto.
«Non siete ferito e non siete stato derubato» affermò lo sconosciuto.
Patrick si toccò il volto e le sue dita indugiarono sul collo, proprio nel punto dove aveva sentito la puntura della punta della lama. Si guardò le dita; erano incrostate di fango, ma non v’era traccia di sangue.
«Appoggiatevi a me» disse l’uomo, aiutandolo ad alzarsi. «Vi porto a casa, prima che moriate veramente di freddo.» Lentamente si avviarono verso la canonica. Rachel, davanti, illuminava il sentiero. Patrick batteva i denti sotto il mantello fradicio.
Nascosto nella brughiera qualcuno osservava il piccolo corteo. Sotto la sciarpa sorrise malevolo.
Giunti a casa, Rachel mise sul fuoco il bollitore e Alfonso aiutò il reverendo a liberarsi degli indumenti inzaccherati. Rachel portò un catino e una brocca d’acqua calda; raccolse gli abiti e sparì nella cucina.
«Vi lascio alle vostre abluzioni. Buona notte reverendo» si congedò l’uomo.
«Aspettate!» Patrick si asciugò le mani e gli si avvicinò. «Vi ringrazio per il vostro aiuto e perdonatemi se vi ho accusato ingiustamente. Il mio aggressore portava un mantello simile al vostro e la mia vista era ancora annebbiata.»
L’uomo annuì. «Buona notte reverendo.» Non v’era traccia di comprensione né di compassione nella sua voce.
« Gradite una tazza di tè?» domandò Rachel, mentre Alfonso indossava il mantello.
«Vi ringrazio ma si è fatto tardi. Devo tornare a casa.»
«Sono io che devo ringraziarvi. Senza il vostro aiuto non sarei riuscita a portare a casa Patrick e sarebbe morto di freddo» disse la giovane con il pianto nella voce.
‘Non sarebbe stata una grande perdita’ pensò Alfonso, ma disse «Sono contento di esservi stato d’aiuto.»
«Rachel!» Dall’altra stanza giunse un richiamo impaziente.
«Devo andare; Patrick ha bisogno di me. Buona notte.»
Alfonso chiuse la porta dietro di sé. La notte lo avvolse nel suo freddo manto, ma lui sentì solo il profumo del mare trasportato dal vento. Respirò profondamente e velocemente si allontanò dalla canonica e dall’aura nefasta che la circondava.
«Come vi sentite?» domandò Rachel, ravvivando il fuoco del camino. Patrick, avvolto in una coperta, sedeva in poltrona sorseggiando una tazza di tè.
«È il vostro amante?» la provocò.
Rachel gettò un ciocco nel camino e si accinse ad uscire dalla stanza.
«Vi ho fatto una domanda! È il vostro amante? Rispondete!»
«Avrei dovuto lasciarvi morire assiderato!» sussurrò e uscì dalla stanza sbattendo la porta.
Patrick ridacchiò e con calma finì di sorbire il tè. Rachel era in suo potere e lo sarebbe stata sempre.
Il vento si era rinforzato e Alfonso rabbrividì sotto il mantello. Un alone di luce lattiginosa rischiarava appena il sentiero. Volse lo sguardo al cielo; le nubi correvano veloci trasportate dal vento, sgombrando la volta celeste punteggiata da una miriade di stelle. Offrì il viso al vento e si sentì purificato.
Era notte inoltrata quando arrivò a casa. Tutto era silenzio; non un suono, non una luce. Sarebbe stata una notte di bonaccia. Entrò nella sua stanza, accese il lume e si irrigidì. Qualcuno in sua assenza vi era entrato. Tutto era come l’aveva lasciato ma lui era certo che qualcuno aveva ancora una volta violato la sua intimità. Inspirò profondamente. Non si era sbagliato. Un odore estraneo si mescolava a quello familiare dell’ambiente. Aprì il baule e tastò tra gli indumenti. Le dita incontrarono la copertina rigida dell’agenda. Ora, però, un altro pensiero lo assillava; non riusciva a togliersi dalla mente il reverendo. Detestava quell’uomo ipocrita e malvagio. L’aveva soccorso, non per carità cristiana, ma per l’angoscia che aveva visto negli occhi della sorella. Se fosse morto congelato non ci avrebbe perso il sonno. Forse era stato veramente aggredito, o, più probabilmente, era scivolato e cadendo aveva sbattuto la testa. Il pensiero che lo tormentava era confinato in un recesso della memoria; un ricordo lontano, nebuloso. Dove e quando l’aveva già incontrato? C’era un solo modo per verificare che la sua sensazione fosse veritiera. Dal cassetto del tavolino estrasse il necessario per scrivere un breve messaggio.
Indossò il mantello e uscì nella notte. Sarebbe tornato prima dell’alba.
L’Invito
Ariel si svegliò di buon mattino. Si alzò e scostò pesanti tende. Era ancora buio, il cielo nero si confondeva col mare. La camera era fredda, il camino spento. Maeve non era ancora venuta a rattizzare il fuoco. Non si sentivano rumori provenire dalla casa.
«Cosa fate alzata?» le domandò Manfredi con la voce impastata dal sonno. «È ancora notte, tornate a letto.»
Ariel scostò la coperta imbottita e si rannicchiò contro il corpo del marito.
«Avete fatto un brutto sogno?» le domandò, attirandola a sé.
«No,» rispose. «Credevo fosse già mattino.»
«Non avete più sonno?» le sussurrò, infilando una mano sotto la camicia da notte.
Il suo tocco delicato come il velluto la fece rabbrividire e le scappò un risolino.
«Smettetela! Maeve potrebbe entrare da un momento all’altro» lo ammonì, senza troppa convinzione. Manfredi continuò ad accarezzare la sua pelle calda. «Maeve non sarà nemmeno sveglia a quest’ora» la contraddisse.
«Se lo dite voi» mormorò, cedendo alle eccitanti sensazioni che quelle carezze le stavano stimolando.
Nessuno dei due udì Maeve entrare ad accendere il fuoco nel camino. Manfredi si svegliò per primo; allontanò dolcemente da sé il corpo nudo di Ariel, accarezzò il suo viso e le scostò una ciocca di capelli dalla fronte lucida di sudore. Rimase qualche minuto a contemplare le sue forme morbide quindi si risolse ad alzarsi. Senza far rumore andò nella stanza da bagno. Quando Ariel lo raggiunse stava finendo di vestirsi.
«Sta scendendo qualche fiocco di neve» lo informò, abbracciandolo. «Mi auguro che il reverendo e sua sorella possano venire.»
«Non sarà certo qualche fiocco di neve a fermarli» replicò acido.
«L’idea di invitarli a pranzo è stata vostra» gli rammentò Ariel. Manfredi brontolò qualcosa di incomprensibile. «Suvvia, non crucciatevi; sono certa che trascorreremo una piacevole giornata» lo rassicurò. «Converserete di arte e di letteratura col reverendo e vi assicuro che il pranzo sarà squisito, ho scelto le vostre pietanze preferite e Maeve si è superata nel cucinarle.» Manfredi le prese il viso tra le mani. « Solo voi avete il dono di rasserenarmi.» Ariel gli sorrise, i suoi occhi brillavano di felicità mentre le loro labbra si sfioravano in un tenero bacio.
«Devo andare» disse. «Devo controllare che tutto sia perfetto.»
«Mi lasciate solo?» replicò Manfredi con voce lamentosa.
«Sopravvivrete!» disse e uscì per andare a sovraintendere agli ultimi preparativi.
Nella sala da pranzo Maeve aveva già apparecchiato. Porcellane e cristalli brillavano alla luce delle lampade. La tovaglia e i tovaglioli di lino immacolato, perfettamente stirati, emanavano un lieve profumo di lavanda. Le posate d’argento erano lucide come specchi. Compiaciuta, andò a cercare Maeve per ringraziarla dell’eccellente lavoro che aveva fatto. La trovò nella dispensa. Nel suo sgangherato inglese le espresse la sua gratitudine per quanto aveva fatto. Maeve replicò in gaelico quello che doveva essere un allibito ringraziamento. Il tremito nella sua voce non sfuggì però ad Ariel che, prese la torcia addossata alla parete e l’avvicinò al suo viso. Con gentilezza le posò una mano sulla spalla e la fece voltare verso la luce. Il suo viso era terreo, la pelle sottile sotto gli occhi arrossati era grigia e la fronte corrugata. Singhiozzi convulsi iniziarono a scuotere il corpo spigoloso della donna. Ariel le porse un fazzoletto e attese che la crisi di pianto si esaurisse, quindi la prese per un braccio e la condusse fuori dalla claustrofobica dispensa. La fece accomodare su una sedia e le portò un bicchier d’acqua. Maeve si asciugò gli occhi e trasse un sospiro singhiozzante.
«Cosa vi succede?» le domandò Ariel, prendendo una sedia e mettendosi davanti a lei.
Maeve la fissò sconcertata. Per lei era inconcepibile che una nobildonna si preoccupasse dei crucci di una serva. Eppure la marchesa era lì, davanti a lei, le teneva tra le sue le mani tremanti. Non l’aveva rimproverata e non si era arrabbiata per non averla trovata a svolgere le sue mansioni, al contrario le aveva mostrato compassione sincera e attendeva paziente una spiegazione. Incoraggiata dal sorriso di Ariel, iniziò a raccontare. Parlava in fretta, a voce bassa e in gaelico. Quando si interruppe per riprendere fiato, Ariel le fece cenno di aspettare. «Non muovetevi!» le ordinò e uscì di corsa dalla cucina. Senza bussare entrò nello studio dove Manfredi stava lavorando.
«Dovete chiamare subito Simone o Matteo» disse trafelata.
«Riprendete fiato» la esortò.
«Chiamate subito Simone o Matteo» ribadì.
«Va bene, ma ora calmatevi!» la ammonì con tono autoritario. Sapeva quanto fosse impulsiva e come potesse avere reazioni esagerate a questioni di poca importanza. «Spiegatemi perché siete così sconvolta e perché avete bisogno di Simone o di Matteo.»
Ariel gli espose i fatti. «Di tutto quello che Maeve ha detto ho capito solo ‘Oliver’. Simone e Matteo conoscono il gaelico, per questo ho bisogno di uno di loro» concluse.
«Tornate da lei, io vi raggiungo.»
Ariel trovò Maeve che stava pelando le patate. Le si avvicinò, le tolse il coltello dalle mani e le indicò la porta. Vedendo il marchese, la donna si ritrasse, ma Ariel la tranquillizzò con rassicuranti colpetti sulle spalla. Dopo un momento entrò Simone. Tra i due iniziò una conversazione fatta di suoni incomprensibili, di gesti e ancora di lacrime da parte di Maeve. Ariel si era affiancata al marito e entrambi attendevano che Simone traducesse.
«Oliver è scomparso» disse. «Maeve dice che stanotte non è tornato a casa. Ieri è andato al porto a consegnare una missiva di Milord al capitano della nave che salpava in giornata. Doveva rientrare nel pomeriggio per aiutare il padre ad aggiustare l’ovile. Quando non l’ha visto arrivare lui è andato al porto a cercarlo, ma nessuno ricordava di averlo visto.»
«Chi è Milord?» domandò Manfredi.
Simone girò la domanda a Maeve.
«Dice che non lo conosce.»
«Andate a chiamare Matteo e raggiungetemi nello studio» ordinò.
«Io resto qui ad aiutare Maeve» disse Ariel rivolta al marito. «I nostri ospiti non tarderanno ad arrivare.»
Manfredi aprì la porta dello studio e il profumo di cera gli mozzò il respiro e improvvisamente si trovò in un altro studio. Alzò gli occhi cercando il ritratto di sua madre sopra il clavicembalo; ma quella era un’altra stanza, un’altra vita. Andò allo scrittoio, si sedette, poggiò i gomiti sulla superficie levigata, il mento sulle mani intrecciate. Rimase a fissare il vuoto, perso nei suoi ricordi. Un vigoroso e inconfondibile colpo alla porta lo riscosse. Simone non aveva mai avuto rispetto per i mobili e per le porte in particolare.
«Entrate» li invitò.
Al loro ingresso un forte odore di stallatico offese le narici di Manfredi. Istintivamente si passò una mano davanti al viso con una smorfia.
«Stavo lavorando nelle stalle e Simone non mi ha dato il tempo di ripulirmi» si giustificò Matteo.
«Gli avete raccontato quanto è successo?» domandò il marchese a Simone. Lui annuì. «Cosa ne pensate?» domandò rivolto a entrambi.
Matteo rispose per primo. «Una birbonata. Per qualche motivo il padre l’ha rimproverato e lui è scappato. Ora avrà paura di essere punito e si nasconde da qualche parte. Io dico che tornerà a casa molto presto» concluse con una scrollata di spalle.
Simone era rimasto in silenzio; l’espressione cupa del suo volto rivelava un profondo turbamento.
«La pensate così anche voi?» domandò Manfredi.
L’uomo si schiarì la voce. «Vorrei sapere chi è questo Milord. Da quando sono qui non l’ho mai sentito nominare. E quale nave ha lasciato il porto? Dove era diretta? Cosa conteneva la missiva che Oliver doveva consegnare al capitano?»
«Quante domande» lo interruppe Manfredi.
Simone scosse il capo. «Non credo che Oliver sia scappato. Lo conosco da quando era alto così; è un ragazzino tranquillo, molto affezionato alla madre. Non le avrebbe mai dato un dispiacere.»
«Anche Ariel amava la sua famiglia, ciò nonostante non ha esitato a fuggire dopo una lite col padre» gli ricordò il marchese. Simone e Matteo si scambiarono un’occhiata e sorrisero.
«Ricordo bene quel monello con i capelli sforbiciati che restava a bocca aperta come una ranocchia e il suo gufo che non l’abbandonava mai» disse Matteo. Simone gli ficcò una gomitata nelle costole.
«Stai parlando della marchesa» lo redarguì.
«Sta parlando di Ariel» lo corresse Manfredi. «Ora indossa abiti femminili, i suoi capelli sono lunghi e acconciati, ma il suo spirito intraprendente e generoso è rimasto immutato. È la stessa persona che salvò dal fuoco il conte Valentino, che in seguito si prese cura di mia cognata Letizia e delle bambine e di voi Matteo offrendovi una delle sue tisane.»
«Grazie al cielo siete arrivato voi a salvarmi!» rispose l’uomo.
«Ma tornando alla sparizione di Oliver, avete tratto conclusioni opposte.» proseguì il marchese. Aprì il cassetto dello scrittoio ed estrasse un sacchetto che posò davanti ai due uomini.
«Oggi avremo ospiti il reverendo e sua sorella e la marchesa e io saremo impegnati. È festa e la vostra assenza non desterà sospetti. Andate giù al porto e offrite qualche birra» disse, allungando il sacchetto tintinnante. Simone lo prese e se lo infilò in saccoccia. «Sono certo che queste scioglieranno più lingue della birra.»
«Buona fortuna» augurò loro, congedandoli.
Era tempo di andarsi a preparare ad accogliere gli ospiti. Prima di uscire per andare a cambiarsi d’abito aprì la finestra. «Non sia mai che l’odore di letame urti il delicato nasino del reverendo» disse tra sé.
Nella camera padronale trovò Ariel già pronta. Le si avvicinò per posarle un bacio sul collo. La donna si scostò con una smorfia. «Vi consiglio di fare una sosta nella sala da bagno. Puzzate come uno stalliere.»
«Colpa di Matteo» si scusò e seguì il consiglio della moglie.
Aveva ripreso a piovere; la pioggia mista a neve si abbatteva sulle spalle del reverendo. Imbacuccato nel pesante tabarro guidava personalmente il carrozzino. Non poteva permettersi un cocchiere; già era dispendioso mantenere la cavallina con la misera rendita della canonica. Nell’abitacolo gelido Rachel, rannicchiata in un angolo, tremava per il freddo. Dalla sera del litigio lei e il fratello non si erano più rivolti la parola. Lui non perdeva occasione per umiliarla, ma non l’aveva più percossa. Sentimenti contrastanti turbavano la sua anima. Era felice di trascorrere del tempo lontano dalla canonica in compagnia dei marchesi; ma d’altra parte, era in ansia per il fratello. Sarebbe bastata una parola sbagliata o un comportamento da lui considerato inopportuno e si sarebbe di nuovo scatenato l’inferno.
Sulle colline circostanti si era già posato un leggero strato di neve; alcune pecore, incuranti, brucavano l’ultima erba. Rachel pensò che quella sarebbe stata l’ultima passeggiata; presto la strada si sarebbe trasformata in un rigagnolo di fango ghiacciato, impraticabile. L’attendeva un lungo inverno solitario. Si sentì travolgere dall’angoscia, spessa e appiccicosa come la melassa. Avrebbe voluto scomparire, annullarsi nel paesaggio desolato e spettrale che la circondava. Chiuse gli occhi e si abbandonò al movimento della carrozza.
Trovarono i marchesi ad attenderli sulla soglia. Eusebio si prese cura della cavallina, mentre Maeve, solerte, si occupò dei mantelli degli ospiti. I marchesi accompagnarono i loro ospiti infreddoliti in salotto e li fecero accomodare davanti al camino. L’odore di lana bagnata si diffuse nell’aria. Una tazza di tè bollente contribuì a migliorare il loro disagio. La conversazione si concentrò sul tempo inclemente che sarebbe peggiorato nei giorni successivi. Maeve si presentò alla porta e annunciò che il pranzo era servito. Ovviamente in gaelico.
«Questi nativi non si sforzano nemmeno un poco di imparare a parlare l’inglese. Non so se lo fanno per farci dispetto o per impedirci di comprendere ciò che dicono» commentò il reverendo con disprezzo.
«Reverendo, sono orgogliosi si mantenere la loro identità e hanno tutta la mia ammirazione. Dovremmo essere noi a imparare la loro lingua» obiettò Ariel con un sorriso ma in tono freddo e sicuro. La sua freddezza indicava che non aveva alcun timore di lui. Il reverendo aprì la bocca per ribattere, poi decise di tacere e sorrise.
Si accomodarono alla tavola apparecchiata in maniera sobria e allo stesso tempo elegante. Anche la disposizione dei commensali era stata attentamente ponderata: fratello e sorella non dovevano trovarsi gomito a gomito. Così Ariel fece sedere Rachel di fianco a lei e il reverendo di fronte a sé. Era una disposizione che non rispettava i canoni del bon ton, ma idonea agli intendimenti che si aspettava di ottenere. Il pranzo si svolse in un’atmosfera di educato distacco. Rachel non alzava gli occhi dal piatto e rispondeva a monosillabi o con brevi frasi alle domande, peraltro innocue, di Ariel. Assaggiò appena le pietanze che venivano servite al contrario di Patrick che se ne servì abbondantemente. Mostrava di apprezzare molto il cibo e soprattutto il vino italiano che il marchese aveva tenuto in serbo per l’occasione. La conversazione, nondimeno formale, si trasformò presto in un dialogo tra Manfredi e Patrick; Ariel interveniva solo se sollecitata dal consorte, come si conveniva a una moglie sottomessa. Ma il brillio nei suoi occhi non trasse in inganno Manfredi che si domandava quali pensieri stessero frullando nella sua testolina.
Alla fine del pranzo i due uomini si ritirarono nello studio, Ariel e Rachel si trasferirono nel salottino.
«Vi sentite bene?» domandò Ariel, porgendo alla giovane una tazza di tè. «Non avete quasi toccato cibo.»
«Sto bene, e il cibo era ottimo» si affrettò a chiarire, temendo che la padrona di casa si fosse offesa. La tazza tintinnò sul piattino e alcune gocce della bevanda le caddero sulla gonna. Ariel finse di non aver visto per non aumentare l’imbarazzo della ragazza; forse il suo disagio era dovuto all’esistenza isolata che conduceva. La mancanza di contatti umani l’avevano trasformata in un animaletto selvatico e impaurito.
«Cosa pensate delle partiture che vi ho fatto avere?» domandò.
«Sono belle» rispose.
«Le avete suonate? Purtroppo il nostro pedal è rimasto a casa e non sono musiche adatte al violino» proseguì Ariel.
Rachel arrossì. «Sono stata piuttosto impegnata e non ho avuto il tempo da dedicare alla musica» confessò.
La voce si era fatta tremula e i suoi occhi fissavano ostinatamente la tazza. In realtà, quando Patrick l’aveva scoperta a leggere quegli spartiti, glieli aveva strappati dalle mani e solo le sue lacrime e le sue preghiere avevano impedito che finissero ad alimentare il fuoco del camino. Li aveva chiusi in un cassetto di cui solo lui possedeva la chiave.
Ancora una volta Ariel fece finta di niente. Posò sul tavolino la sua tazza e si alzò.
«È ora che vada da mio figlio. Volete accompagnarmi? Siete stata così gentile e premurosa con lui. Valentino sarà felice di vedervi.»
«Se non vi dispiace, marchesa, preferisco restare qui. Vorrei riposare un poco» rispose.
Ariel avvertì che qualcosa si agitava nel suo sguardo. Si sporse verso di lei, appoggiò la mano sulla sua e, all’improvviso, si trovò tra le braccia una bambina scossa da fremiti fortissimi. Riusciva a sentire le sue emozioni, la sua pena, la sua tremenda solitudine. La tenne stretta finché non si fu un poco calmata. Gentilmente la allontanò da sé e le prese il viso inondato di lacrime tra le mani.
«Come posso aiutarvi?» domandò, premurosa. Rachel scosse il capo.
Ariel non voleva turbarla ulteriormente chiedendole in maniera diretta se fosse Patrick la causa della sua sofferenza, sebbene ne fosse fermamente convinta.
«Davvero non volete accompagnarmi da Valentino?» le chiese nuovamente.
Gli occhi di Rachel si riempirono nuovamente di lacrime. Con uno sforzo le ricacciò indietro, si irrigidì serrando le labbra.
«Non posso» disse in un soffio. Nella sua voce c’era paura; una paura fredda e sottile che la faceva tremare in maniera incontrollata.
«È a causa di vostro fratello?» indagò prudentemente Ariel.
Rachel rimase in silenzio, ma il suo conflitto interiore era tangibile. Il timore, forse, di non essere creduta si scontrava col desiderio di condividere il peso della propria angoscia. Ariel attese pazientemente. Dopo un momento di esitazione Rachel, con uno scatto deciso del capo, annuì. Deglutì, guardandosi attorno nervosa. Era sulla difensiva. «Non è facile andare d’accordo con lui, è molto permaloso. È colpa mia se abbiamo dovuto venire ad abitare in questo posto» iniziò a raccontare. Poi le sue parole fluirono come un fiume in piena fra lacrime e sospiri.
«Vi scongiuro, non dite niente a mio fratello. Se sapesse che ho parlato con voi, mi …» si interruppe bruscamente.
«Non abbiate timore, sarà il nostro segreto» la rassicurò Ariel. «Ma ditemi, non avete più saputo niente di lui?» Rachel scosse il capo.
«È ora di andare.» La voce del reverendo fece sussultare entrambe.
«Non vi ho sentito entrare» disse Ariel, fissandolo bieca. Detestava quell’uomo e dovette ricorrere a tutta la sua forza di volontà per non schiaffeggiarlo.
Rachel scattò in piedi e indossò il mantello che il reverendo le porgeva. Manfredi era rimasto sulla porta e osservava Ariel: anche con quell’aria corrucciata era bellissima. I suoi occhi scintillanti l’avevano conquistato quando, come un fagotto urlante trattenuto a stento dal buon Martino, aveva fatto irruzione nel suo studio, scombussolando la sua giornata e stravolgendo la sua vita.
Rachel, a testa bassa, percorse il corridoio seguita dal fratello. La loro carrozza li attendeva davanti all’ingresso. Si congedarono frettolosamente. Una nebbiolina gelida e sottile scorreva lungo il sentiero e, come un fiume fantasma, inghiottì la carrozza e i suoi occupanti. I marchesi rientrarono nel tepore della loro casa.
«Vi ringrazio per aver trattenuto il reverendo nello studio» esordì Ariel. Manfredi le sorrise, prese tra le sue le mani della moglie e le rivolse uno sguardo interrogativo.
«Questa sera vi racconterò tutto quello che Rachel mi ha confidato; ora col vostro permesso, vado da Valentino.»
«Vi raggiungerò più tardi; torno nello studio, per tener vivo l’interesse del reverendo ho svuotato gli scaffali e ora i libri sono sparsi ovunque.»
«E aprite la finestra, non voglio che l’odore del reverendo ammorbi l’aria» gli consigliò Ariel, allontanandosi.
Quando entrò nella camera del figlio, l’ordine aveva ceduto il passo ai capricci del bambino che aveva versato il latte sul tappeto e sbriciolato i biscotti sulla seggiola. Le sue impronte violacee e appiccicose di marmellata di mirtilli avevano battezzato ogni superficie disponibile. Vedendo la madre, le rivolse un sorriso smagliante, ma Ariel non si lasciò infatuare e lo prese per un braccio. «Questo bambino si è comportato molto male» disse, trascinandolo riluttante verso il catino. Lo riempì d’acqua e con una pezzuola bagnata iniziò a ripulirlo energicamente. «Questo bambino ha combinato un bel pasticcio, dovrei castigarlo severamente» proseguì, incurante dei suoi strilli che fecero accorrere Doretta. «Con voi parlerò più tardi» la rimproverò. «Prendete degli abiti puliti per cambiarlo e ripulite questo disastro.»
Mentre rivestiva il bambino la sua irritazione lentamente svanì. Lo prese sulle ginocchia e lo baciò sui riccioli ribelli, forse un po’ troppo lunghi, ne aspirò il dolce profumo e lo strinse a sé. Solitamente Valentino non gradiva queste dimostrazioni di affetto; frignava e si divincolava. Ma non ora. Circondò con le braccia il collo della madre e si strinse ancor si più a lei. Ariel sentiva il suo cuoricino battere contro il suo petto e gli occhi le si riempirono di lacrime. Quante volte, da bambina, aveva desiderato che sua madre la tenesse tra le braccia. Ma lei non aveva tempo da dedicarle; quattro bambini da allevare prosciugavano tutte le sue energie.
«Perché piangete madre?» domandò Valentino, scostandosi leggermente da lei.
«Perché sono felice di avere questo bellissimo bambino» rispose, asciugandosi gli occhi. «Ma oggi questo bambino non si è comportato bene e non sono affatto contenta.» Valentino rimase per un momento in silenzio, a testa china; poi guardò la madre e, con un sorriso disarmante pronunciò la parola magica: «Perdono?»
«Solo se promettete di comportarvi bene.» Il bambino annuì con foga. Ariel gli scostò i riccioli che ricadevano sulla fronte.
«Andiamo?» le domandò.
«Dove?»
«Fuori.»
«Non si può uscire, fa troppo freddo e tra poco farà buio» gli spiegò.
Il visetto del bambino si oscurò e cominciò ad altalenare sulle ginocchia della madre con impazienza.
«Musica?» gli propose Ariel.
«Sì, sì» rispose il piccolo, agitandosi ulteriormente. Ariel lo sollevò dalle ginocchia e lo depositò su una sedia. «Vado a prendere il violino, aspettatemi qui, non muovetevi.» Quindi si rivolse a Doretta che stava rassettando la stanza: «Tenetelo d’occhio e se si muove, legatelo con una catena robusta» minacciò.
Dopo pochi minuti tornò recando con sé il violino. Il bambino non si era mosso; la minaccia di essere legato funzionava sempre. Quando Ariel iniziò a suonare, Valentino si arrampicò sul letto e si sistemò tra i cuscini. Ariel alternava musiche briose a dolci melodie, finché il bambino indirizzò il pollice in bocca e chiuse gli occhi. Lei continuò a suonare; il potere rasserenante della musica l’avvolgeva come un manto protettivo.
Manfredi, silenzioso come un fantasma, entrò nella stanza. Ariel alzò lo sguardo e lo vide. Sollevò il sopracciglio come per chiedergli se dovesse smettere, ma lui scosse il capo e lei continuò a suonare. Seduto sull’unica sedia, lui ascoltava rapito.
«Dove avete appreso questa musica?» le aveva chiesto tanto tempo prima. Erano seduti sulla panchina nel parco del palazzo di mattoni rossi. Lui era appena tornato dal funerale del fratello e si apprestava ad andare a prender la cognata e i nipoti alla Residenza, la loro casa di campagna dove abitavano.
«Non so» le aveva risposto con una scrollata di spalle. «A volte la musica è qui nella mia testa.» All’epoca credeva ancora che fosse un giovane musico esuberante e un poco impertinente, ma dotato di un grande talento e di un formidabile appetito; la sera del suo arrivo aveva divorato l’intero vassoio di pane e formaggio che gli aveva fatto preparare. Ricordava come avesse raccolto diligentemente tutte le briciole e come, con poca eleganza in verità, avesse leccato meticolosamente tutte le dita. Sorrise tra sé, ripensando a quell’episodio.
«Perché sorridete?» domandò Ariel sottovoce per non svegliare il bambino.
«Avete suonato in maniera sublime» bisbigliò. Quindi, le si avvicinò, si chinò, le prese il mento tra le mani e la baciò. In punta di piedi lasciarono la stanza ormai avvolta nella penombra
Oliver
Oliver si svegliò. La testa gli pulsava dolorosamente. Gli facevano male gli occhi. Sbatté le palpebre per mettere a fuoco il posto dove si trovava. Solo buio attorno a lui. Quando la vista si schiarì, vide in lontananza uno spicchio di luna nel cielo velato dalle nubi. Annusò l’aria: odore di acqua di mare rancida. Il freddo umido gli penetrava nelle ossa e uno spuntone di pietra gli pungeva la schiena. Era seduto in una delle tante grotte che sforacchiavano la scogliera. Doveva uscire alla svelta; presto la marea si sarebbe alzata e lui sarebbe rimasto intrappolato e, molto probabilmente, sarebbe morto annegato. Le mani erano legate dietro la schiena, ma, per fortuna, le gambe erano libere. Provò ad alzarsi, ma le gambe gli cedettero. Cercò di liberare le mani, ma la corda bagnata era così stretta che era penetrata nella carne dei polsi. Una fitta di dolore lancinante lo fece urlare. Quando lo spasimo si affievolì, si guardò intorno e, su una parete della grotta, vide una lama di pietra. Trascinandosi sulle ginocchia la raggiunse e iniziò a sfregare la corda, vincendo il dolore. Le fibre pian piano si frantumavano. Incoraggiato dal successo, aumentò la pressione. Quando anche l’ultima fibra cedette, lacrime e sudore gli inondavano il viso. Si guardò i polsi escoriati; bruciavano come il fuoco. Rasentando la parete della grotta, raggiunse l’uscita. Qualche fiocco di neve gli cadde sul viso e l’aria fredda e pulita lo rinfrancò. Il mare sotto di lui mugghiava minaccioso e scuro, ma la tempesta non era nell’aria e la marea era ancora bassa. Si concesse un momento per riposare e riordinare le idee. Come era arrivato lì? Non lo sapeva, ma certamente non con le sue gambe. Ricordava un gruppo di piovanelli che rimestavano tra la spuma delle onde e le grida stridule dei gabbiani che volteggiavano sopra di lui prima di lanciarsi in picchiata nell’acqua. Ma a quando risalivano questi ricordi? Non ne aveva idea.
La bava di luce proveniente dalla luna gli permise di scorgere una striscia pietrosa che si snodava al di là della scogliera. Non sapeva dove conducesse, ma non aveva importanza, desiderava solo allontanarsi dal fragore delle onde e dalle raffiche gelide del vento che odorava di salsedine. Il sentiero sembrava non finire mai; gli facevano male i piedi e la schiena, le pietre rotolavano sotto di lui e per non scivolare fu costretto a distendersi e a lavorare di gomiti e ginocchia. Dopo un tempo che gli parve infinito, il sentiero si immerse nel folto della brughiera. Avanzava accovacciato e l’erica secca gli sferzava i polpacci. Avrebbe voluto correre, ma era stremato e la gola gli bruciava da morire. Nonostante il gelo, il sudore gli colava lungo la schiena e il cuore gli martellava in petto. Si piegò sulle ginocchia, sputò e si deterse il sudore dagli occhi. Riprese fiato e proseguì, veloce quanto le poche forze rimaste gli consentivano.
Iniziava ad albeggiare, il cielo verso est si illividiva.
Gli parve di sentire un rumore. Si stese a terra, l’orecchio teso. Alzò leggermente il capo e intravide i fuochi delle torce che perlustravano la brughiera. Gli stavano dando la caccia. Il panico e lo sfinimento si propagarono in tutto il corpo, Contò tre torce. Tre torce, tre uomini che stavano venendo nella sua direzione. Tre uomini erano troppi per lui che non aveva alcuna possibilità di difendersi. Anche uno solo sarebbe stato troppo. Si distese a pancia in giù sul terreno gelato e iniziò a piangere. Era la fine, sarebbe morto lì, come un animale, solo, non avrebbe più rivisto i suoi genitori.
«È qui!» Matteo fu il primo a vederlo. Simone e Eusebio accorsero e gli si inginocchiarono accanto. «È vivo?» domandò Simone. Matteo toccò il collo del ragazzo; sotto le dita avvertì il pulsare del suo cuore. «È vivo» confermò ai compagni. Con delicatezza lo girarono.
«Oliver, Oliver!» lo chiamarono.
«Apri gli occhi, ragazzo!» lo esortò Simone.
«Forse non capisce» intervenne timidamente Eusebio. Simone lo guardò torvo. «Ha ragione lui» concordò Matteo e ripeté l’esortazione in gaelico.
Oliver aprì un occhio, poi l’altro e un sorriso gli illuminò il viso rigato di lacrime e fango. Lo aiutarono ad alzarsi, ma le ginocchia gli cedettero e crollò a terra.
Matteo, allora, consegnò la sua torcia a Eusebio e se lo caricò sulle spalle. In testa al piccolo drappello, Simone intonò una canzoncina goliardica, una delle tante che lui e Matteo cantavano quando accompagnavano il conte Valentino a piedi o a cavallo.
Il sole era appena sorto quando depositarono Oliver sul letto di Simone e Matteo correva a dare a Maeve la buona notizia. Il trambusto provocato dal loro arrivo aveva svegliato tutta la casa. Manfredi si precipitò a raggiungerli. Matteo, nel frattempo, nella sua stanza aveva preparato un giaciglio provvisorio dove, ora, tolti gli abiti fradici, era disteso Oliver avvolto in una calda coperta.
Arrivò Maeve trafelata. La pelle grigia e sottile sotto gli occhi e la fronte corrugata testimoniavano l’angoscia causata dalla sparizione del figlio. Si strofinò leggermente sotto gli occhi e alzò lo sguardo riconoscente su Simone e Matteo. Li ringraziò con un fiume di parole incomprensibili, quindi rivolse la sua attenzione al figlio. Scostò delicatamente una ciocca di capelli inzaccherati di fango dalla fronte e si inginocchiò di fianco al letto. Il corpo di Oliver era scosso dai brividi e batteva i denti. Manfredi uscì dalla stanza, seguito da Simone e da Matteo. Oliver rimase solo con la sua mamma.
«Andate a riposare» disse loro, allontanandosi. I suoi passi crepitavano sul terreno del cortile sbriciolato dal gelo dei lunghi inverni. Nella sua stanza trovò Ariel ad attenderlo.
«Come sta il ragazzo?» domandò ansiosa.
«Sta riposando. Sua madre è con lui.»
«Dove l’hanno trovato?»
«Nella brughiera; era disteso in mezzo all’erica. Simone ha avuto l’impressione che volesse nascondersi; più tardi lo incontrerò con Matteo e mi farò dare maggiori informazioni. Ora li ho mandati a riposare» concluse Manfredi.
«Pensate che sia fuggito da casa?» insistette Ariel.
Manfredi scrollò le spalle. «Non saprei, quando si sarà ripreso andrò a parlargli.»
«Più tardi andrò anch’io a fargli visita; dirò a Maeve di ritenersi esonerata dai suoi doveri finché il ragazzo non si sarà ripreso. Deve occuparsi di lui; Doretta la sostituirà e di Valentino mi occuperò io.» A Manfredi sfuggì un risolino. Ariel lo guardò stizzita. «Il vostro senso dell’organizzazione mia cara mi meraviglia» si giustificò.
«Dovete ringraziare vostra cognata Letizia, ho imparato molto da lei … »
«Nella mia prossima missiva non mancherò.»
Ariel tacque pensierosa. Il lavorio della sua testolina traspariva dalle espressioni del suo viso.
«A cosa state pensando?»
«Maeve ha detto che il padre aveva mandato il ragazzo al porto a consegnare una missiva al capitano di una nave. Se scopriamo a chi doveva consegnare la lettera … e chi è questo milord che pare nessuno conosca? »
«Frenate la vostra immaginazione, vi scongiuro!» la redarguì dolcemente Manfredi. Ariel lo fissò sdegnata.
«Vi ricordo, marchese, che la mia fervida immaginazione mi ha consentito di superare ben più di un ostacolo.»
Manfredi le si avvicinò e le prese il viso tra le mani. «Volevo solo stuzzicarvi un po’. Siete così bella quando vi arrabbiate; i vostri occhi brillano come stelle.» Ariel arrossì sotto lo sguardo dolce e pacato del marito. Il viola dei suoi occhi aveva un potere magnetico su di lei. «Vado a dare disposizioni a Doretta» disse, riscuotendosi dall’incantesimo. Manfredi scostò le mani dal suo viso e la guardò uscire. I suoi passi veloci risuonavano sul pavimento di legno; poi la stanza ripiombò nel silenzio e Manfredi fu assalito da un repentino senso di abbandono, la stessa angosciosa sensazione che molti anni addietro aveva sperimentato alla morte del fratello. Si avviò verso lo studio; i ricordi guidavano i suoi passi come mani calde e amorevoli.
Si rivide bambino, in lacrime, abbracciato alle ginocchia della madre dopo la lezione di scherma che suo padre lo costringeva a frequentare. Risentì la voce di sua madre, dolce, che lo consolava. Le parole di scherno del suo insegnante di scherma, un uomo rozzo che provava piacere ad umiliarlo, venivano cancellate dalle sue carezze.
Le tende dello studio erano chiuse e nella stanza entrava una luce fioca che le conferiva un colore plumbeo, invernale. Rabbrividì, sebbene il fuoco del camino fosse vivace; qualcuno, probabilmente Simone o Matteo, aveva provveduto a ravvivarlo in sua assenza. Andò alla scrivania, accese la candela e si mise al lavoro. La massa di documenti che occupava gran parte della superficie, non accennava a diminuire nonostante il lavoro che lo aveva tenuto impegnato per giorni.
Ariel, in punta di piedi, entrò nella camera dove Oliver dormiva sereno. I tratti del suo viso erano distesi, sembrava ancora un bambino. Maeve, seduta accanto al suo letto, gli teneva la mano abbandonata sopra la coperta. Vedendo Ariel, accennò ad alzarsi, ma lei con un cenno le disse di non muoversi. Si avvicinò e le sorrise, posandole una mano sulla spalla. Maeve aveva lavato il fango dal viso del ragazzo e i suoi capelli umidi ricadevano sulla fronte. I segni rossi di graffi spiccavano sulle guance pallide e due cerchi neri contornavano gli occhi. Ma quello che attirò l’attenzione di Ariel furono le profonde escoriazioni al polso esposto. Le indicò a Maeve che scostò leggermente la coperta scoprendo anche l’altra mano. Presentava lo stesso tipo di ferite. Poi la donna mise una mano sotto la nuca del figlio, girò leggermente il capo e le indicò un gonfio bernoccolo violaceo, a malapena nascosto dai capelli. Nel sonno Oliver emise un gemito, ma non si svegliò. Se i graffi potevano essere stati causati da una caduta, gli occhi pesti e il bernoccolo testimoniavano che il ragazzo era stato picchiato e legato come dimostravano le profonde ferite ai polsi. Quasi sicuramente Oliver se le era procurate quando aveva cercato di liberarsi dai legacci. Queste conclusioni, però, Ariel non le esternò; ne avrebbe prima parlato al marito.
«Restategli accanto» disse a Maeve e uscì. Poco dopo tornò portando con sé un barattolo contenente un unguento di erbe cicatrizzanti e lenitive. Lo porse a Maeve e le indicò di spalmarlo sulle ferite. Lei lo prese titubante; fissava la marchesa ammutolita, incapace persino di ringraziarla per la sua premura; il suo era un comportamento del tutto estraneo alla brava donna. Era così diversa dall’aristocrazia acida, scostante e indifferente che conosceva! Ariel uscì diretta allo studio dove sapeva che avrebbe trovato Manfredi. Aveva urgenza di raccontargli ciò che aveva visto. Nell’ombra una figura attendeva che lei si allontanasse. Quando fu certa di non essere vista, entrò nella stanza.
Oliver aprì gli occhi. Vedendo Alfonso ai piedi del letto, cercò di alzarsi a sedere, ma era troppo debole e ricadde sui cuscini. Alfonso si avvicinò.
«Milord» sussurrò il ragazzo.
«Non parlate, dovete riposare.»
«Ho consegnato la vostra lettera al capitano» proseguì il ragazzo. I suoi occhi pesti lo fissavano con fierezza. Alfonso annuì e gli sorrise. «Ero sicuro di potermi fidare di voi. Siete un ragazzo forte e coraggioso.»
«Mio padre sarà orgoglioso di me.»
«Certamente» mormorò Alfonso. Un groppo alla gola gli impedì di dire altro e faticò a trattenere le lacrime.
«Desiderate restare solo con lui?» intervenne Maeve.
«Se non vi è di incomodo.» La donna si alzò. «Vado a preparare un po’ di brodo» disse uscendo. Rimasti soli, Alfonso si sedette al posto di Maeve. Da vicino le ferite sul volto del ragazzo erano più evidenti. Alfonso provò un profondo senso di colpa per averlo esposto a un pericolo.
«Chi vi ha fatto questo?» Era una domanda rivolta a se stesso, ma Oliver rispose. «Non lo so. Stavo tornando a casa, avevo dato la vostra lettera al capitano. Una brava persona, mi ha dato due monete d’argento. Me le ha rubate» concluse affranto.
«Vi ha aggredito per derubarvi, quindi» disse Alfonso, per nulla convinto.
Oliver si strinse nelle spalle e scosse il capo. «Credo di sì; ma non ho riconosciuto chi mi ha picchiato. Aveva un fazzoletto sulla faccia ed era buio.»
«Buio?» domandò Alfonso perplesso.
«Mi ha trascinato in una grotta!»
«Vi ha legato e percosso duramente» Alfonso stava fissando i segni profondi dei polsi.
«Queste me le sono procurate sfregando la corda contro la pietra. Faceva un male cane, ma alla fine le corde si sono spezzate e sono scappato.»
«Chi vi ha aggredito vi ha fatto delle domande?»
Oliver negò con un cenno del capo, ma distolse lo sguardo da Alfonso. La sua riluttanza lo mise in allarme. «Oliver?» lo esortò. Il ragazzo continuò a giocherellare con un lembo della coperta, evitando il suo sguardo. «Io non mi ricordo» farfugliò. «Mi ha trascinato nella grotta e mi ha dato una botta in testa» proseguì in tono aggressivo, mostrandogli la brutta ferita sulla nuca. Alfonso posò la mano su quella del ragazzo. «Avete avuto una brutta avventura, ma vi siete comportato come un vero uomo» lo confortò.
Oliver, inaspettatamente scoppiò in lacrime. Si passò una mano sul viso. «Non mi ha portato via solo il denaro» confesso singhiozzando. «Ha preso anche la lettera che il capitano mi aveva detto di consegnarvi.»
«Non tormentatevi, era solo la lettera di un’amica. Le scriverò dicendole che la sua lettera è andata perduta e la pregherò di inviarmi nuovamente le medesime notizie» lo rassicurò.
«Ma il capitano ha detto che era molto importante!» lo contraddisse tra le lacrime.
In quel momento entrò Maeve con una ciotola d brodo.
«Ricomponetevi!» mormorò Alfonso.
«Il marchese ha chiesto di voi» disse la donna porgendogli la ciotola. Oliver sgranò gli occhi spaventato.
«State tranquillo» lo rassicurò Alfonso «il marchese è una brava persona.»
«Ma mi farà delle domande e io … »
«E voi gli direte la verità. Sappiate che il marchese capisce se voi gli mentite; per sua sfortuna ha molta esperienza in materia. Ora bevete il brodo e preparatevi. Non è buona educazione farsi attendere.» Alfonso lasciò la stanza e tornò nel suo alloggio. Aveva bisogno di stare solo.
Maeve aiutò il figlio a indossare una camiciola pulita e i pantaloni della festa. Simone venne a prenderlo pochi minuti dopo. Lo accompagnò nello studio; Il ragazzo si bloccò sulla porta e Simone gli diede una manata sulla schiena che lo scaraventò al centro della stanza. Manfredi lanciò uno sguardo ad Ariel che sedeva in disparte e si sorrisero. Entrambi avevano avuto lo stesso pensiero. Tempo addietro un giovane e recalcitrante musico era stato introdotto senza troppi riguardi nella biblioteca del palazzo dai mattoni rossi. Al contrario di Oliver che teneva gli occhi ancorati a terra, il giovane musico aveva sfidato il marchese con gli occhi fiammeggianti di stizza. Anni dopo, Ariel gli aveva confidato che era terrorizzata all’idea che lui avesse messo in atto la sua minaccia di farla rinchiudere nelle regie galere.
«Sedete» lo invitò Manfredi. «Come vi sentite?»
«Bene, sir» rispose rimanendo in piedi in mezzo alla stanza.
Simone lo prese per un braccio e lo depose forse un po’ troppo rudemente sulla sedia al cospetto di Manfredi. «Siete ancora debole, sedete!» disse, guardandolo torvo.
«Desiderate qualcosa?» domandò Ariel.
«Vorrei tornare a casa da mio padre» mormorò timidamente il ragazzo. Manfredi si rabbuiò. «Quando vi sarete rimesso in salute tornerete da vostro padre. Per ora resterete qui con vostra madre.» Oliver accennò un moto di protesta, ma Simone lo fulminò con lo sguardo. Oliver abbassò gli occhi. Da pallido il suo volto divenne cereo e se non ci fosse stato Simone a sorreggerlo, sarebbe caduto dalla sedia. Ariel si affrettò a portargli un bicchiere d’acqua. Oliver lo prese con mani tremanti, lo portò alla bocca e bevve a grandi sorsi. «Vi sentite meglio?» domandò Manfredi. Oliver annuì. «Quando siete scomparso, vostra madre ha detto che eravate andato al porto perché dovevate consegnare una lettera a un certo capitano. Chi vi ha dato quella lettera?»
«Mio padre» rispose sicuro.
«Vostro padre sa scrivere?» continuò.
«No, sir.»
«Allora di chi era quella lettera?»
«Non lo so, sir.»
«Conoscete un certo Milord?»
«No, sir» rispose d’impulso. Poi ricordò le parole di Alfonso “il marchese capisce se gli menti” e si corresse. «Volevo dire, sì. Milord era il mio cane.»
Manfredi lo fissò con i suoi occhi viola e acuti. Oliver deglutì e si passò una mano tra i capelli.
«Non avete niente da temere. Qui siete al sicuro» lo rassicurò.
«Parlate» lo esortò Simone che, al contrario del marchese, stava esaurendo la pazienza.
«Sono andato al porto perché mio padre mi aveva dato una lettera da consegnare a un capitano suo amico. Lui mi ha dato due monete d’argento. Stavo tornando a casa perché dovevo aiutare mio padre ad aggiustare il recinto delle pecore. Qualcuno mi ha dato una botta in testa e mi ha portato via il denaro.»
Non aveva intenzione di dire altro.
«Potete andare» lo congedò il marchese. «Ma rimarrete ancora qui. Tornerete a casa quando ve ne darò il permesso.»
Oliver si alzò, visibilmente contrariato, ma non osò replicare. Accompagnato da Simone tornò nella sua stanza.
Era pomeriggio, ma sembrava notte. Non nevicava più ma nelle ultime ore la nebbia si era tramutata in pioggia, una coltre densa di acqua sospesa. La tenue luce della candela si rifletteva calda sulla cera del pavimento e sui volumi rilegati in pelle sugli scaffali.
Manfredi chiuse a chiave la porta dello studio e si sedette sulla poltrona di fronte a Ariel che durante il colloquio non aveva aperto bocca ma lui sapeva che vi aveva prestato la massima attenzione.
«Cosa ne pensate?» le chiese.
«Il ragazzo non ha mentito, ma non ha detto tutto ciò che sa.»
«Credete sia stato minacciato?»
Ariel scrollò le spalle. «È possibile.»
Manfredi aggrottò le sopraciglia come se stesse pensando intensamente.
«Domani accompagnerò a casa il ragazzo personalmente. Intendo parlare col padre. Forse da lui otterrò qualche informazione. Dirò a Simone di preparare la carrozza.»
«Col vostro permesso, ora vado da nostro figlio» annunciò Ariel.
«Vi accompagno.»
Manfredi le porse il braccio e chiuse la porta dietro di sé.
L’Incontro
La mattina grigia si prospettava piena di solitudine e desolazione. Gli uccelli avevano smesso di cantare, come se percepissero il gelo del suo cuore. Distesa sul letto alla flebile luce della candela, Rachel si sentiva smarrita. Il colloquio con la marchesa aveva risvegliato in lei ricordi dolorosi. Sarebbe mai riuscita a spazzare via il passato? «No,» si rispose. «Non voglio.» Per quanto doloroso fosse stato, non voleva dimenticare quella parte della sua vita. Almeno allora aveva una vita. Fece una risatina amara; un pensiero si affacciò alla sua mente. Annuì tra sé e, come animata da nuova energia, si alzò e si predispose a iniziare un’altra giornata tetra e triste.
In casa regnava un silenzio quasi spettrale; Patrick non sapeva esattamente cosa l’avesse svegliato. Da dove veniva quel rumore? Forse se l’era immaginato, forse era stato solo un sogno, un banalissimo fantasma che sbucava dal suo inconscio. Si alzò, scostò le tende. L’ombra attorno ai cespugli era nerissima, non si muoveva niente. Gli ci volle un momento per adattarsi al buio; poi intravide qualcuno. Il suo cuore accelerò i battiti, il suo corpo si irrigidì. La figura, interamente avvolta in un mantello nero si confondeva col buio della notte. I suoi occhi lo stavano fissando, neri e profondi come una voragine. Il reverendo avrebbe voluto urlare, ma non aveva voce, una paura familiare lo attanagliava. Aveva già incontrato quello sguardo. La figura, immobile, continuò a fissarlo a lungo, quindi si voltò e imboccò il sentiero che portava alla scogliera. Patrick la vide scomparire, inghiottita dall’oscurità.
Il gelo si era impadronito del suo corpo, tremando come se fosse in preda alla febbre si precipitò in cucina.
«L’ho visto!» ansimò. «Era sotto la finestra e mi fissava!» Il respiro gli si mozzò in gola e un accesso di tosse per poco non lo soffocò. Rachel che stava ravvivando il focolare alzò appena gli occhi. «Sedete e bevete il vostro tè» disse con indifferenza, come se nemmeno si fosse accorta del suo aspetto sconvolto. Non gli chiese né chi aveva veduto né il motivo di tanto turbamento. Continuò ad occuparsi del focolare come se non l’avesse udito.
L’angoscia di Patrick si trasfigurò in rabbia. Come osava quella piccola sciocca mostrare tanta indifferenza? Le si avvicinò minaccioso, ma si bloccò a pochi passi da lei. Aveva in mano un attizzatoio e lo fissava impassibile come una sfinge. Patrick batté in ritirata, rifugiandosi nella propria stanza. Chiuse il chiavistello di porta e finestra. L’ansia si placò mano a mano che il buio cedeva il passo alla lattiginosa luce dell’alba. Si sentiva protetto dalle quattro pareti del suo piccolo mondo, inviolabile. Lì era signore e padrone, lì erano raccolte le cose a lui più care: i suoi libri, la sua collezione di monete antiche, il diario dove annotava i suoi pensieri, dove sfogava le sue frustrazioni. Alle sue pagine confidava le proprie debolezze che non avrebbe mai avuto il coraggio di confessare ad alcuno. Ormai si era completamente calmato; il respiro era tornato regolare, persisteva solo un leggero tremito alle mani a ricordargli l’apparizione notturna. Prese carta e penna e si accinse a scrivere il sermone che avrebbe letto alla funzione festiva. Aveva le idee ben chiare su ciò che avrebbe raccontato al suo sparuto gregge: avrebbe parlato della morte, della dannazione eterna che attendeva coloro che disertavano le funzioni ed erano così poco generosi col loro pastore. Quanto si sarebbe divertito a leggere il terrore negli occhi delle sue pecorelle! Raccolse le idee e iniziò a scrivere. Stranamente il tavolo traballava come se una gamba fosse più corta delle altre. Guardò giù ed effettivamente una delle gambe non poggiava sul pavimento. Non ricordava di aver usato uno spessore per pareggiare l’appoggio, ma sicuramente l’aveva fatto e Rachel, spazzando il pavimento, inavvertitamente l’aveva tolto. Prese dei pezzetti di legno e li inserì sotto la gamba zoppa. Ricominciò a scrivere.
La neve si stava accumulando sui tetti; i prati attorno sembravano grandi lenzuola stese in un silenzio senza colore. La strada si era trasformata in una sottile striscia di neve fangosa. Il sibilo del vento faceva da sfondo al gracchiare delle cornacchie appollaiate sui rami spogli degli alberi. Nella cucina stagnava il vapore della minestra che cuoceva sul focolare. L’odore delle rape e delle erbe selvatiche le diede la nausea. Rachel ripensò ai pranzi a cui era stata invitata dopo un concerto nelle sontuose abitazioni di qualche nobile, ben introdotto nell’aristocrazia: il profumo delle carni arrostite, quello pungente delle spezie e quello delicato dei dolci.
Chiuse gli occhi. Indossava un abito color verde smeraldo che faceva risaltare la carnagione bianca del viso e delle spalle che un velo di sudore faceva brillare alla luce delle candele che illuminava lo sfarzoso salotto del Conte di Aosta Carlo Emanuele III di Savoia, re di Sardegna, duca di Savoia, duca del Monferrato, marchese di Saluzzo, principe di Piemonte e conte della Moriana e di Nizza che i piemontesi avevano bonariamente soprannominato Carlin. Dopo l’austerità imposta dal padre, lui aveva ripristinato i balli e le feste alla corte torinese e non solo. Quella sera lei aveva suonato per quegli invitati blasonati, ma soprattutto aveva suonato per lui. L’aveva già incontrato nel salotto del duca François, un nobile d’oltralpe corrotto e lascivo, morto in circostanze tragiche. A quel tempo era poco più di una bambina e lui si era avvicinato per complimentarsi per la sua esibizione. Avevano scambiato poche parole di cortesia, ma lei non aveva più dimenticato i suoi profondi occhi scuri. Rivederlo quella sera le aveva provocato un tuffo al cuore e aveva suonato con particolare passione. L’aveva invitata a ballare. Era al colmo della felicità. Da allora era sempre stato presente ai suoi concerti. Era diventata la pianista più ricercata dell’aristocrazia. Poi, il bel sogno era svanito. Lui era scomparso e lei, grazie alle conoscenze influenti del fratello era stata ritirata in un convento. Sola, impaurita, nella prigionia della piccola cella aveva trascorso lunghi mesi in attesa della nascita del bambino. Dopo ore di atroci sofferenze aveva visto il visetto di suo figlio, rugoso e congestionato dal pianto. Solo per un attimo; poi la levatrice l’aveva avvolto in una coperta e l’aveva portato via. Non l’aveva mai più rivisto. Aveva trascorso altri mesi nella solitudine della cella. Le suore la trattavano come un’appestata; non le rivolgevano la parola e, se incrociava i loro sguardi, abbassavano gli occhi e si allontanavano in fretta. Poi un giorno suo fratello era venuto a prenderla. Senza darle alcuna spiegazione, si erano imbarcati su una nave. Si era illusa che la vita le avrebbe nuovamente riservato gioie e soddisfazioni, ma quando aveva visto dove erano sbarcati i suoi sogni si erano sciolti come neve al sole.
Lacrime amare le scivolarono sul viso smunto. Si sentiva soffocare; doveva allontanarsi dai ricordi, dal fratello, dall’atmosfera opprimente della casa. Si avvolse sulle spalle un pesante scialle e uscì. Sfidando le impetuose raffiche di vento, si incamminò lungo il sentiero. I prati ai lati della strada infondevano un senso di solitudine quasi irreale. Tra le pietre antiche si levò il pianto di un bambino. Rachel, accecata dalle lacrime, si mise a correre senza una meta. Dalla scogliera, una figura a cavallo la stava osservando. Le lacrime la accecavano. Il vento freddo e tagliente che saliva dal mare si intrufolava sotto i suoi vestiti. Piccoli turbini di nevischio le danzavano intorno come fantasmi. Rallentò il passo e imboccò un sentiero sconnesso. Dovunque volgesse lo sguardo una fioca e inquietante luminescenza si diffondeva sul terreno. In lontananza il mare faceva sentire la sua voce roboante. Inciampò in uno spuntone di roccia che sporgeva dal suolo e cadde. Lanciò un grido e si mise a singhiozzare. Avrebbe voluto addormentarsi lì. No, sarebbe morta assiderata e lei non voleva morire. Per quanto grama fosse la sua esistenza voleva vivere. Con la forza della disperazione si rialzò; pulì il fango dalla gonna con i palmi delle mani. Piccole pietre aguzze vi si erano conficcate e sanguinavano.
Sentì una mano sfiorarle la spalla. Il battito del suo cuore rallentò; stava per urlare quando una mano le tappò la bocca. «Tacete!» le intimò una voce all’orecchio. Rachel si irrigidì; il suo corpo era una statua di sale. Quella voce non l’aveva mai dimenticata. Ma doveva per forza essere frutto della sua mente turbata. La pressione della mano sulla spalla si fece più insistente. «Voltatevi» le sussurrò la voce che pareva venire dal vento. Ma Rachel rimase immobile; temeva che un movimento avrebbe fatto svanire il suo sogno, perché di quello doveva trattarsi, e lei non voleva che quel bel sogno svanisse.
«Rachel» ripeté la voce morbida come il velluto.
«Voi!» Per poco non perse i sensi per l’emozione. Si aggrappò a lui e calde lacrime bagnarono il mantello nero. Lui la sostenne e la strinse a sé.
«Siete veramente voi!» Fece scorrere le dita sul viso che non aveva mai dimenticato, quasi temesse di trovarsi davanti un fantasma. Ancora non riusciva a credere ai propri occhi.
«Venite.»
Lei lo seguì senza chiedere dove la volesse portare.
Il vento soffiava nella brughiera e, da qualche parte in lontananza, un gufo bubbolava. Si addentrarono in una grotta seguendo un tortuoso percorso illuminato da torce fumiganti. Il rumore del mare era sempre più lontano .Un sedile di pietra correva lungo la parete della grotta. Lui si era tolto il mantello e l’aveva posato sulle spalle di Rachel. Faceva un freddo glaciale là sotto, ma lei era troppo eccitata per avvertirlo. Era in uno stato di grazia; ascoltava rapita il suono della sua voce senza comprendere il significato delle parole. Seguiva con lo sguardo il suo andirivieni nello spazio angusto, i suoi occhi non lo lasciavano nemmeno per un attimo, quasi temesse che scomparisse all’improvviso.
«Ora dovete tornare a casa» disse l’uomo, tendendole le mani per aiutarla ad alzarsi dal sedile. Quelle parole la colpirono come uno schiaffo.
«Tenetemi con voi» lo implorò.
«Non ora, mia cara. Ho degli affari che richiedono la mia attenzione, ma vi prometto che vi porterò via da qui. Ora tornate da vostro fratello e non fate parola ad alcuno del nostro incontro.»
«Non mi abbandonerete, vero?» lo supplicò.
«No, non vi abbandonerò, ma voi dovete ubbidirmi.»
Rachel bruscamente si allontanò da lui e lo fronteggiò con gli occhi fiammeggianti di collera. «Non trattatemi come una bambina bizzosa! Per tutta la vita non ho fatto altro che obbedire e quali vantaggi ne ho tratto? Ho dovuto abbandonare la vita che conducevo, la musica. Mio fratello mi ha tolto le persone che più amavo e mi tratta come una sguattera. Non sono più stata libera di fare qualcosa per me stessa.»
Lui si avvicinò e la tenne stretta finché il tremito che percorreva il suo corpo non si placò. «Tutto questo finirà; ora ci sono io a proteggervi ma dovete avere ancora un po’ di pazienza.»
«Il tempo non guarisce le ferite, al contrario, non fa che peggiorare le cose» asserì tristemente.
«Sono d’accordo con voi. Ma vi do la mia parola che presto riavrete ciò che vi è stato tolto.»
Giunti sul sentiero si separarono. «Siete il mio angelo vendicatore» disse Rachel prima di voltarsi e imboccare la strada di casa.
«Vi sbagliate, mia cara, sarete voi il mio angelo vendicatore, anche se non lo sapete» disse al vento.
Patrick posò la penna e si stiracchiò. Aveva fame. Andò in cucina. Il fuoco era acceso ma Rachel non c’era. La chiamò ma non ricevette risposta. Bussò alla porta della sua stanza urlando il suo nome. Girò la maniglia, ma era chiusa a chiave. Furibondo, iniziò a prenderla a calci e a spallate. Quella stupida si era chiusa dentro. Con uno schiocco il chiavistello cedette. Entrò. La stanza era vuota. In preda all’ira afferrò le coperte e le gettò sul pavimento. Sul tavolo da scrittura c’erano le musiche che aveva suonato alla cerimonia di commemorazione. Non gli importava che fosse uscita, anche se l’aveva fatto senza il suo permesso e per questo l’avrebbe punita, ma aveva fatto bruciare la minestra e lui non aveva niente da mangiare. Prese il mantello e uscì; sarebbe andato in una taverna al villaggio. Anche se detestava farlo, era l’unico modo per mettere qualcosa sotto i denti.
«Ehi, guardate chi c’è! Il nostro reverendo!» Patrick aveva appena varcato la soglia di una bettola strapiena di pescatori. Una nuvola di vapore avvolse il suo mantello. L’aria satura di odore di pesce arrostito e di umanità poco avvezza alle abluzioni quotidiane gli provocò un capogiro. Barcollò verso una panca e venne afferrato da una mano robusta. «Che vi succede reverendo?» chiese l’uomo che si era spostato per fargli posto. Patrick, pallido come un cencio si lasciò cadere accanto a lui. «Bevete reverendo» disse un altro pescatore seduto di fronte a lui. Versò in una ciotola una dose generosa di liquido ambrato e gliela mise davanti. «Questo resuscita i morti!» esclamò suscitando uno scoppio di risa sguaiate. Patrick prese la ciotola e ne bevve un sorso. Il liquido gli bruciò la gola. Paonazzo in volto e con le lacrime agli occhi, iniziò a tossire. Attorno a lui si levò un altro coro di risate. Arrivò il taverniere che mise sul tavolo lurido un enorme piatto di pesce arrostito. Tutti quelli seduti attorno al tavolo allungarono le mani per servirsi, ma l’uomo seduto accanto a Patrick li bloccò con un grugnito. «Prima il reverendo» tuonò, avvicinandogli il piatto. «Mostrate un po’ di riguardo!» Poi si rivolse a Patrick: «Su reverendo, si serva!» Dal fondo della stanza si levò una voce. «Prima deve recitare l’orazione!» Ancora risate. Patrick prese un pezzo di pesce e lo addentò. Era buono, anzi ottimo. «L’abbiamo pescato stanotte» bofonchiò l’uomo accanto a lui con la bocca piena. Tutti si servirono una seconda e una terza volta. Anche il reverendo si servì abbondantemente innaffiando il tutto con diverse ciotole di liquido infuocato. L’unto gli colava sul mento e sul bavero della giacca ma non se ne curava. L’alcool a cui non era avvezzo gli aveva sciolto la lingua e annebbiato il cervello. I pescatori ascoltavano in silenzio il racconto della sua vita in Italia; sembravano dei bambini affascinati dalle fiabe e lui si sentiva importante; tutta quell’attenzione lo esaltava. Era il crepuscolo quando provò ad alzarsi ma la stanza iniziò a ruotare e il pavimento sotto i suoi piedi sembrava fatto di piume. Ricadde pesantemente sulla panca, appoggiò la testa sul tavolo e cadde addormentato all’istante.
Molti pescatori se n’erano già andati, gli ultimi si alzarono. Era ora di prendere il mare; non ci sarebbe stata tempesta, un vero miracolo per la stagione. «Lasciatelo dormire» disse il pescatore che gli era stato seduto accanto. L’oste scrollò le spalle e continuò a pulire i tavoli. «Avrà un brutto risveglio» mugugnò.
Rachel arrivò a casa trafelata; la paura per la punizione che il fratello avrebbe potuto infliggerle le procurava un grandissimo stato d’ansia. Aprì la porta della canonica e rimase allibita. In cucina pareva fosse passato un toro infuriato. Raccolse le sedie rovesciate, raccattò le pentole, poi, con un tuffo al cuore, vide la porta della sua stanza scardinata. Anche là dentro la furia di suo fratello si era abbattuta sulle sue povere cose. Raccolse gli abiti calpestati e le camiciole strappate. I danni non erano irreparabili, ma avrebbero richiesto ore di lavoro. Comunque l’inverno era lungo e di tempo ne avrebbe avuto.
Si stava facendo buio e suo fratello non era ancora tornato; forse era in chiesa. Prese lo scialle e una lanterna e uscì. Cacciò un urlo. Il suo corpo giaceva davanti all’uscio, disteso nel fango. Rachel sollevò la lanterna sul viso esangue del fratello. Si chinò su di lui, ma subito si ritrasse disgustata. Puzzava di alcool e di vomito di cui il mantello recava visibili tracce. Posò a terra la lanterna, l’afferrò sotto le ascelle e con grande fatica lo trascinò in cucina. Lui emise un grugnito ma non si svegliò. Rachel lo abbondò sul pavimento e uscì. Il solo pensiero di toccarlo le dava il voltastomaco. Quella notte avrebbe dormito nella stanzetta di fianco alla chiesa, quella che serviva da rifugio ai viandanti.
La nebbia si era addensata, celando alla vista la campagna circostante. Rachel arrivò alla chiesa che già era buio. Entrò nella stanza dalla porticina laterale. Accese il braciere; un leggero tepore si irradiò tra le pareti spoglie. Si sedette sul giaciglio e dal fagotto che aveva portato con sé tirò fuori un pezzo di formaggio e una manciata di noci. Un rumore improvviso la fece trasalire; sembrava il tonfo di un sasso tirato contro una delle finestre. Attraverso i vetri scorse un volto. Urlò e per poco non rovesciò la lanterna.
«Rachel!» Riconobbe la sua voce e corse ad aprire il portone. La figura avvolta dal mantello si stagliava sulla soglia, imponente, rassicurante. Rachel si gettò tra le sue braccia.
«Come facevate a sapere che ero qui» chiese, sciogliendosi dall’abbraccio. Lui le sorrise. «Vi ho seguita.» Rachel si adombrò. «È pericoloso, mio fratello potrebbe scoprirvi.» La risata dell’uomo rimbombò sulle pareti. «Vostro fratello non andrà da nessuna parte per un bel pezzo.» Lei lo fissò con gli occhi sgranati. «Come credete che sia tornato a casa? Non si reggeva in piedi!»
«L’avete portato a casa voi?» Rachel era allibita.
«Dopo avervi lasciata sono andato alla taverna al porto. Lui era là; era già ubriaco e blaterava in mezzo a un gruppo di pescatori che si stava divertendo alle sue spalle. Non c’era voluto molto a farlo ubriacare. Dopo pochi bicchieri è crollato addormentato sul tavolo. I pescatori se ne sono andati; l’ho caricato sul cavallo e l’ho scaricato davanti alla canonica. Dio quanto puzzava! Poi siete arrivata voi. Vi ho vista trascinarlo dentro e me ne sono andato. Poi ho pensato che potevate avere bisogno di aiuto e sono tornato indietro. È stato allora che vi ho vista uscire e correre verso la chiesa.»
«Avete corso un grosso rischio» commentò Rachel. «Avrebbe potuto riconoscervi.»
«Non avrebbe riconosciuto neppure voi. Ma perché siete fuggita?»
Rachel chinò il capo. «Ho avuto paura» confessò. Lui le prese le mani tra le sue; erano gelate e il suo corpo era tutto un tremito. «Lui è malvagio» mormorò e scoppiò in lacrime. Lui la prese tra le braccia e attese che lo sfogo si esaurisse.
Nella stanzetta il tempo trascorse tra lacrime e fiumi di parole. «Mi ha portato via tutto ciò che avevo di più caro. Lo odio!» concluse. Il dolore e la rabbia tenuti nascosti tanto a lungo si manifestavano nei tratti alterati del suo volto. Per tutto il tempo lui non aveva proferito parola, ma la sua mente lavorava febbrile. Aveva trovato un’alleata per portare a termine la sua vendetta.
«Dovete tornare a casa» le consigliò, accarezzandole dolcemente le spalle. Lei scosse il capo, i suoi occhi lo fissavano terrorizzati. «Tenete» disse l’uomo mettendole nella mano un sacchettino. Lei lo guardò perplessa. «Sono delle erbe donatemi da una maga» spiegò. «Mescolatele con le foglie di tè.» Rachel lo guardò dubbiosa. «Non temete, non sono tossiche» la rassicurò. «Ma renderanno vostro fratello mansueto come un agnellino.» Si alzò, accingendosi ad andare.
«Andate già via?» domandò Rachel visibilmente delusa.
«Devo.»
«Non mi abbandonate!» implorò.
«Vi sarò sempre accanto, anche se voi non mi vedrete. Fidatevi di me.» Le diede un casto bacio sulla fronte e uscì nella notte. Lei rimase sulla soglia finché lo vide scomparire nella nebbia. Sorrise. Era tornato e presto l’avrebbe portata via con sé.
Patrick si svegliò solo per scoprire che riusciva a malapena a muovere le braccia e le gambe. Era disteso sul pavimento freddo; provò ad alzarsi ma una stilettata gli trafisse la testa e tutto attorno a lui cominciò a girare. L’odore di cui erano impregnati gli abiti gli causò un conato di vomito che per poco non lo soffocò. La sua pelle divenne fredda come il ghiaccio. La casa era buia e silenziosa. Un lampo d’angoscia attraversò il suo volto. Rachel. Dov’era Rachel? La chiamò. Gli rispose solo il sibilo del vento. Esausto, ricadde sul pavimento. Non avrebbe saputo dire per quanto tempo era rimasto in quello stato di semi incoscienza. Quando riaprì gli occhi i fumi dell’alcool si erano rarefatti lasciandogli, a ricordo, una feroce emicrania, ma, almeno, gli arredi attorno a lui avevano smesso di roteare. Con molta cautela si mise seduto; la cucina era stata riordinata, ma il fuoco era spento e nessun rumore proveniva dalle altre stanze. Chiamò nuovamente Rachel, ma il suo richiamo cadde nel vuoto. Si alzò e barcollando raggiunse il camino. Prendere e gettare due ciocchi di legno sulle braci gli costò uno sforzo enorme. Poi vide la porta della stanza della sorella scardinata e i ricordi iniziarono a riaffiorare. Era tornato a casa e non aveva trovato Rachel; furioso aveva sfogato la sua rabbia sugli arredi della casa poi era andato al villaggio e in una taverna del porto aveva mangiato e bevuto insieme ai pescatori. Si era ubriacato; la puzza che si portava addosso non lasciava spazio al dubbio. Come era arrivato a casa? Non lo sapeva. Un’oscura voragine aveva inghiottito quelle ore della sua vita. Ormai si era persuaso che Rachel non c’era; anche la lanterna era scomparsa. Probabilmente era uscita a cercarlo. Il pensiero che fosse fuori al gelo e al buio lo divertiva. «Cerca, cerca sorellina. Ma non mi troverai!» Proruppe in una risata cattiva, mentre crollava sul letto.
Patrick russava sonoramente. Rachel era tornata a casa prima dell’alba e aveva inutilmente cercato di dormire; era troppo eccitata. L’incontro con lui, le sue promesse, la prospettiva di un avvenire insieme all’uomo che amava da sempre l’avevano indotta in uno stato di esaltazione che le aveva tolto il sonno. Per anni aveva alleviato il dolore escludendolo dai suoi pensieri, Ora, mentre era concentrata su di lui, un senso di angoscia la investì nuovamente, ma subito si riebbe: non avrebbe permesso a Patrick di allontanarla da lui un’altra volta.
Pose il bollitore sul fuoco. Estrasse dalla tasca il sacchettino delle erbe e le mescolò alle foglie di tè nel barattolo. “Non sono tossiche” le aveva assicurato; ma poco le importava anche se lo fossero state, ora che lui era tornato. Era così assorta nei suoi pensieri che non si accorse che Patrick era in piedi dietro di lei. «Dove siete stata?» domandò, facendola trasalire. La sua voce era ancora impastata dal sonno e dall’alcool, ma lei ne riconobbe il tono imperioso. Le si avvicinò e le afferrò un braccio, facendola girare verso di lui. Lei si irrigidì e indietreggiò, come se quel contatto le avesse ustionato la pelle. «Non toccatemi!» sibilò. Lui la fulminò con lo sguardo, poi abbassò lentamente il braccio. «Per l’amor di dio!» sbottò, allontanandosi da lei. Gli doleva ancora la testa e una persistente sensazione di nausea lo tormentava.
«Bevete» disse Rachel posando sul tavolo una tazza di tè fumante.
Cumuli di nuvole nere, cariche di pioggia, oscuravano il cielo ma nel suo cuore splendeva il sole.
Ricordi
«Dove siete stato?» domandò Matteo. «È un po’ che vi aspetto.»
Nella stalla c’era profumo di paglia bagnata e il fiato degli animali creava una nebbiolina opalescente. I due uomini erano uno di fronte all’altro; Matteo con i pugni serrati lungo i fianchi era di umor nero per aver trascorso molte ore fuori al freddo ad aggiustare i recinti. Alfonso, al contrario era perfettamente a suo agio. «Ero nel magazzino a cercare un unguento. Uno dei cavalli ha un garretto piagato» disse, svitando il coperchio di un barattolo il cui contenuto ammorbò l’aria di una puzza di grasso rancido. L’uomo affondò le dita nella pasta untuosa e si avviò verso la cavallina che se ne stava mogia mogia in un angolo del suo recinto. Si vedeva che era sofferente. Alfonso si inginocchiò sulla paglia e sollevò delicatamente la zampa dell’animale. La cavallina nitrì contrariata, allora l’uomo le accarezzò il muso mormorandole parole rassicuranti. Quindi iniziò a spalmare l’unguento sulla ferita. «Perché mi cercavate?» chiese, rialzandosi.
«Volevo chiedervi se, quando abbiamo finito qui scendevate con me e Simone al villaggio per un bicchiere.»
«Vi ringrazio, ma questa sera sono stanco» rispose laconico.
«Come volete. Se cambiate idea, ci trovate alla taverna.»
Alfonso controllò la zampa della cavalla, la fasciò, prese la lanterna e si diresse verso il recinto dello stallone. Da sotto la paglia estrasse il mantello e gli stivali che aveva nascosto. Nella stalla regnava il silenzio; gli animali erano tranquilli. Sarebbe tornato più tardi a controllare che tutto fosse in ordine. Improvvisamente da uno dei recinti si levò un nitrito. Alfonso alzò la lanterna davanti a sé; nell’alone di luce nulla si muoveva, ma l’animale continuava a dare segni di nervosismo battendo gli zoccoli e nitrendo sempre più forte. Pensando che un furetto o qualche altro animale selvatico si fosse intrufolato nella stalla, prese un bastone e corse verso il recinto. L’animale era ritto sulle zampe posteriori e con quelle anteriori minacciava di calpestare il fagotto arrotolato nella paglia. Alfonso posò la lanterna e arrampicatosi sulle assi del cancelletto, afferrò la cavezza. Mormorando parole tranquillizzanti e accarezzando il muso umido acquietò l’animale. Intanto, ai suoi piedi, il fagotto si era alzato e si stava togliendo le pagliuzze impigliate negli abiti e nei capelli.
«Oliver!» esclamò Alfonso sorpreso.
«Milord!» rispose il ragazzo, battendo i piedi sulla paglia.
«State bene?»
«Sì, milord.»
«Dovrei prendervi a frustate» proseguì Alfonso, prendendogli la mano per aiutarlo a scavalcare il recinto. «Poteva colpirvi con gli zoccoli e farvi molto male. Siete stato fortunato.»
Oliver, per nulla turbato, gli sorrideva. «Vi stavo aspettando, milord.»
«Smettetela di chiamarmi milord e ditemi cosa ci facevate qui. Dovreste essere nella vostra stanza.»
«Vi stavo aspettando m …» si interruppe e con un gesto infantile si tappò la bocca con la mano.
«Venite» disse, trascinandolo per un braccio verso alcune balle di paglia. «Allora, cosa dovete dirmi?»
«Il marchese mi ha fatto molte domande, e come mi avevate suggerito voi, ho risposto dicendo la verità … quasi tutta la verità.»
«Cosa significa “quasi tutta la verità?” ribadì Alfonso allarmato.
«Quando il marchese mi ha chiesto se conoscevo un milord, prima ho negato, poi mi sono ricordato delle vostre parole e gli ho detto che sì, conoscevo un milord; era il mio cane, l’avevo chiamato proprio così. Non ho mentito» concluse compiaciuto.
Alfonso si passò una mano sul viso; la barba gli pizzicò il palmo e camuffò un sorriso con una smorfia. Quel ragazzo era incredibile.
«E ditemi, il marchese vi ha creduto?»
Oliver lo guardò perplesso. «Non lo so. Ma non ho tradito il vostro segreto» tenne a precisare.
Alfonso fissò il visetto glabro e serio che ancora portava i segni delle percosse e fu tentato di stringere tra le braccia quel bambino cresciuto in fretta, al quale era stato insegnato il valore dell’onestà. Si limitò ad annuire. «Sono orgoglioso di voi e vi sono riconoscente per la lealtà che avete dimostrato. Ora però dovete tornare nella vostra stanza. Vostra madre vi starà cercando; era disperata quando siete scomparso.» Raccolse il mantello e gli stivali.
«Avete ragione, sono rimasto fuori molto tempo, ma voi non arrivavate! Mi sono seduto ad aspettarvi, e quando è entrato Matteo mi sono nascosto lassù» disse, indicando il fienile. «Quando Matteo è uscito, stavo saltando giù, ma sono scivolato» spiegò.
All’ingresso della stalla Alfonso si fermò a chiudere il portone e Oliver si avviò verso la sua stanza. Dopo pochi passi, però, tornò indietro. «Non vi tradirò mai» mormorò. E corse via. Il rumore dei suoi zoccoli rimbalzava sul selciato deserto. Alfonso appoggiò il capo sul legno ruvido e rimase lì, da solo ad affrontare i suoi demoni. Indossò il mantello e si avviò verso il villaggio. Un bicchiere e le chiacchiere dei villani l’avrebbero distolto dai suoi cupi pensieri.
Ariel e Manfredi entrarono nella stanza del figlio. Le sue urla si sentivano già dal corridoio. Doretta faceva del suo meglio per arginare i capricci del bambino, senza peraltro riuscirci. Per due giorni Ariel si era presa cura di lui, ma quando Maeve aveva ripreso a svolgere le sue mansioni, Doretta aveva recuperato il suo posto di fantesca. Voleva bene al bambino, ma i suoi capricci a volte erano esasperanti. Il brutto tempo che non gli permetteva di uscire peggiorava il suo nervosismo. Quando vide i genitori, Valentino si acquietò. Solitamente Manfredi lo sollevava tra le braccia e lo coccolava. Con grande stupore di Ariel e con enorme disappunto di Valentino, Manfredi lo prese per un braccio e lo trascinò davanti a Doretta.
«Domandate perdono per il vostro comportamento vergognoso.» Valentino fissava incredulo il viso arrabbiato del padre. Il sorriso si trasformò in una smorfia e iniziò a singhiozzare.
«Le vostre lacrime non mi commuovono» affermò Manfredi burbero. Valentino rivolse la sua attenzione alla madre. Se pensava di trovare in lei un’alleata rimase deluso. Lei lo stava fissando accigliata, le braccia conserte e, brutto segno, la punta del piede batteva ritmicamente sul pavimento. Guardò ora l’uno ora l’altra, quindi si rivolse a Doretta e le chiese perdono, come volevano i suoi genitori.
«Potete ritirarvi» disse Manfredi, rivolgendosi alla ragazza. «Staremo noi con Valentino.» Doretta non se lo fece ripetere, con un inchino si ritirò nella sua stanza.
«Ci fate l’onore di suonare per noi?» chiese Manfredi ad Ariel, prendendo in braccio il figlioletto. Ariel prese il violino e iniziò a suonare le antiche musiche che il conte Valentino le aveva lasciato in eredità. Le conosceva a memoria. Quanti ricordi evocavano quelle note; alcuni piacevoli, altri penosi.
«Avete suonato magnificamente» la lodò Manfredi, quando, spossata, posò lo strumento.
«Non sono d’accordo con voi» replicò, indicando il bambino addormentato tra le braccia del padre.
«C’è sempre qualcuno che non apprezza la buona musica. Ma col tempo imparerà» la canzonò.
Ariel gli tolse il bambino dalle ginocchia e lo adagiò sul letto, quindi andò a chiamare Doretta, ma Manfredi la fermò. «Aspettate» Lei lo guardò confusa. Le indicò la poltrona di fronte alla sua. «Mentre suonavate mi sono tornati in mente tanti ricordi. La stanza dove Tancredi, Jacopo ed io giocavamo non era molto diversa da questa e aveva il profumo di cera e di lavanda.» Il suo viso si rabbuiò. «Allora ignoravo quanto livore nutrisse mio fratello nei nostri confronti.» L’amarezza nella sua voce colpì Ariel nel profondo. «Nostra madre si prodigava per mantenerlo sulla retta via, ma è stato uno sforzo inutile. Godeva del favore di nostro padre da cui aveva ereditato la sua indole scapestrata. La sera che venne ucciso il nostro sovrintendente, Giovanni, come ogni sera, era venuto a farmi il suo rendiconto e mi aveva annunciato, con molta ritrosia peraltro, che sarebbe diventato padre. Allora credevo che non avrei mai provato quella gioia e fui felice di accettare la sua richiesta di essere il padrino di battesimo del suo primogenito. Lo vedo ancora Giovanni, in piedi davanti a me, che torceva il cappello tra le mani, imbarazzato. Se n’era appena andato quando arrivò Tancredi e la mia gioia venne annientata dalla crudeltà delle sue parole.»
Ariel era a conoscenza di quegli avvenimenti, ma lasciò che Manfredi esternasse la sua inquietudine.
«Cosa vi turba?» domandò, indagando il suo sguardo perso nei ricordi.
Manfredi si riscosse. «Nulla in particolare» la rassicurò. «Riflettevo solamente su quanto sia imprevedibile la vita.» Si alzò e si avvicinò al letto dove Valentino dormiva succhiando rumorosamente il pollice. ‘Non permetterò che qualcuno vi faccia del male’ pensò, guardando il visetto roseo.
Ariel si avvicinò. La risposta evasiva che aveva ricevuto, celava un tormento interiore che nemmeno la sua dedizione e il suo amore riuscivano a cancellare. Glielo leggeva nella malinconia del suo sguardo e nelle rughe che solcavano il bel viso. Lacrime di frustrazione le riempirono gli occhi, ma le ricacciò in gola e quando Manfredi si voltò verso di lei, sorrise. Rimasero qualche istante ancora a contemplare il bambino addormentato, poi tornarono alle loro poltrone.
«Domani accompagnerò a casa Oliver» la informò.
«Sperate che suo padre possa darvi qualche chiarimento?»
«Sarò sincero con lui e mi auguro che faccia altrettanto.»
«Vi illudete se pensate che condividerà con voi i suoi segreti. Ricordate cosa disse Matteo? Noi siamo forestieri e non faremo mai parte della loro comunità.»
Manfredi era consapevole che le probabilità che il colloquio col padre di Oliver avessero un esito positivo erano minime. Inoltre, se lui era in combutta con il fantomatico milord, avrebbe corso un grave pericolo. D’altro canto, restare sospeso nel limbo dell’incertezza era una situazione ben peggiore.
«Se il padre di Oliver conoscesse solo il loro dialetto, come farete a capirvi? Maeve comprende a malapena poche semplici frasi in inglese e Oliver è inaffidabile; tradurrebbe quello che il padre gli suggerirebbe» ribadì Ariel.
«Porterò con me Simone, lui comprende la loro lingua a sufficienza.»
Ariel non replicò, ma nella sua testolina si stava risvegliando un’idea che da parecchio tempo dormicchiava in un angolino recondito. Mentre Manfredi era dal padre di Oliver, lei sarebbe andata al villaggio vicino dove viveva la sorella della giovane annegata. Tempo addietro ne aveva accennato al marito, ma lui si era fermamente opposto. «Qualunque cosa possa sapere non parlerà; meno che meno con voi» le aveva detto. «Può darsi che si tratti di una diceria, ma se sua sorella è scivolata in mare mentre fuggiva con indosso il vostro abito perché aveva intenzione di rubarlo, tacerà per non gettare fango sulla sua onorabilità. Se, invece, è stata uccisa, l’assassino avrà agito nell’oscurità. In ogni caso, la ragazza non avrebbe nulla da dirvi.» Le argomentazioni che le aveva palesato erano inattaccabili, ma il suo istinto era di ben altro avviso, anche se, in verità non era in grado di decifrare il messaggio che le inviava. Non aveva argomenti per controbattere e si era ritirata in buon ordine. L’occasione si sarebbe ripresentata. Finalmente domani avrebbe messo in atto il suo progetto. Non sarebbe andata da sola, non voleva disubbidire alle disposizioni del marchese, si sarebbe fatta accompagnare. Ma da chi? Simone sarebbe andato con lui, Matteo, dopo lo scherzo che gli aveva giocato, sarebbe corso da Manfredi a spifferare tutto. Di Alfonso non si fidava. Restava solo Eusebio, lui eseguiva gli ordini senza discutere e, soprattutto, era una tomba.
Manfredi, ignaro, le sorrise. «Andate a chiamare Doretta; questa sera non voglio dividervi con nessuno» Le rivolse un intrigante cenno d’intesa.
Il Ciondolo
I rami degli alberi coperti di neve penzolavano sopra la strada, così bassi da sfiorarla. Mossi dal vento, sembravano scrollare le spalle nere in gesti di indifferenza. Nella nebbia fredda del mattino si perdevano in un silenzio senza colore.
Ariel aveva atteso la partenza di Manfredi prima di scendere a cercare Eusebio. L’aveva trovato nella stalla intento alle sue occupazioni. «Oggi sarete al mio servizio» gli aveva detto. «Mi accompagnerete al villaggio.» Lui non aveva proferito parola; aveva semplicemente posato il tridente con cui stava rivoltando la paglia. Ora, avvolti nei loro mantelli, Ariel e Eusebio stavano percorrendo la scorciatoia battuta dal vento tra le rovine e le croci celtiche. Il rumore del vento simile al pianto di un bambino la fece rabbrividire. L’aria proseguì indifferente la sua corsa. Raggiunsero la scogliera. Sotto di loro gli anfratti si schiudevano su antri tenebrosi, custodi di un’oscurità di mondi segreti, o più semplicemente, del nulla di cui è fatta la paura. Nonostante il freddo pungente Ariel cominciò a sudare e quando il vento si rinforzò, il sudore le si gelò addosso e sentì un gran freddo, un gelo profondo, di quelli che si sentono solo nei giorni più brutti dell’inverno.
Prese il braccio di Eusebio e non mollò la presa finché non giunsero in vista del villaggio costituito da una fila di casupole, poco più di capanne, che sembravano indecise tra argilla e paglia tra mattoni e legno, con i tetti a loro volta indecisi tra paglia e pietra. Le grida dei gabbiani riempivano l’aria. Uno stormo girava attorno a quella che doveva essere una fonte di cibo, probabilmente le interiora di un pesce. Proseguirono lungo la strada sterrata che si inoltrava dietro le case tra i pascoli delimitati da muriccioli di pietra. Ariel non sapeva in quale casa abitasse la ragazza pertanto si avvicinò alla prima fila. Bussò alla porta e restò in attesa. Nessuno venne ad aprire. Allora sbirciò dalla finestra, ma non vide alcun movimento all’interno. In lontananza un cane stava abbaiando; una donna avanzava lentamente qualche passo più indietro. Ariel si avviò verso di lei. Teneva le braccia strette attorno al busto, cercando di ripararsi dalle raffiche di vento che le soffiavano in faccia. Quando le fu vicino la salutò. La donna la guardò con gli occhi socchiusi, diffidente. Il cane si intromise tra loro e prese a ringhiare. Ariel fece un passo indietro, ma non desistette.
«Signora, posso farle una domanda?» La donna annuì. ‘Bene – pensò Ariel – comprende l’inglese.’ La donna la guardò con diffidenza, ma senza animosità. Era un inizio incoraggiante. «Sapreste dirmi dove posso trovare la sorella della ragazza annegata?» La donna si irrigidì e le rivolse uno sguardo bieco. «Non lo so» rispose e si mosse per allontanarsi, ma Ariel le si parò davanti. Il cane ringhiò e Eusebio che era rimasto indietro di qualche passo, si affrettò a raggiungere le donne, ma Ariel gli fece cenno di non intromettersi.
«La prego, signora, io ho veramente urgenza di parlare con quella ragazza. È molto importante.»
Il tono implorante della voce e l’espressione supplichevole del viso convinsero la donna. «Venite» disse. La condusse verso una costruzione lontana dalle altre con le pareti di pietre scombinate e il tetto di paglia arruffata. Ariel seguì la donna all’interno; un’unica stanza con al centro un rudimentale focolare, una panca e delle pietre che fungevano da sedili. Da un bacile la donna prese dell’acqua e la versò in un bollitore che pose su un traballante treppiede sopra il fuoco. Da un vaso prese un pizzico di erbe e lo distribuì in due ciotole. Esitò per un attimo e poi prese una terza ciotola. «Il ragazzo» disse. «Fatelo entrare, non è un animale.» Ariel arrossì; il tono della donna era più tagliente del vento. L’aveva giudicata e condannata. Non poteva fargliene una colpa, ma riuscire a indurla a fidarsi di lei sarebbe stato più difficile di quanto aveva previsto. Fece entrare Eusebio. «Sedete qui accanto al fuoco» lo sollecitò, scostandosi per fargli posto sulla panca di fianco a lei. La donna versò l’acqua bollente nelle ciotole e subito si diffuse nell’aria un intenso profumo di erbe aromatiche. Posò il bollitore e si sedette sul sedile di fronte ad Ariel; la fissava con un cipiglio privo di cortesia. Anche Ariel, attraverso il fumo del braciere, la osservava; la povertà aveva lasciato segni profondi sul suo viso e le mani arrossate mostravano tagli e piaghe provocati dal freddo.
«Cosa volete sapere dalla ragazza?» domandò sgarbatamente.
«Io sono … »
«So chi siete» la interruppe. «Siete la marchesa venuta da chissà dove» proseguì con palese disprezzo.
«È buono questo infuso» tergiversò Ariel, vincendo il desiderio di risponderle a tono.
«Non è il tè a cui siete abituata» replicò, ma nella sua voce c’era un granello di compiacimento.
«Quando stavo in Italia, la moglie del nostro fattore raccoglieva le erbe e ne faceva infusi e pomate medicamentose. Ne ho portate un po’ quando siamo venuti qui. Ho un unguento che guarisce le ferite causate dal gelo; sono molto dolorose» disse Ariel, indicando con un cenno del capo le mani martoriate. La donna si affrettò a nasconderle sotto lo scialle.
«Non ho bisogno della vostra carità» affermò astiosa.
Ariel posò la ciotola sulla panca e fissò la donna dritta negli occhi. «Avete detto che sapete chi sono, mi avete giudicata e condannata. Ma voi non mi conoscete affatto. Immagino abbiate le vostre buone ragioni per detestare il nostro rango, ma io non vi ho fatto nulla di male!»
«Questo lo dite voi!» disse digrignando i denti.
«Non capisco … » Ariel era confusa.
«Quel maledetto vestito! Helly aveva indosso il vostro vestito quando i pescatori l’hanno trovata. Al villaggio hanno cominciato a mormorare che l’aveva rubato e che stava scappando quando è scivolata in mare. Mia figlia non era una ladra!» Singhiozzi silenziosi scuotevano il povero corpo emaciato.
«Siete sua madre!» sussurrò Ariel allibita. La donna annuì. «Nessuno al villaggio voleva più avere a che fare con noi» proseguì tra i singhiozzi. «Mio marito ha dovuto imbarcarsi su una nave perché i pescatori non lo volevano sulle loro barche. Non so se lo rivedrò.»
«E Harriette?»
«Quella strega di Miss Middleton l’ha cacciata.»
«E ora dove si trova?»
«Da qualche parte, non lo so.»
«Voi di cosa vivete?»
«Raccolgo le erbe e qualche avanzo di pesce che i pescatori lasciano sulla riva, quando i gabbiani non arrivano prima di me, e qualche uovo che trovo nei nidi.»
Anche se non aveva colpa, Ariel si sentiva responsabile delle condizioni della povera donna.
«Raccogliete le vostre cose; da questo momento siete al mio servizio» disse. «Vi occuperete di mio figlio insieme alla bambinaia. Avrete una stanza per voi oltre ai pasti e a qualche moneta per le vostre necessità.» La donna la fissava frastornata.
«Allora, cosa aspettate?» la sollecitò. Quindi si rivolse ad Eusebio: «Occupatevi del focolare e assicuratevi che le braci siano spente. Aiutatela a radunare le sue cose; voglio essere a casa prima del ritorno del marchese.» ‘Avrò un bel po’ di spiegazioni da dargli, e non sarà per nulla facile’ pensò.
La donna si affrettò a mettere insieme le sue povere cose in un fagotto; per ultimo infilò al collo una cordicella intrecciata alla quale era appeso un ciondolo.
«Dove l’avete preso?» chiese Ariel. Non riusciva a distogliere lo sguardo dal ninnolo ed era impallidita.
«L’ha trovato Harriette sul pavimento della stanza dov’era andata a cercare Helly. È un semplice ricamo in una cornicetta di legno. Harriette ha pensato che qualcuno l’avesse regalato a Helly. A lei piacevano le volpi. Guardate che musetto furbo ha questo volpacchiotto» disse, accostando il ciondolo al suo viso per permetterle di osservarlo meglio.
La donna si chiuse la porta alle spalle e con essa un pezzo della sua vita.
Il vento si era un po’ acquietato e la marea stava salendo. Spruzzi d’acqua pungevano il viso come piccoli aghi. Si avvolsero strette nei loro mantelli e si avviarono lungo il sentiero. Il cane, zoppicando li seguiva a distanza. Eusebio aveva raccolto un sasso e stava per lanciarlo contro l’animale. «Vattene! Va via!» gridò.
«Fermo!» gli intimò Ariel. Quindi si rivolse alla donna: «È vostro il cane?» le chiese.
«È il cane di Helly. Era rimasto impigliato in una rete e stava annegando e lei lo ha salvato» spiegò.
«Il cane viene a casa con noi» dichiarò. «Valentino ha sempre desiderato un cane.»
Lanciò un’occhiataccia a Eusebio che aveva ancora la pietra in mano. La lasciò cadere ai suoi piedi e, mortificato, a testa china, seguì le due donne.
Anche Manfredi e Simone stavano tornando a casa dopo aver lasciato Oliver con il padre. Non avevano ottenuto che vaghe informazioni da Alvin. Si era mostrato cortese, ma le risposte alle loro domande erano state fuligginose come la nebbia che era salita dal mare. Manfredi era di pessimo umore. L’uomo aveva ammesso di aver conosciuto il conte Valentino e che il capitano della nave era un amico comune. Sul fantomatico milord nemmeno una parola. La loro spedizione si era rivelata un fallimento.
Simone ridacchiò. Manfredi lo guardò contrariato.
«Perdonatemi, marchese. Stavo ripensando a quando cavalcavo con Matteo e il conte Valentino. Cantavamo delle canzoncine … avete capito.»
«Vi manca molto il conte, vero?» Simone trasse un profondo sospiro.
«Manca molto anche a me» confessò.
«Avrei dovuto essere con lui quel giorno; ma lui aveva mandato me e Matteo a fare provviste. Che idiota! Dovevo immaginare che si era inventato quello stupido pretesto per tenerci lontano.»
«Non angustiatevi» lo rincuorò Manfredi. «Valentino non voleva mettere a repentaglio le vostre vite. Come avete detto, ha inventato un pretesto per allontanare il pericolo dalle persone a cui voleva bene.»
«E ci ha lasciato in eredità questa casa» proseguì Simone.
«Voleva che aveste un posto dove rifugiarvi nel caso che il pericolo si fosse ripresentato. Qui eravate al sicuro, ma la nostra venuta ha cambiato le cose. Ho pensato molto agli avvenimenti accaduti dopo il nostro arrivo. Ariel non vede l’ora di tornare a casa, le farei un bel regalo di Natale se l’accontentassi, non credete?» chiese.
«Indubbiamente ne sarebbe felice, ma, se posso parlarvi apertamente credo non sia prudente tornare in Italia, almeno finché non scopriamo qualcosa di più. E poi, come dire, qui siete invisibili, e possiamo proteggervi perché non avete contatti con persone che non conosciamo. So che vi sembra di essere prigionieri, ma non c’è altro modo, rassegnatevi» concluse categorico.
«Simone, non pensate che sia un ingrato; vi sono profondamente grato per ciò che state facendo per me e la mia famiglia.»
« Marchese, voi, Ariel, cioè la marchesa, e il piccolo siete le persone che amo di più.»
«Avete dimenticato Matteo» gli ricordò Manfredi.
«Lui è come un fratello, proprio come lo eravate voi e il conte. Posso farvi una domanda?»
«Simone, voi potete sempre chiedermi qualunque cosa.»
«Cosa pensate del reverendo Patrick?»
«Mi è antipatico» rispose Manfredi d’impulso. «È un uomo colto, un buon oratore, ma è infingardo. La sua umiltà è solo apparente; in realtà è un borioso saccente. Ariel ha parlato con la sorella che le ha confidato che la maltratta.»
«Sono d’accordo con voi. E poi, se una persona così istruita e intelligente è finita in un posto come questo deve averne combinata una grossa!» commentò.
«Non è stato lui a mettersi nei guai, ma la sorella. Non posso dirvi altro.»
«Capisco. Quando arrivò qui era un pesce fuor d’acqua. Ricordo la sua prima funzione; c’era tutto il villaggio perché tutti erano curiosi di vedere il nuovo pastore. Fece un sermone che non finiva più, pieno di paroloni difficili e citazioni delle Sacre Scritture. Alla funzione successiva non c’era più nessuno.»
«Il suo gregge l’aveva abbandonato. Se ne lagnò la prima volta che andammo alla canonica. Ne era dispiaciuto.»
«Permettetemi di contraddirvi; secondo me, gli dispiace solo di non ricevere offerte adeguate.»
Manfredi rise; la cavalcata in compagnia dell’amico lo aveva rinfrancato nel corpo e il suo malumore era scomparso.
«Guardate!» disse Simone, indicando le tre figure che risalivano il sentiero. «Eusebio deve aver accompagnato la marchesa al villaggio. C’è una donna con loro e anche un cane.»
Manfredi fermò il cavallo. «Aspettate!» ordinò a Simone. I lineamenti contratti del viso rivelavano un forte disappunto. «Diamo loro il tempo di arrivare a casa. Sono curioso di sentire cosa mi racconterà Ariel.» Ancora una volta aveva trasgredito ai suoi ordini.
Lo sciabordio delle onde e le grida dei gabbiani in lontananza tennero loro compagnia.
La notizia che il reverendo aveva preso una solenne ubriacatura in una bettola del porto aveva fatto il giro del villaggio più veloce di una bufera. Matteo era impaziente di raccontare ciò che era successo e, quando vide arrivare Simone e il marchese andò loro incontro.
«Perché non avete accompagnato la marchesa al villaggio?» lo aggredì, raggelando la sua eccitazione. «Avevo data precisa disposizione che uscisse solo accompagnata da voi o da Simone!»
Matteo rimase lì, inebetito, a fissare il viso alterato del marchese.
«Non adiratevi con lui!» disse Ariel, attraversando il cortile. Manfredi scese da cavallo e le andò incontro. Matteo afferrò le redini e, preceduto dal compagno, si defilò verso le stalle. «Tira aria di tempesta» pronosticò Simone, dando una pacca sulla spalla all’amico.
Ariel seguì il marito nello studio. «Ho urgenza di parlarvi» gli aveva detto. Lui l’aveva guardata cupo. Manfredi possedeva un’indole gentile e pacata, ma diventava un animale feroce, silenzioso e terribile, se si sentiva minacciato o ingannato. Ariel si sedette, lui misurava a grandi passi il perimetro della stanza. Il pavimento scricchiolava sotto i suoi stivali.
«Parlate, dunque» la invitò.
«Se avete la compiacenza di sedervi … »
«Non ho la compiacenza di sedermi» la schernì, fermandosi davanti a lei, imponente, con le braccia incrociate sul petto e le gambe leggermente divaricate.
«Come desiderate» lo assecondò Ariel. Si alzò e si avviò verso la porta.
«Dove credete di andare?»
«Verrò a parlarvi quando sarete tornato in voi.»
Manfredi la raggiunse e le bloccò la mano sulla maniglia. Ariel si irrigidì; averlo così vicino, sentire l’afrore della sua pelle dopo la lunga cavalcata, la faceva sentire fragile e insicura. Ma mai lo avrebbe ammesso; per cui sostenne il suo sguardo senza la minima esitazione.
«Tornate a sedervi» le ordinò. Ariel, docilmente, tornò sui suoi passi e Manfredi si accomodò sulla sua poltrona. In silenzio ascoltò il suo racconto; quindi si ritirò nella sua stanza; desiderava togliersi di dosso gli abiti impolverati e puzzolenti e immergersi nella tinozza che premurosamente Ariel aveva fatto approntare. L’acqua calda avrebbe contribuito a rilassare i muscoli doloranti e a migliorare il suo umore.
Ariel si recò in cucina dove trovò Maeve e la donna che chiacchieravano amabilmente nel loro incomprensibile dialetto sedute accanto al camino. Un buon profumo di verdure cotte impregnava la stanza. Vedendola, Maeve e la donna accennarono ad alzarsi, ma Ariel con una gesto della mano, le invitò a restare dov’erano. Prese uno sgabello e si sedette con loro. Notò con soddisfazione che la donna si era lavata e aveva raccolto i capelli in una treccia avvolta intorno al capo, sotto una cuffietta lisa ma pulita e indossava un abito prestatole sicuramente da Maeve. Dalla tasca estrasse un vasetto, lo aprì. Il profumo pungente dell’unguento pizzicava le narici. Prese una mano della donna e vi spalmò il medicamento. Per il dolore improvviso le sfuggì un lamento. «Brucia un poco, ma poi ne trarrete giovamento» le spiegò. Ripeté il trattamento all’altra mano, le fasciò, raccomandandole di non toccare la fasciatura fino al mattino successivo. Consegnò a Maeve un sacchettino di erbe, spiegandole di farne un infuso che avrebbe lenito il dolore. Maeve annuì; aveva capito. Ariel si alzò e si rivolse alla donna. «Non conosco ancora il vostro nome» disse.
«Shana» rispose con un filo di voce. La poveretta non era ancora persuasa di essere trattata con tanto riguardo da una marchesa.
« Riguardatevi» la salutò.
«Che Dio vi benedica» rispose con le lacrime agli occhi. Ma Ariel era già lontana.
Il vento era calato e la nebbia si era trasformata in una pioggerella gelata. Nella loro alcova Ariel e Manfredi giacevano silenziosi. Lei stava pensando al modo di alleggerire l’atmosfera, ma non le veniva in mente niente che non facesse altro che peggiorarla. Manfredi non l’aveva rimproverata, ma si era chiuso in uno di quei suoi silenzi ostinati. Lo sentiva lontano, e questa sensazione le pesava come un macigno. Lui, dal canto suo, stava lottando contro il desiderio di stringerla tra le braccia, affondare le dita nei suoi capelli, assaporare il suo profumo. Strinse i pugni sotto le coperte. Se solo l’avesse sfiorata con una carezza, la barriera che aveva eretto tra loro si sarebbe sgretolata. Mantenersi saldo nel suo proposito gli sarebbe costata una notte insonne. I pensieri avrebbero invaso la sua mente come stormi di gabbiani urlanti in cerca di un posto dove posarsi. C’erano tanti posti su cui avrebbero potuto fermarsi, ma nessuno di questi avrebbe offerto un appiglio sicuro contro l’ignoto.
Aveva la bocca chiusa da un bavaglio e le mani legate dietro la schiena. Percepiva l’odore acidulo della marcita, udiva il risucchio quando il muschio bagnato lasciava la presa sul suo piede. Una fredda umidità saliva dal basso fino alle ginocchia. Era intrappolato in un acquitrino. Gattonando, riuscì a raggiungere il sentiero, ma la terra cominciò a ondeggiare. Le ginocchia cedettero e crollò a terra con un grido.
Si svegliò di soprassalto; il respiro mozzato. Ariel lo stava scuotendo con gli occhi colmi d’ansia. Manfredi si aggrappò a lei come un naufrago a un ramo. Sentiva le lacrime di lei scivolargli sulle spalle.
«Perdonatemi» mormorò, asciugandole il viso.
«Mi avete spaventata; vi agitavate e poi avete urlato.»
«È stato solo un brutto sogno» la rassicurò
«È colpa mia. Vi ho fatto arrabbiare»
«È vero, mi avete fatto preoccupare, ma non è colpa vostra.»
«Vi prometto … » Manfredi le posò un dito sulle labbra. «Non fate una promessa che non potete mantenere. Siete uno spirito libero. Io non voglio tarparvi le ali, ma dopo quanto è successo a quella povera ragazza sono tormentato dal timore che possa accadervi qualcosa di male.»
Ariel si strinse a lui, lì si sentiva al sicuro. Al contrario, la mente di Manfredi era piena di domande senza risposte che gli toglievano la tranquillità e il sonno. Riuscì ad assopirsi solo alle prime luci dell’alba, ma fu come brancolare nella nebbia in mezzo alle ombre del passato.
Anche Ariel trascorse una notte agitata. Il pensiero del ciondolo la tormentava. Shana le aveva detto la verità? Il suo istinto le diceva che poteva fidarsi di lei ma, come sovente le ricordava Manfredi, tendeva a concedere la propria benevolenza con facilità. Quanto le mancavano i saggi consigli di sua cognata; Letizia possedeva un’indole pacata e riflessiva. Era tornata ad essere una donna forte e determinata dopo che Manfredi e il conte Valentino l’avevano sottratta all’influenza diabolica della sua dama di compagnia, amante e complice dei traffici illeciti del marito, che, sempre che fosse ancora viva, stava scontando la pena nelle regie galere. I fantasmi del passato le tennero compagnia fino al mattino. Udì Maeve che era entrata a riaccendere il fuoco e i rumori familiari e rassicuranti della casa che si stava risvegliando. Sebbene avesse trascorso una notte agitata, si sentiva pronta ad affrontare le sfide che il nuovo giorno le avrebbe riservato. Scese in cucina dove trovò Shana; si era tolta le fasce dalle mani e stava aiutando Maeva a tagliare le verdure. La guardò irritata. «Non è lavoro per voi. Venite, vi faccio conoscere il bambino. Indossate questi» disse, porgendole un paio di guanti.
Valentino accolse la madre con la sua consueta rumorosa esuberanza, ma lanciò un’occhiata diffidente alla donna che l’accompagnava. Ariel lo fece sedere sulle sue ginocchia e gli spiegò che Shana si sarebbe occupata di lui insieme a Doretta. Il bambino non parve apprezzare il cambiamento e mise il broncio; ma, come sovente accadeva, il suo umore cambiò all’improvviso. La sua attenzione si era concentrata sul ciondolo che la donna portava al collo. Allungò la manina, ma Ariel lo ritrasse bruscamente, provocando una serie di strilli contrariati. Shana sfilò il ciondolo dalla cordicella che teneva al collo e lo depositò nelle manine del bambino che smise di strepitare e sorrise al musetto del volpacchiotto. Scese dalle ginocchia della madre, prese la donna per mano e la condusse verso il tappeto dove erano radunati i suoi giochi. Ariel rimase ad osservarli compiaciuta. Ancora una volta il suo istinto non l’aveva tradita; Shana era la persona giusta per il compito che le aveva assegnato.
Doretta se ne stava in un angolo imbronciata. Ariel le si avvicinò. «Shana vi aiuterà nella cura del bambino» disse. «Sarà vostro compito insegnarle le regole della casa e assicurarvi che vengano rispettate. Se dovessero sorgere problemi, venite a riferirmelo immediatamente, prima che si incancreniscano. Mi fido di voi.»
Il viso della ragazza si rasserenò un poco. «Avrete più tempo libero da dedicare a voi» proseguì Ariel. «Usatelo con discernimento» la ammonì. Doretta arrossì violentemente. «Un’ultima raccomandazione; trattate Shana con gentilezza e astenetevi da giudizi avventati e inopportuni. Ha perduto le sue figlie e ha molto sofferto. Siate paziente e comprensiva con lei come lo siete con Valentino. Lui vi vuole molto bene, Doretta, e non abbiate timore, nessuno prenderà il vostro posto nel suo cuoricino.»
Come ogni mattina Matteo era arrivato nella stalla prima dell’alba. Il calore dell’ambiente lo avvolse in un abbraccio profumato di paglia. Quello che scricchiolava sotto i suoi zoccoli era il suo spicchio di mondo che gli donava ogni giorno la piacevole sensazione di appartenenza. Accese la lanterna; nell’alone di luce gli animali iniziarono ad agitarsi. Si levò qualche timido nitrito. Prese il tridente e inforcò una balla di fieno da distribuire nei recinti. Davanti a quello dove alloggiava la cavallina che solitamente cavalcava Ariel si fermò. In fondo, appoggiato al muro, avvolto in una coperta, qualcuno stava dormendo. Lo pungolò con il tridente, e l’uomo si svegliò con un sussulto.
«Ah, siete voi» disse Matteo, riconoscendolo. «Che ci fate qui? Avete bevuto troppo e vi siete addormentato nella stalla?» ‘ Il serio e morigerato Alfonso tanto ubriaco da non riuscire ad arrivare al suo alloggio’ pensò.
L’uomo si stiracchiò; ignorando Matteo, rivolse la sua attenzione alla cavallina. Le sfasciò il garretto; l’odore dell’infezione ammorbò l’aria. Alfonso prese dell’acqua e ripulì le piaghe, vi spalmò l’unguento e rifasciò la zampa con bende pulite.
«È un bene che l’infezione sia scoppiata; se si fosse propagata nel sangue avremmo dovuto sopprimere l’animale. Ieri sera, quando sono venuto a controllare che tutto fosse a posto, aveva la febbre, per questo ho passato la notte qui.» Raccolse la coperta e si avviò all’uscita, seguito dallo sguardo dubbioso di Matteo. Trascorsero pochi minuti e Simone fece il suo ingresso. Matteo non perse tempo; e iniziò a raccontargli quello che era successo. Simone lo ascoltava senza prestargli troppa attenzione finché Matteo disse che Alfonso aveva passato la notte nella stalla. Gettò a terra il rastrello con cui stava radunando la paglia e corse fuori, lasciando l’amico interdetto. Per poco non travolse Eusebio che stava arrivando dall’abbeveratoio, trascinando due pesanti secchi. Attraversò il cortile e si precipitò in casa. Bussò alla porta dello studio di Manfredi con una tale violenza che il pavimento tremò.
«Quale catastrofe si è abbattuta su di noi?» domandò il marchese, ben conoscendo la tendenza dell’uomo a ingigantire i fatti.»
Simone lo fissò con palese disappunto.
«Sedete» lo invitò. «E raccontatemi.»
«Non voglio sedermi» ribatté l’uomo irritato.
«Allora state in piedi, ma, vi prego, calmatevi. Siete paonazzo e tremate; onestamente mi pare abbiate proprio bisogno di sedervi.»
Simone si passò una mano tra i radi capelli e si risolse a seguire il consiglio del marchese. Si lasciò cadere pesantemente su una sedia. «Alfonso è un bugiardo» affermò sbrigativo.
Manfredi lo fissò con i suoi profondi occhi viola. «Ne avete le prove?» chiese con tono autorevole.
«Sicuramente,» rispose Simone. «Non ho mai accusato nessuno senza averne.» Riprese fiato. «Ha detto a Matteo di aver passato la notte nella stalla ,invece è uscito a cavallo. Ero andato alle latrine e l’ho visto con i miei occhi.»
Manfredi allargò le braccia. «Alfonso, come tutti voi, terminato il lavoro è libero di andare dove gli aggrada.»
«Voi non capite!» La voce di Simone si era alzata di un tono. Manfredi lo guardò severo.
«Perdonate» si scusò. «Non mi fido di quell’uomo. Non parla con nessuno di noi, compare e scompare come uno spirito, si chiude per ore nel suo alloggio e nessuno sa cosa fa là dentro.»
Manfredi provò a placare l’ansia del vecchio soldato che avrebbe protetto lui e la sua famiglia a costo della vita.
«Simone, la vostra lealtà mi commuove. Alfonso non vi è mai piaciuto e anch’io ho dei dubbi, ma la verità è che non ho alcun motivo di lagnarmi; svolge bene le sue mansioni, non si ubriaca, non è litigioso.»
Simone dovette ammettere a malincuore che il marchese aveva ragione. Eppure c’era qualcosa di sfuggente in quell’uomo che lo allarmava.
Qualcuno bussò alla porta, proprio quando Simone aveva già una mano sulla maniglia. Manfredi gli fece cenno di aprirla. ‘Quando si parla del diavolo’ pensò.
«Marchese, ho urgenza di parlare alla marchesa» esordì. Alfonso, senza giri di parole, aveva esposto la sua richiesta. Per quanto rispettosa, era priva dell’umiltà che si confà ad uno stalliere. Suonava piuttosto come un ordine.
«In questo momento la marchesa è impegnata in altre mansioni. Posso chiedervi perché tanta urgenza?»
«Riguarda la cavallina. Ha di nuovo la febbre. La marchesa ha delle erbe curative che potrebbero essere utili.»
Manfredi si rivolse a Simone che era rimasto sulla soglia. «Abbiate la cortesia di andare a cercare la marchesa e ditele di venire subito qui.» Simone uscì e anche Alfonso accennò a congedarsi, ma Manfredi lo trattenne. «Aspettate, devo parlarvi.»
Ariel stava mostrando a Shana la disposizione della casa, quando Simone le riferì il messaggio del marito. «Tornate da Doretta» disse, rivolta alla donna. «Lei vi istruirà sui vostri compiti.» E seguì Simone nello studio.
«Volevate vedermi?» domandò con tono seducente. Poi, accortasi della presenza di Alfonso, cambiò atteggiamento. Lui le rivolse un rispettoso inchino.
«Alfonso mi ha chiesto se avete delle erbe curative contro le infezioni» le riferì Manfredi.
«Sì,» confermò Ariel. «Chi si è fatto male?»
«La cavallina» rispose. «Si è ferita a un garretto e le piaghe si sono infettate causandole la febbre. Alfonso l’ha medicata, ma l’unguento non è bastato a contrastare l’infezione.» Quindi si rivolse allo stalliere. «Come può essersi procurata quelle ferite? È da molto tempo che non viene cavalcata.»
Ariel si irrigidì, i suoi occhi erano colmi di apprensione.
«È giovane e a volte è irrequieta. Può essersi ferita contro il cancello del recinto. Anche una piccola scheggia di legno può fare un grande danno» affermò Alfonso.
Ariel si rilassò. «Vado a prendere le erbe che vi occorrono» disse. «E vi mostrerò come preparare un impiastro da applicare sulla ferita.»
Alfonso si congedò, non prima di averle rivolto di nascosto un’occhiata complice. Lui sapeva della sua cavalcata segreta, ma non l’aveva tradita.
«Come sta la nuova arrivata?» chiese Manfredi quando restarono soli.
«Bene» rispose. «Valentino l’ha accettata di buon grado. Doretta un po’ meno. Ha manifestato i sintomi di una subitanea gelosia nei suoi confronti. Ho dovuto rassicurarla circa il suo ruolo. Le ho anche prospettato la possibilità di concederle maggior tempo da dedicare a se stessa, raccomandandole di usarlo con probità.»
Manfredi proruppe in una sonora risata. «Parlate come una vecchia zitella acida» la canzonò.
Ariel lo incenerì con lo sguardo; quindi si voltò e, impettita, lasciò la stanza. Dentro di sé rideva a crepapelle.
Il Fuoco
Patrick si ritirò nella sua stanza. Si sentiva ancora un po’ stordito, ma la calda bevanda l’aveva rianimato. Il foglio su cui aveva scritto il sermone era sul tavolo in bella vista. Controllò che i pezzetti di legno sotto la gamba del tavolo fossero al loro posto. Non c’erano più, ma il tavolo era stranamente stabile. Rachel aveva portato via il mucchio di abiti puzzolenti e aveva fatto entrare aria pulita nella stanza. Ma un nuovo olezzo gli assalì le narici. Era odore di terra bagnata e di selvatico. Un’allucinazione olfattiva.
Il terreno saliva e scendeva dolcemente.; qui e là piccoli sentieri si insinuavano sotto gli alberi. Le foglie filtravano i raggi del sole pomeridiano disegnando giochi di luce sul paesaggio bucolico.
Poi il terreno si fece più irregolare, pieno di cumuli di terra e collinette erbose. Il sole era basso e proiettava lunghe ombre sul prato. Era seduto sotto una vecchia quercia e appoggiava la schiena contro il tronco. Si trattava di un albero antico, segnato dal tempo e dalle intemperie. Uno dei rami era più lungo degli altri, come se puntasse qualcosa in lontananza, una specie di avvertimento. O di accusa.
Ormai dovevano essersi accorti della loro fuga. Doveva tenersi lontano dalla strada; quasi certamente li stavano attendendo nascosti da qualche parte, per ucciderli. Il suo compagno era un tipo acuto e intelligente e conosceva bene il territorio. Era stato lui a organizzare la fuga. Erano arrivati insieme fino al laghetto e lì si erano separati. C’era un grande salice piangente sulla riva; i suoi rami arrivavano fino a terra, come tende di un letto. Una cappella segreta, il luogo adatto per nascondersi, per sfuggire al resto del mondo.
«Patrick» una voce lo stava chiamando, ma non era quella del suo compagno. Arrivava da lontano, attraverso la nebbia boffice della sua mente. Riuscì a mettere a fuoco la figura che gli stava davanti.
«Rachel» disse, rivolgendole un sorriso ebete.
«La vostra cena è sul fuoco» lo informò. Io vado alla chiesa.»
Lui annuì, ancora confuso tra sogno e realtà.
Rachel si sedette all’organo; gli spartiti sgualciti dall’uso erano aperti sul leggio, ma lei li ignorò. Chiuse gli occhi e fece scorrere le dita sulla tastiera. L’ansia dell’attesa la stava divorando. Non sentiva nulla, non pensava a nulla. Alzò la testa e aprì gli occhi. Lui era lì, davanti a lei. Non l’aveva sentito entrare.
«Continuate a suonare» la esortò.
Ma lei lo fissava immobile, gli occhi dilatati dal terrore. Un sorriso diabolico era stampato sul viso di suo fratello.
«Siete più stupida di quanto immaginassi» disse. «Credevate non mi fossi accorto delle erbe che avete messo nel mio tè?» proruppe in una risata sguaiata e terrificante. «Vi racconto una storia.» I suoi occhi iniettati di sangue erano vicinissimi al suo viso. Il suo alito puzzava di alcool. «Ma prima dovete dirmi chi vi ha dato quelle erbe.»
Paralizzata dalla paura Rachel non riusciva a muovere un muscolo.
«Chi vi ha dato quelle erbe?» ripeté scandendo ogni parola.
Da un angolo recondito della sua mente le arrivò, come un messaggio divino, il ricordo di Ariel che parlava di erbe per combattere l’emicrania.
«La marchesa» rispose con voce flebile.
Il manrovescio la colse impreparata.
«Bugiarda!» urlò Patrick. La afferrò per i capelli e le fece sbattere la faccia contro la tastiera. Un vortice di suoni esplose nella stanza. Le sollevò rudemente il capo; un rivoletto di sangue le colava dal naso; ne sentiva il calore e il sapore salato sulle labbra. Lui lasciò la presa. La vista del sangue lo agghiacciava.
«Bugiarda» ripeté. «Bugiarda e stupida! Io so chi ve le ha date. Dov’è lui?» urlò. Le stringeva le mani attorno al collo e Rachel annaspava, bramando aria.
«Dov’è?»
«Sono qui.»
Confuso, Patrick abbandonò la presa e si voltò. Non si accorse del pugnale che era volato contro il suo petto. Lo guardò incredulo. Una macchia rossa si stava allargando sulla sua camicia bianca. La toccò, ma, inorridito, subito ritrasse le dita appiccicose. Non provava dolore; solo un gran caldo si stava diffondendo per tutto il corpo, mentre una cortina di nebbia si stava addensando davanti agli occhi. Crollò a terra.
Rachel lanciò un urlo. Tutto era accaduto così in fretta che non riusciva a capacitarsene. Lui le andò vicino e la prese per mano.
«Dobbiamo andare via, presto, venite!» Ma Rachel non si mosse, fissava il corpo del fratello incredula; nella testa il fragore delle onde che si infrangono sulla battigia.
La pozza di sangue si stava allargando sul pavimento. Alla luce della lampada aveva assunto un color marrone scuro ed emanava un odore metallico. Trascinata da lui, scavalcò il corpo del fratello e uscirono nella notte. La fece sedere su una pietra quindi raccolse della sterpaglia e la radunò davanti alla porta. Dal corsetto estrasse una bottiglietta e ne versò sopra il contenuto. Emise un breve fischio. Un rumore di zoccoli ruppe il silenzio della notte e dall’oscurità emerse un cavallo dalle cui narici uscivano nuvole di vapore. Una visione infernale che quasi le fece perdere i sensi. Lui la sollevò e la posizionò sulla sella, quindi salì dietro di lei e agguantò le redini. Il cavallo scartò di un passo, poi voltò verso il sentiero da dove era venuto. Lui lanciò la lanterna sul mucchio di sterpi e la notte si illuminò.
Giunti alla canonica smontò e l’aiutò a scendere. Tra le sue braccia svenne. La prese in braccio e dopo aver aperto la porta con una spallata, la adagiò su una sedia. Prese dell’acqua da un catino e gliela spruzzò sul viso. Dopo un tempo che gli parve infinito, rinvenne.
«Brava, aprite gli occhi» la esortò. Lei gli rivolse uno sguardo vacuo.
«L’avete ucciso» mormorò. Non era una domanda e nemmeno un’accusa.
«Stava per uccidere voi» rispose.
Rachel si voltò verso la finestra. Il fuoco alimentato dal vento si stava sviluppando. Poteva sentire l’odore acre del fumo che si sprigionava dalle sterpaglie.
«Le fiamme dell’inferno» sussurrò. Non riusciva a distoglierne lo sguardo.
Lui la prese per le braccia e la scosse finché non ebbe la sua attenzione. «Guardatemi!» le ordinò. «Andate in camera vostra e mettetevi a letto. Presto le fiamme saranno così alte da illuminare tutto il villaggio e tutti accorreranno qui. Voi dovete farvi trovare a letto. Direte che stavate dormendo e non vi siete accorta di quanto stava accadendo. Avete compreso ciò che vi ho detto?» Lei lo fissava senza vederlo.
«Avete capito?» insistette. Lei annuì.
«Ora andate e fate come vi ho detto»
«Non lasciatemi!» implorò. Ma lui era già scomparso nella notte.
Alfonso smontò da cavallo e corse verso la chiesa. Era rimasto nascosto poco lontano finché non aveva visto andar via Rachel e il misterioso cavaliere. Patrick non era con loro. Vide l’uomo lanciare la lanterna e il fuoco divampare davanti al portone. Le fiamme non avrebbero impiegato molto tempo a ridurre in cenere la piccola costruzione. Doveva fare in fretta, se, come dubitava, Patrick era all’interno. Un muro di fuoco ostruiva l’ingresso; il calore era insopportabile e il fumo mozzava il respiro. Corse sul retro; ricordava di aver visto una porticina nascosta tra i rampicanti. Il chiavistello arrugginito oppose poca resistenza e Alfonso riuscì ad aprirla facilmente. La chiesa era già invasa dal fumo e le prime fiamme stavano azzannando le travi del soffitto. Il corpo del reverendo era disteso vicino all’organo. Aveva un pugnale conficcato nel petto. Con uno sforzo enorme lo trascinò fuori e lo depositò sul terreno ghiacciato. Piegato sulle ginocchia tossì e liberò i polmoni dal fumo. Aveva il petto in fiamme e le forze lo stavano abbandonando; dovette ricorrere a tutta la sua forza di volontà per non perdere i sensi. Non era più un giovanotto e certi sforzi che anni prima avrebbe sopportato con leggerezza, ora lo sfinivano.
Con un boato spaventoso il tetto della chiesa cedette alla morsa del fuoco. L’avevano scampata per un pelo e adesso dovevano allontanarsi in fretta. I pescatori a quell’ora erano in mare ma avrebbero visto le fiamme e sarebbero tornati sulla terra ferma.
Il reverendo era ancora vivo, ma privo di conoscenza. Aveva perso molto sangue a giudicare dalla profondità della ferita. Se lo caricò su una spalla e tornò indietro lungo la siepe. Non aveva intenzione di passarci in mezzo: era troppo fitta. Doveva trovare un altro modo di superarla. Lo trovò nel punto in cui la siepe faceva angolo e costeggiava un basso muricciolo. Non fu difficile scavalcarlo. Caricò il corpo sul cavallo. Sapeva dove portarlo.
Quell’ala della casa era disabitata da molti anni, nessuno avrebbe cercato il reverendo in quel posto. In cima alle scale c’era una porta; un odore nauseabondo proveniva da lì. Era senza fiato quando finalmente lo depose su un pagliericcio improvvisato. Un rumore improvviso, frusciante, lo fece sobbalzare. Topi. Scarafaggi. Spostò la luce della torcia verso il pavimento ed ebbe conferma dei suoi sospetti. Era disseminato di piccole feci. Sentiva puntati su di sé molteplici occhietti che lo osservavano dai loro nascondigli. Non c’era tempo da perdere; la ferita aveva ricominciato a sanguinare. Si levò la camicia e la ridusse in strisce per farne delle bende. Estrasse il pugnale. Quando versò sulla ferita del liquore per disinfettarla, il reverendo sussultò, ma non riprese i sensi. Non poteva fare altro per il momento. Doveva rientrare nel suo alloggio. Inavvertitamente urtò con il braccio una trave sporgente. Ebbe appena il tempo di scansarsi per non farsi travolgere da pezzi di legno, polvere e ragnatele.
Nel cortile c’era un gran trambusto; tutti correvano verso la chiesa in fiamme. Per non suscitare sospetti si unì a loro. Una luna argentata era sorta a est. Il vento aveva spazzato via le nubi; il cielo era terso e le stelle luminose.
Manfredi si era unito agli uomini e Ariel, sola nell’intimità della loro alcova, lasciò che i suoi pensieri tornassero al ricordo di un altro incendio.
Da pochi giorni era ospite al palazzo di Manfredi; allora lui pensava che lei fosse un giovane musico. Suo fratello era appena stato ucciso e in casa l’atmosfera era opprimente, cupa. Si era ritirata nella sua stanza quando il suo gufo Puck aveva attirato la sua attenzione sbattendo le ali contro la finestra. Ricordò la paura che aveva provato vedendo il fumo uscire da quella finestra nell’ala più lontana della casa. Aveva corso per i corridoi, al buio, avendo come unico punto di riferimento l’odore del fumo sempre più acre. Aveva pregato che in quella stanza non dormisse Manfredi e che la porta non fosse sprangata. Entrambe le sue preghiere erano state esaudite. Era entrata e aveva versato sulle tende accartocciate dal fuoco un catino di acqua. Che sollievo aveva provato quando aveva scoperto che l’uomo addormentato non era il marchese ma il suo amico il conte Valentino. Quella notte il conte aveva scoperto il suo segreto, ma non l’aveva tradita. Sorrise ricordando l’espressione del suo viso quando scoprì che era una donna. Quanto le mancava il conte; e quanto le mancava il suo inseparabile amico Puck che una mano sciagurata aveva ucciso. E quanto le mancavano la sua famiglia e Letizia e le bambine.
Abbracciò il cuscino e si abbandonò a un pianto silenzioso. Si domandò sgomenta cosa le riservasse il futuro. Quel momento di debolezza, comunque, non durò a lungo, non era nella sua natura perdere tempo a commiserarsi. Scese in cucina, lì sicuramente avrebbe raccolto notizie di quanto era successo alla chiesa. Per quanto gli inglesi fossero riservati, non disdegnavano i pettegolezzi. Ma vi trovò solo Maeve. Oliver fece irruzione nella stanza e andò a sedersi in un angolo accanto al focolare imbronciato. Maeve gli si avvicinò premurosa, ma Oliver la respinse. Ariel lo fissò torva; non ammetteva un tale riprovevole comportamento.
«Chiedete immediatamente scusa a vostra madre» ordinò. Il ragazzo arrossì, ma rimase ostinatamente muto. Ariel, davanti a lui, batteva ritmicamente la punta del piede sul pavimento.
Oliver resistette ancora per poco, quindi si avvicinò alla madre e pronunciò poche parole nel suo dialetto. Ma il suo umore non cambiò.
«Perché siete così ombroso?» gli domandò Ariel.
Oliver le rivolse un’occhiata di traverso; anche se era la marchesa, l’aveva trattato come un bambino stizzoso e quell’umiliazione gli bruciava. Si chiuse in un ostinato silenzio.
«Se non volete rispondermi è affar vostro» replicò Ariel con noncuranza.
In quel momento fecero il loro ingresso Simone e Matteo seguiti da Manfredi. I loro abiti impregnati dall’umidità della notte e dal fumo emanavano un odore acre; i loro volti e le mani erano sporchi di fuliggine. Maeve portò dell’acqua che loro bevvero avidamente.
«La chiesa è completamente bruciata»disse Simone asciugandosi la bocca con la mano.
«Rachel e il reverendo?» domandò Ariel
I tre uomini si scambiarono un’occhiata. Fu Manfredi a parlare. «Rachel era in canonica. Stava dormendo quando è scoppiato l’incendio.»
«E il reverendo?» insistette Ariel.
«Lui non l’abbiamo trovato, ma tra le macerie abbiamo trovato una bottiglia di liquore e il lembo di un mantello bruciacchiato» spiegò.
Ariel si portò una mano sulla bocca e Maeve emise un lugubre gemito. Non fu necessario aggiungere altro.
«Oliver era molto arrabbiato» disse Ariel al marito quando, poco dopo, si ritirarono nella loro stanza. « Mi chiedo cosa gli stia succedendo. Fino a poco tempo fa’ era un ragazzo allegro e docile. Ora è ombroso, taciturno, arrabbiato con tutti.»
Manfredi le sorrise da dietro il telo con cui si stava asciugando. «È un adolescente.»
«Ah» rispose Ariel, non del tutto convinta dell’affermazione del marito che attribuiva il cambiamento di carattere al naturale periodo di transizione che il ragazzo stava attraversando. Manfredi gettò in un angolo il telo sporco. «Avete dimenticato come eravate voi alla sua età? Non è poi trascorso così tanto tempo» la stuzzicò.
«Certo che mi ricordo» rispose risentita.
«Credo di sapere perché Oliver era tanto arrabbiato» proseguì Manfredi. «Era insieme a noi quando siamo andati alla chiesa, ma quando Alfonso l’ha visto l’ha preso da parte. Hanno discusso per qualche minuto poi Oliver, a testa bassa, è tornato a casa Si è sentito umiliato; essere considerato un bambino alla sua età è un affronto; da uno stalliere poi è anche peggio.»
«Avrebbe potuto ignorarlo, invece gli ha ubbidito» gli fece notare Ariel.
«Ve l’ho detto, è ancora un ragazzino e non possiede un’indole ribelle come qualcuno di mia conoscenza.»
Ariel lo fulminò con lo sguardo. «A volte siete … siete … » Non riuscì a trovare l’aggettivo adatto perché Manfredi le chiuse la bocca con un bacio.
«Puzzate ancora come uno spazzacamino» si lagnò.
Ma i suoi occhi brillavano seducenti.
«Mi fareste la cortesia di accompagnare la nuova arrivata nel mio studio?» le chiese mentre, qualche ora dopo, si stava vestendo.
«Come desiderate» rispose Ariel, allacciandosi il corpetto. Vado subito ad avvisarla.
Per presentarsi al cospetto del marchese, Maeve le aveva prestato il suo abito buono e una cuffietta inamidata. Al collo, l’inseparabile cordicella con appeso il ciondolo. La donna era molto agitata; tra le mani ancora protette dai guanti, stropicciava compulsiva un incolpevole fazzoletto. Ariel fece del suo meglio per tranquillizzarla, peraltro senza riuscirci. Mentre attraversavano il cortile incontrarono Alfonso che rivolse loro un rispettoso inchino.
«Alfonso, lei è Shana, la nuova istitutrice di Valentino. Aiuterà Doretta.» Alfonso prese la mano della donna e la portò alle labbra. Shana , confusa, accennò un inchino. Vedendo il ciondolo, per una frazione di secondo gli occhi di Alfonso palesarono meraviglia. Il suo sconcerto durò solo un attimo, ma non sfuggì a Ariel.
Mentre le attendeva nello studio, i pensieri di Manfredi correvano agli avvenimenti appena accaduti. Il reverendo era morto nell’incendio. Aveva visto Rachel di sfuggita. Era comprensibilmente sconvolta. Col tempo avrebbe dimenticato; il ricordo lentamente avrebbe cominciato a sbiadire e quei momenti di straziante dolore le sarebbero tornati in mente meno spesso e, forse, un giorno, sarebbero spariti del tutto.
Ariel bussò discretamente alla porta, distogliendolo dalle sue meditazioni.
«Accomodatevi» disse, indicando loro due poltroncine accanto al camino. Se fosse stata seduta su un cuscino di spine, Shana si sarebbe sentita più a suo agio. Manfredi si sedette di fronte a lei; le rivolse alcune cortesi domande sulle sue condizioni di salute e le porse le condoglianze per la tragica morte della figlia. Non accennò al ciondolo. L’aveva notato, ma non aveva battuto ciglio. Solo Ariel aveva notato che il viola dei suoi occhi era diventato più intenso. Le rivolse ancora qualche generica domanda e la congedò.
«Faccio portare il tè» propose Ariel.
Manfredi andò alla scrivania e da un cassetto estrasse un sacchettino. Lo aprì e fece scivolare tra le dita un ciondolo. Ariel osservava in silenzio le emozioni che si rincorrevano sul suo viso. Si avvicinò. Senza distogliere lo sguardo dal ninnolo, Manfredi iniziò a parlare. Non si rivolgeva ad Ariel, ma dava voce ai sentimenti che albergavano nel suo cuore. «Trascorrevo i mesi estivi alla Residenza insieme a mia madre e a mio fratello. Talvolta Jacopo si univa a noi. Passavamo le giornate a giocare; Jacopo inventava delle storie e le rappresentava con le marionette nel suo sgangherato teatrino. Mia madre sedeva in giardino a ricamare o, se il tempo non permetta di stare all’aperto, ci radunava nel salotto della musica, sedeva al clavicembalo e suonava per noi. Un giorno, stavamo passeggiando nel parco, ricordo che mio fratello era arrabbiato perché la mamma l’aveva costretto a tradurre un difficile brano di latino. Tancredi odiava il latino; per la verità detestava tutto ciò che non era caccia o scherma.»
‘Gioco d’azzardo, truffe e donne di dubbia moralità’ pensò Ariel.
«Camminava davanti a noi, scalciando le foglie con i piedi e lanciando tutto quello che gli capitava a tiro, rami, sassi. Nostra madre lo osservava contrariata; cercò comunque di mantenere una parvenza di serenità, per non rovinare la passeggiata, ma la sua frustrazione era tangibile. Era già ammalata e si stancava facilmente; la calma del pomeriggio aveva un effetto calmante sui suoi nervi, ma la calura umida non era salutare per i suoi polmoni già seriamente compromessi. Ci sedemmo presso la fontana.
«Quella dove Tancredi vi fece cadere?» lo interruppe Ariel. Manfredi annuì.
«Poco lontano, sotto un salice piangente vidi delle violette. Ne feci un mazzolino e gliele donai. Mi disse: “Queste violette ti assomigliano, sono timide, tenere, discrete, ma tenaci.” Quel Natale, il suo ultimo Natale, mi regalò questo» disse, mostrandole il ciondolo. «L’aveva ricamato durante i lunghi pomeriggi autunnali, quando la malattia la costringeva a trascorrere lunghe ore su una poltrona o a letto. Ne ricamò uno anche per Tancredi; il muso di una volpe. Solo Jacopo e Valentino erano a conoscenza dei due ciondoli. E voi.»
«Shana mi ha detto che la figlia lo ha trovato nella stanza dove la sorella mi ha aiutata a cambiarmi d’abito la sera del ricevimento dagli Aubery. Non era un oggetto di valore e lo portò a casa. Mi ha confidato che alla figlia morta piacevano le volpi e ha pensato che qualcuno glielo avesse regalato.»
Ariel dubitava che il marito avesse udito una sola parola; il suo sguardo era perso nel vuoto, la sua mente rincorreva altri pensieri. Poco dopo ne ebbe la conferma.
«Devo parlare con Simone» disse. Andò verso la porta e per poco non si scontrò con Maeve che stava portando il tè.
«Aspettate, vengo con voi.»
«No.» Era un ordine.
Delusa, si versò una tazza di tè. Ne bevve un paio di sorsi ma per quanto si sforzasse non riusciva ad apprezzare il gusto aromatico della bevanda. Dio quanto le mancava il sapore dolce del latte delle sue montagne! Non trovando niente da fare in attesa del ritorno del marito, decise di andare dal figlio. Dopo tanti giorni di pioggia e di nebbia un timido sole stava lottando con le nubi minacciose. Ne avrebbe approfittato per portarlo a fare una breve passeggiata.
Alfonso
Alfonso approfittò della pausa per il pranzo per andare dal reverendo. La sua assenza non avrebbe destato sospetti; sovente consumava il suo pasto nella sua stanza o nella stalla. Salì le scale, il legno dei gradini ricoperto di polvere e di sporcizia depositati da anni, cigolò sotto i suoi piedi. Aprì la porticina. Alla luce del giorno le condizioni della stanza si rivelarono in tutta la sua repellenza. Si avvicinò al pagliericcio. Il reverendo aveva gli occhi chiusi, ma il suo respiro era regolare. Aveva perso molto sangue ma il pugnale non aveva toccato organi vitali. Aprì gli occhi. «Dove sono?» domandò.
«Dovreste essere all’inferno» rispose Alfonso, inumidendogli le labbra screpolate con una pezzuola.« Ma per vostra fortuna il vostro aggressore non aveva una buona mira.»
La debolezza gli appannava la vista e non riusciva a distinguere la figura che si affaccendava intorno a lui. Durante la notte, nel delirio della febbre, aveva fatto un sogno.
Era notte e camminava lungo uno stagno. Un sottile strato di ghiaccio ricopriva le acque limacciose. Una donna stava in piedi in mezzo all’acquitrino. Non ne vedeva il volto ma una forza sconosciuta lo spingeva verso di lei. Un passo, e li ghiaccio si era spezzato. Lui era precipitato nei neri e freddi abissi.
Si era svegliato urlando, o almeno così credeva. Il petto gli bruciava e tutto il corpo era coperto da una patina di sudore gelato e acre. Ora, la sua mente sconvolta gli stava giocando un altro scherzo; gli pareva di riconoscere la voce, ma era una voce che apparteneva al passato. A un’altra vita.
“Capitano?” mormorò tra sé. Alfonso tornò da lui. «Bevete» lo esortò, sollevandogli il capo. «Avete ingoiato parecchio fumo. Il vostro degno compare, perché sono certo che di lui si tratta, voleva farvi arrostire.» Patrick strabuzzò gli occhi. «Proprio così» proseguì. «Vi ha accoltellato e poi ha appiccato il fuoco alla chiesa. Voleva essere sicuro che andaste a trovare Belzebù. Per fortuna ero nei dintorni e vi ho tirato fuori.»
«Rachel?» chiese affannato.
«È andata via con lui» rispose Alfonso. Aveva portato delle bende pulite; medicò e fasciò nuovamente la ferita. «Per la gente del villaggio siete morto nell’incendio. Resterete nascosto qui.» Raccolse le bende usate e le mise in un sacco. «Tornerò più tardi a vedere come state.» Uscendo, tirò il chiavistello. “La prudenza non è mai troppa” pensò.
Rachel trasalì. Si voltò verso di lui; la fronte umida di sudore e lo sguardo febbricitante. Tremava.
«L’avete ucciso» sussurrò. Nella sua voce non c’era rancore, solo una vaga tristezza.
L’aveva portata via nella notte quando tutti gli abitanti accorsi a spegnere l’incendio erano tornati a casa. Dell’incendio era rimasto solo l’odore acre del fumo. Ora, nella grotta fredda e buia erano soli. Sul pavimento c’era una candela spenta. Lui misurava a grandi passi l’angusto spazio, sovrastandola con la sua statura imponente.
«Vi ho resa una donna libera, non siete contenta?» disse. «Grazie a me avete avuto la vostra vendetta. Ora dovete aiutarmi a compiere la mia vendetta.»
Rachel scosse il capo. «Non posso» rispose con un filo di voce. Lui venne assalito da un brivido maligno. Un bolo acido gli serrò la gola. Le afferrò le braccia e la scosse violentemente. «Io voglio la mia vendetta e voi mi aiuterete!» Rachel alzò gli occhi sul suo viso. Non ne riconobbe i lineamenti sconvolti dalla collera. Non era più l’uomo che aveva detto di amarla, colui che le aveva promesso che l’avrebbe portata via con sé per iniziare una nuova vita. L’uomo nel quale aveva riposto tutte le sue speranze. Ma la speranza non ha logica. Era tra le braccia di uno sconosciuto, violento e iroso, peggiore anche del fratello. Iniziò a singhiozzare. «Non posso» ripeté. «La marchesa è mia amica e il bambino è così piccolo! Io gli voglio molto bene.»
Lui cambiò tattica; inconsapevolmente gli aveva indicato la giusta direzione per raggiungere il suo scopo. La strinse a sé e le prese il viso tra le mani. «Rachel» la chiamò con voce melliflua. «Non vi piacerebbe avere il bambino tutto per voi? Vostro fratello vi ha impedito di crescere nostro figlio e avete sofferto tanto. Ora, se mi aiuterete, potrete crescere quel bambino. Avete detto che gli volete bene; sareste un’ottima madre.» Tacque. Attese che le sue parole si sedimentassero nella sua mente.
«Cosa devo fare?» domandò Rachel.
Lui le sorrise; aveva trovato un’alleata. La sua vendetta si sarebbe compiuta. E sarebbe stata terribile.
Valentino, avvolto nella pesante mantella di lana, correva davanti ad Ariel lungo il sentiero. Dopo giorni di forzata reclusione si godeva quei momenti di libertà. Sembrava un folletto dei boschi. Con la sua vocina acuta riempiva il silenzio con i suoi infiniti perché. Ariel lo assecondava pazientemente. Era cresciuto il suo piccolo principe; parlava correttamente l’inglese e biascicava qualche parola di gaelico. Mangiava senza rovesciarsi addosso il cibo e anche se con Doretta si comportava da piccolo despota, i suoi erano i tipici capricci di un bambino di quattro anni. Lo guardò mentre inseguiva le cornacchie. «Cra, cra, cra!» gridava. «Cra, cra … Rachel!» Ariel, confusa, lo vide correre incontro alla donna che stava venendo verso di loro. Era apparsa sul sentiero all’improvviso. Secondo gli ordini che lui le aveva impartito, avrebbe dovuto prendere in braccio il bambino e fuggire. Lui si sarebbe occupato della marchesa.
Ma quando Valentino la raggiunse, lei non lo prese in braccio; lasciò che le abbracciasse le gambe e gli accarezzò la testolina, dando tempo ad Ariel di raggiungerli. Doveva fare molta attenzione perché non sapeva dove lui fosse; le aveva detto che l’avrebbe aspettata alla grotta, ma era pressoché certa che le aveva mentito e che fosse nascosto da qualche parte. Quando la raggiunse, Ariel l’abbracciò. «Che orribile tragedia!» disse, prendendole le mani tra le sue.
«Schiaffeggiatemi e gettatemi a terra» le sussurrò all’orecchio Rachel. «Prendete Valentino e correte a casa. Subito!»
«Ma che dite!» Ariel non riusciva a raccapezzarsi.
«Fatelo! Voi e il bambino siete in pericolo! Andatevene, presto!» Non aveva mai sentito tanta determinazione nella sua voce. Allontanò da lei il bambino, la schiaffeggiò e, sotto i suoi occhi sgranati, la spinse con violenza a terra. Prese in braccio il figlio e corse a perdifiato.
Manfredi trovò Simone nella stalla. Stava insegnando a Eusebio a rattoppare gli stivali. Vedendo il marchese, si alzò e gli andò incontro. Il suo signore era agitato, impaurito e molto stanco. Glielo leggeva nei tratti tirati del volto. «Devo parlarvi, allontaniamoci» gli disse. Simone lo seguì in cortile. In breve gli riferì quanto gli aveva raccontato Ariel. «Vostro fratello avrà dato il ciondolo a qualcuno.» ‘Se fosse stato di valore se lo sarebbe giocato in qualche salotto. Al contrario di voi, a lui non importava niente di quel ciondolo.’ pensò. Manfredi rimase in silenzio, pensieroso. «L’unica persona a cui avrebbe potuto darlo è … »
« … suo figlio. Ma Maurizio è rinchiuso al forte di Fenestrelle» concluse Simone.
Manfredi si passò la mano sulla fronte. Un nodo inestricabile di tensione nervosa si era scavato una tana al centro della sua schiena e la testa gli pulsava furiosamente dietro i bulbi oculari.
Un rumore improvviso catturò la loro attenzione. Alfonso stava venendo verso di loro, seguito da Matteo con un’espressione enigmatica dipinta sul volto.
«Marchese, devo parlarvi.» L’urgenza della sua richiesta lo mise in allarme. Conosceva quella sensazione, quel momento in cui si capiva che avrebbe scoperto qualcosa di decisivo. «E voglio che siano presenti anche loro» disse, indicando Simone e Matteo.
«Andiamo nello studio»
L’aria nella stanza era soffocante; l’odore di paglia mescolato a quello di sudore gli dava la nausea e non fece che peggiorare la sua emicrania. Era seduto alla scrivania e studiava Alfonso con i suoi occhi indagatori.
«Voi, la marchesa e il bambino siete in pericolo» esordì Alfonso. «Dovete andare via.»
Posò sul piano del tavolo il pugnale che aveva estratto dal corpo del reverendo. «Lo riconoscete?» Manfredi ebbe un sussulto e scambiò un’occhiata con Simone e Matteo.
«Sembra … »
«Non sembra. È.» Alfonso indicò loro il monogramma sul manico.
«E voi come fate a saperlo?» intervenne Simone aggressivo.
«Perché ero vicino al conte Valentino quando è stato ucciso.» Nella stanza cadde un silenzio carico di tensione.
«L’avete ucciso voi!» proruppe Matteo pronto ad aggredirlo. Alfonso si scostò repentinamente; gli fece uno sgambetto che lo mandò a sbattere contro la parete. Quindi riprese con calma. «Non l’ho ucciso io; è stato vostro nipote, marchese. È stato Maurizio.»
Alfonso aveva portato allo scoperto una verità che Manfredi non riusciva ad ammettere nemmeno con se stesso, una verità che giaceva nel profondo del suo essere, dura e immangiabile come il nocciolo di una pesca.
«Voi mentite!» si intromise Simone. «Il marchesino Maurizio è confinato al forte di Fenestrelle.»
«No, non più. È fuggito insieme a un suo compagno.» Quindi si rivolse a Manfredi. «Avete visto li ciondolo che Shana porta al collo?»
«Sì, apparteneva a mio fratello Tancredi.»
«Ucciso dai sicari prezzolati da vostro nipote. C’era anche lui quella notte e in un accesso d’ira lo ha strappato dal collo del padre morto.»
«Voi come fate a sapere tutte queste cose?» domandò Manfredi. «Chi siete?»
Gli sembrava di trovarsi al centro di una tempesta; un vortice di vento che stava risucchiando nelle sue volute tutto ciò che sembrava stabile e sicuro.
«Se avrete la compiacenza di ascoltarmi, vi racconterò ogni cosa.»
«Accomodatevi» lo invitò Manfredi, indicandogli una sedia.
«In realtà sono Giovanni Battista Brunetta di Usseaux luogotenente del reggimento di stanza al forte di Fenestrelle. Conobbi il conte Valentino a un ricevimento. Mi raccontò della vostra amicizia e della tragedia che si era abbattuta sulla vostra famiglia. Non mi fu difficile collegare voi al giovane che si stava facendo notare per la sua insubordinazione. Più volte mi vidi costretto a metterlo ai ferri. E poi commisi un grave errore.» La sua voce era carica di rammarico. « Dopo l’ultima punizione, il suo comportamento mutò; diventò un’altra persona: ubbidiva agli ordini, era il primo ad offrirsi per svolgere i compiti più gravosi. Fui così presuntuoso da convincermi di essere riuscito a domare il suo spirito ribelle.»
Manfredi fece un mezzo sorriso. «Non fatevene un cruccio; mio nipote è un maestro nell’arte dell’inganno.»
«Purtroppo lo constatai a mie spese. Commisi l’errore di mandarlo in ricognizione fuori dal forte insieme a un manipolo di soldati. Fu allora che insieme a un compagno fuggì. A causa di questo increscioso incidente fui costretto a lasciare l’esercito. Tornai a occuparmi delle mie terre, ma il pensiero dei due fuggiaschi mi perseguitò per molto tempo.»
«Perché non venni informato della sua fuga?» chiese Manfredi.
«Lo scrissi al conte Valentino col quale avevo mantenuto un rapporto epistolare. Ne informò la marchesa Lucrezia, ne sono certo e mi assicurò che lei vi avrebbe messo al corrente. Passarono due o forse tre anni. Una sera un corriere mi portò una missiva del conte; aveva scoperto dove si trovavano i due fuggitivi, ma non me lo scrisse. Intuii l’urgenza di intervenire e invitai il conte a raggiungermi nella mia tenuta. Era mio ospite da qualche giorno quando ricevette una lettera. Dopo averla letta la gettò nel fuoco. Non so cosa c’era scritto, né chi l’aveva mandata, ma mi stupì che subito dopo convocò voi, Simone e Matteo, e vi ordinò di andare a … non ricordo dove. Ricordo che eravate molto riluttanti a lasciarlo.»
«E voi diceste che era sotto la vostra protezione» lo interruppe Matteo con animosità.
Alfonso lo ignorò. «Il giorno dopo, senza informare alcuno, uscì prima del sorgere del sole. Mi accorsi della sua assenza ore dopo e immediatamente radunai i miei uomini. Ma era già troppo tardi. Trovammo il suo corpo martoriato nella foresta.»
«Foste voi a dare la notizia al magistrato Jacopo Durandi?» domandò Manfredi.
«Sì, il conte l’aveva indicato come la persona da informare nel caso gli fosse successa una disgrazia» confermò l’uomo. Con un gesto della mano, il marchese lo esortò a proseguire.
«Qualche tempo dopo la sua morte, ricevetti una lettera dal magistrato nella quale mi chiedeva di incontrare vostra cognata Letizia.»
«Letizia?» ripeterono in coro.
«Sì. Fissammo un incontro presso l’abitazione del magistrato a Torino. La marchesa era visibilmente angosciata. Le avevate appena confessato di aver ricevuto delle minacce. Compresi dalle sue parole che era a conoscenza della fuga del figlio e, anche se non lo disse, era certa che le minacce nei vostri confronti erano opera sua e che fosse anche responsabile della morte del conte. Implorò il mio aiuto. Le promisi che avrei fatto tutto quanto era in mio potere. Insieme a Jacopo Durandi organizzammo un piano per sorvegliare voi e la vostra famiglia; così mi feci assumere come stalliere. Era l’unico modo per potervi proteggere.»
Nella stanza regnava il silenzio totale. Lo stupore suscitato da queste rivelazioni avevano lasciato tutti ammutoliti.
«Il ciondolo, il pugnale» rifletteva Manfredi ad alta voce. «Maurizio è qui. L’avete incontrato?» chiese ad Alfonso.
«Lui no, ma ho riconosciuto il suo compagno. E lo conoscete anche voi. Se avete la compiacenza di seguirmi, vi porterò da lui.»
Manfredi e i due amici si scambiarono un’occhiata.
«Guidateci» ordinò il marchese.
Attraversarono il cortile sul quale già si allungavano le ombre del tardo pomeriggio che oscuravano le tonalità di giallo del terreno sabbioso, tingendolo di marrone e proseguirono verso l’ala più lontana dell’edificio. Alfonso spostò un ammasso di detriti; avanzavano con cautela sulla scala pericolante. Entrarono nella stanza immersa nella penombra. Manfredi si coprì il naso e la bocca con un fazzoletto. Poteva ignorare il brulicare degli insetti e il suono dei topi che si rincorrevano, ma non poteva ignorare il fetore. Si accostarono al pagliericcio. Non era un’allucinazione; il corpo che giaceva immobile sotto una lurida coperta era il reverendo.
«È morto?» chiese Matteo.
«No,» rispose Alfonso. «Anche se, se vuole restare vivo, tutti devono credere che lo sia. Morto nell’incendio della sua chiesa.»
«E quella?» domandò Manfredi, indicando la benda sporca di sangue.
«Un tentativo malriuscito di accopparlo. Vostro nipote non è molto abile col pugnale. L’ha ferito, ma non mortalmente. L’ha abbandonato nella chiesa e poi, per non correre rischi, ha appiccato il fuoco. Ha lasciato anche una fiaschetta di liquore vuota; così tutti avrebbero pensato che si era ubriacato e aveva fatto cadere la lanterna che aveva causato l’incendio. In fondo, tutti al villaggio sapevano che solo il giorno prima si era ubriacato alla taverna del porto.»
«Ma come faceva mio nipote a conoscerlo?» chiese Manfredi che faticava a orientarsi in quel labirinto di eventi.
«Marchese, quest’uomo è reverendo come io sono uno stalliere. Lui è il compagno che fuggì con vostro nipote. L’ho riconosciuto quando accompagnai la marchesa alla canonica. Era molto cambiato dall’ultima volta che l’avevo visto, ma non ho avuto dubbio alcuno che fosse lui.»
«Ha preso mia sorella … » mormorò il reverendo, guardando Alfonso con un’espressione spaventata.
«Vostra sorella è andata con lui di sua volontà» affermò Alfonso.
«Lei … lui sono stati amanti.» Parlava con affanno e doveva interrompersi spesso per riprendere fiato. «Rachel lo ama ancora; che stupida donna!» Emise una risata rantolosa e un accesso di tosse per poco non lo soffocò. Poi riprese a parlare. «Lui la userà per portare a compimento la sua vendetta e poi la ucciderà.» Spossato, si abbandonò sul pagliericcio. Manfredi si avvicinò. «Voi conoscete le sue intenzioni!» gridò. «Parlate!» Patrick aprì gli occhi e lo guardò con un sorrisetto malvagio. «Vuole portavi via le persone che vi sono più care. Vuole che soffriate per tutto quello che gli avete fatto passare!» Ridacchiò, ma lo sforzo gli fece perdere i sensi.
«Restate con lui» disse Alfonso a Simone e a Matteo. Quindi si rivolse a Manfredi. «Vostra moglie e vostro figlio sono in grave pericolo. Non devono lasciare la casa.»
Manfredi lo seguì nel cortile, diretti alla stanza di Valentino. Si sentiva avvolto da una nebbia mefitica di inganni e di bugie.
«Aspettate!» disse, afferrando Alfonso per un braccio. «Voi sapete dove si nasconde mio nipote?»
«No, ve l’ho già detto, non lo so, purtroppo. Sono desolato.»
«E il reverendo, credete che lui lo sappia?»
«Ne dubito. Filippo, questo è il suo vero nome, è un subalterno remissivo e privo di iniziativa. Vostro nipote lo ha completamente soggiogato. Ha un carisma eccezionale vostro nipote, se solo avesse usato questa dote per una giusta causa … »
«Degno figlio di suo padre» commentò Manfredi.
«Guardate!» Alfonso attirò l’attenzione del marchese verso la donna con un bambino in braccio che stava correndo verso di loro.
«Ariel!» gridò Manfredi. Le corse incontro. La sorresse un attimo prima che crollasse a terra. Alfonso accorse in suo aiuto; le prese il bambino dalle braccia e lo portò da Doretta mentre Ariel e Manfredi andarono nello studio. Ariel si lasciò cadere su una poltrona, mentre il marito le versava un’abbondante dose di liquore. Le avvicinò il bicchiere alle labbra e la costrinse a bere. Appena il liquido le arrivò in gola, Ariel iniziò a tossire e a sputacchiare. In quel momento entrò Alfonso. Lei lo guardò corrucciata.
«State tranquilla» la rassicurò Manfredi. «Alfonso è qui per aiutarci.»
«Marchesa, cosa vi è accaduto?» chiese Alfonso.
Lei guardò il marito che annuì.
«È successa una cosa assurda. Avevo portato Valentino a fare una passeggiata … »
«Vi avevo ordinato di non allontanarvi da sola!» la interruppe Manfredi.
«Non mi ero allontanata» ribatté lei petulante. «Eravamo appena dietro casa, Valentino stava rincorrendo le cornacchie e, come dal nulla, è comparsa Rachel. Lui le è corso incontro, ma lei non lo ha preso in braccio come faceva sempre. E quando li ho raggiunti mentre mi abbracciava, mi ha praticamente ordinato di schiaffeggiarla, di gettarla a terra e di correre a casa. Ero sbalordita! La sua voce era … imperiosa e il suo sguardo … di ghiaccio»
«Vi ha salvato la vita» affermò Alfonso. «Abbiate la cortesia di andare nella stanza con vostro figlio e di non allontanarvi. Manderò Oliver a far da guardia.»
«Oliver?» replicò Manfredi. «Ma è un ragazzino!»
«Sì, ma sa cosa fare se intuisce un pericolo» replicò Alfonso, accingendosi a lasciare lo studio.
«Dove state andando?» chiese il marchese.
«Lo saprete a suo tempo» disse, e uscì.
«Volete rendermi partecipe di ciò che sta accadendo?» domandò Ariel, che nel frattempo si era ripresa.
«Vi racconterò tutto mentre andiamo da Valentino.»
Maurizio arrivò sulla sommità del promontorio spoglio, l’altezza dello strapiombo toglieva il fiato. Il dirupo terminava sugli scogli frastagliati erosi dai cavalloni che si infrangevano sulle pietre con un rumore simile al tuono.
I gabbiani sorvolavano il mare, gridando forte nel vento sferzante.
Avanzava incerto su uno stretto lastrone di roccia. Uno strato di sudore freddo gli imperlava la fronte; i polmoni sembrava fossero sul punto di esplodere. Aveva trascinato Rachel fino alla grotta; l’aveva picchiata, insultata e, accecato dalla rabbia, aveva cercato di strangolarla. Non si era accorto che lei aveva nascosto sotto l’abito una pietra tagliente e aguzza con la quale si era difesa colpendolo al viso più e più volte; gli aveva quasi cavato un occhio. Era fuggita. L’aveva rincorsa, ma il sangue che colava dalle ferite gli impediva di vedere e il dolore era insopportabile.
Sentì un ronzio nelle orecchie e una soffocante stretta al petto. Il mondo attorno a lui sembrò rimpicciolirsi. E poi scomparve inghiottito dal buio dell’oceano.
Epilogo
Sull’acqua c’era una luce violetta, irreale. Lo sguardo di Ariel era rivolto lontano, oltre la brughiera gelata, oltre la scogliera. Vagava in direzione dell’orizzonte, dove si scorgeva la prima luce dell’alba.
«Saremo a casa per Natale, come desideravate.» Manfredi , accanto a lei sulla veranda, seguiva la direzione del suo sguardo. Ariel si voltò e l’abbracciò riconoscente.
«Non potevate farmi regalo più bello.»
«Merito di Alfonso. Grazie a lui abbiamo la possibilità di imbarcarci sul mercantile che salperà tra una settimana.»
«Ho sentito dire che non partirà con noi.»
«Anche gli inglesi non sono immuni dai pettegolezzi» ironizzò Manfredi.
«Per la verità ho sentito Simone che lo diceva a Eusebio. Il ragazzo sembrava sollevato, ha sempre avuto un timore reverenziale per Alfonso.»
«È vero, Alfonso resterà qui. Me lo ha confermato lui stesso.»
«E ve ne ha spiegato il motivo?»
«Siete un po’ troppo curiosa, mia impertinente marchesa.»
Ariel scrollò le spalle, come a dire che non le importava. Manfredi assunse un’espressione grave «Alfonso resta per stare accanto a Oliver. È suo figlio, anche se il ragazzo non lo sa. Per lui Alfonso è milord e i suoi genitori Maeve e Alvin che lo hanno allevato. Alfonso resterà in disparte, ma ne seguirà ogni passo.»
«Milord!» esclamò Ariel.
«Ecco svelato anche questo mistero.»
«Cosa accadrà a Rachel e al reverendo, o chiunque lui sia?» domandò Ariel.
«Partiranno con noi. Il reverendo sarà considerato un prigioniero del capitano finché non saremo in Italia dove sarà giudicato da un tribunale militare.»
«E Rachel? Che ne sarà di lei?»
«È una valente musicista. Chiederò a Jacopo di intercedere per lei. Ha ancora molte conoscenze nell’ambiente musicale.»
Uno stormo di gabbiani si levò in cielo.
Maria Lacchio
INDICE
La partenza
Sen Ostell
St. Aubyn
Rachel e Patrick
La funzione
L’invito
Oliver
L’incontro
Ricordi
Il ciondolo
Il fuoco
Alfonso
Epilogo
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