LA SINOSSI
Il Dott. Michele Loi, aiuto primario del reparto di endocrinologia dell’ospedale “San Giuliano”, divorziato e padre di due figli, mentre effettua delle visite nel suo reparto viene chiamato al telefono dalla vecchia madre che lo prega di raggiungerla al più presto a casa per spostare un vecchio mobile. Ma quando il vecchio mobile viene spostato compare, d’improvviso, una piccola lettera azzurra, spedita tantissimi anni prima dall’America...
IL RACCONTO
- “Dottor Loi, la vogliono al telefono, è sua madre…Dice che l’ha chiamato anche al cellulare…”. - “Mio Dio! – pensò il dottor Loi - “Mia madre al cellulare? E quando mai? Lei li odia quegli aggeggi infernali…Deve essere successa una cosa grave…” – “Va bene, arrivo subito…”
disse poi a voce alta. - “Grazie, Giovanna…” –
- “Non c’è di che, dottor Loi…” E poi aggiunse: “Ah, è sulla linea due, dottore…”
- “Sì, certo…grazie ancora” – Prese il ricevitore, schiacciò il pulsante della linea due e si accorse di sudare. Di un sudore freddo, appiccicoso.
- “Mamma, sono io, Michele…cos’è successo?” -
- “Michele, scusami, ma domani arriva quella…la polacca, come si chiama?…E chi se lo ricorda più…lo sai no?”
- “Sì, certo, Margherita…ed è rumena, non polacca…” -
- “Ah, una rumena…Non lo conosce il papa, allora?”
- “Il papa?...quale papa?...
- “Ma se lo fa il segno della croce, almeno?...
- “Sì, mamma, certo che se lo fa…Ma perché mi hai chiamato? Dimmi…Ho delle visite da fare…”.- Sua madre, la signora Teresa, aveva già superato gli ottantasei anni e soffriva anche di aterosclerosi e da quando era rimasta vedova viveva in un mondo tutto suo, fatto di presente e di passato e dunque di ricordi in chiaroscuro. Ora, però, aveva proprio bisogno di qualcuno che badasse a lei e così Michele, di comune accordo con i suoi fratelli, Filippo e Angela, aveva deciso di fare arrivare dalla Romania una “badante”.
- “Michele, devi venire oggi pomeriggio, ci devi aiutare a spostare quel vecchio comò…E’ importante, dobbiamo fare un po’ di spazio…Verrai, allora? Ci sarà anche Angela”. -
- “Sì, certo, verso le cinque, va bene?”
- “Grazie, grazie, Michele, ti aspetto…Hai detto alle quattro, vero?”
- “No, mamma, ho detto alle cinque. Alle cinque sarò da te.”
°° °° °°
Michele fu puntualissimo. Come sempre. Alle cinque in punto era già dietro la porta di casa della madre. Poteva aprire con la sua chiave, ma preferì suonare il campanello due volte. Come sempre.
- “Michele, finalmente….E’ da un’ora che ti aspettiamo, io e tua sorella…” -
- “Mamma, ti ho detto ieri che sarei venuto alle cinque e sono appena le cinque…” -
- “Ma non avevi detto alle quattro, eh?” -
- “No, mamma, alle cinque…Alle cinque! Oh, sant’Iddio” -
Angela, la sorella, apparve dietro la madre. “Ciao, Michele…” E gli diede un bacio. Poi all’orecchio gli sussurrò: “Lasciala stare, lo sai com’é…” -
- “Sì, lo so com’é…Certo che lo so, com’é...” -
- “Come stanno i bambini? Li hai visti?” -
- “No, quella lì non me li fa vedere…E’ la solita storia. E se ne vuole andare, adesso…”
- “Dove?”
- “A Roma, da sua sorella...dice che le ha offerto un lavoro, ma è solo una scusa per non farmi vedere più i miei figli...” -
- “Béh, lo spostiamo questo comò? Si sta facendo tardi…” – fece la signora Teresa, con aria scocciata.
- “Sì, mamma, lo spostiamo, certo che lo spostiamo…”- Disse Angela, alzando gli occhi al cielo.
- “Forse dovevamo chiamare anche a Filippo, vero Michele? E’ così pesante questo mobile ed è anche così vecchio…” – disse lamentosamente la signora Teresa.
- “Mamma, Filippo non sta bene, lo sai…si è appena operato...” -
- “Ah, già, non ci pensavo…povero figlio mio!…Sempre con il suo diabete…Perché non si cura come si deve? Ah, che testa dura…”.
- “Mamma, Filippo soffre di cuore, e il diabete c’entra poco, ormai…”
Angela per tagliare corto fà:- “Michele, lo vogliamo spostare questo comò?”
- “Certo, certo, andiamo…” - E vanno tutti verso la camera della madre.
- “Ecco, ecco, mettiamolo qui il comò, e qui metteremo il lettino per la signorina, che ne dite?”
- “Sì, sì, va bene, come vuoi tu”. E, aiutato dalla sorella, Michele spostò il vecchio comò che cigolò e scricchiolò , ma alla fine si mosse e fu a quel punto che apparve la lettera, anzi prima sbucò fuori una vecchia busta giallastra impolverata e piena di timbri, dove però era possibile leggere, sia pure a malapena: “POSTE ITALIANE”.
- “E questa che cos’è?” - Raccolse da terra la grossa busta gialla, la aprì e lì ci trovò un altra busta assai più piccola di colore azzurrino, di quelle che si usavano per la posta aerea.
- “Una vecchia lettera, guarda, arriva da New York…” – disse Michele alla sorella.
- “E a chi è indirizzata? A noi?... – fece incuriosita Angela che quasi gliela voleva strappare di mano quella piccola, innocente e innocua lettera.
- “Aspetta…stai buona…Fammi leggere…No, non è indirizzata a noi, ma ad un certo Alfredo… Alfredo Giuffrida…
- “Alfredo Giuffrida? E chi è?...Ma, Michele, guarda: l’indirizzo è lo stesso di dove abitava papà da ragazzo, insomma...è la casa dei nonni…”
- “... allora era un vicino di casa di papà...magari un suo amico d’infanzia...è ovvio...”.
- “ Ma buttatela via, quella lettera...che la guardate a fare? E’ solo una vecchia lettera, buttatela via!...- blaterò Teresa, con il viso pallido e le mani che le tremavano – buttatela via!...
Michele la fulminò con un’occhiataccia e la madre si acquietò, sempre tremando.
Teresa ebbe ancora un brivido nelle mani, guardò di sfuggita il figlio poi girò lo sguardo da un altra parte, sempre più pallida.
° ° °
Via del Rosario, era quella la strada che doveva cercare, si trovava proprio vicino all’ospedale, ed era una strada lunghissima e stretta, trafficatissima, una gasbah quasi, dove lui malvolentieri andava e solo se ne era costretto. Come in questa occasione. Qui gli scippi, le risse, erano all’ordine del giorno. No, oggi non era più posto per lui. C’era stato tante volte da bambino, ma ormai il degrado, la disperazione avevano vinto su tutto. Cercò il civico 19/b ed era proprio dove se lo immaginava: in un vecchio e antico cortile, con le case tutte ad un piano e i tetti di tegole rosse, consunte dal tempo e preda delle erbacce e dei rovi. E anche il cortile sembrava abbandonato e gli usci erano tutti serrati e consunti, come le tegole. Alcuni erano addirittura sbarrate da due assi di legno incrociate, altri erano murati con grossi mattoni di cemento. Come il 19/b. Ma chi abitava in quel cortile? Notò in un angolo un grigio lenzuolo che penzolava da una corda e sembrava un fantasma che tristemente aleggiava in quel cortile abbandonato.
- “A chi cerca lei? Che vuole?...” – Il dottor Loi trasalì. Chi aveva parlato? A chi apparteneva quella voce, così stridula e petulante?
“La voce” si materializzò da dietro il lenzuolo e apparteneva ad una donna grassa e bassa, che pareva anche lei un fantasma, per via di un enorme pigiamone, che una volta doveva essere bianco e gli arrivava fino ai piedi. - “Che vuole? A chi cerca?” - ripetè, con lo stesso tono di prima.
- “Qui non c’è più nessuno, nessuno...” –
Giuffrida...” – E le mostrò la piccola lettera, che pareva tremasse nella sua mano, come fosse una cosa viva, forse a causa di un venticello leggero che in quel momento si era impadronito del cortile.
° ° ° ° °
L’impiegato dell’anagrafe era un vecchio amico di Michele e si davano del tu, anche se ormai si vedevano assai di rado. “Allora, che vuoi sapere? Che ti serve? “ disse rapido, perché aveva un pò di fretta e si avvicinava l’ora di chiusura.
Michele glielo disse e l’impiegato consultò prima il computer, poi si diresse verso un enorme armadio di metallo pieno di vecchie scartoffie, tirò fuori un enorme fascicolo giallastro e impolverato lo consultò, poi ritornò al computer, battè veloce sulla tastiera, guardò più volte il video un pò perplesso, poi si decise, stampò un foglio e glielo consegnò. – “Grazie.” – disse Michele e voleva dire anche qualche altra cosa, ma l’impiegato gli strinse la mano e lo congedò con un sorriso tirato. Aveva fretta e doveva chiudere.
° ° ° ° °
Via Geraci era dall’altra parte della città in una zona popolare e il civico 27 era una vecchia palazzina di soli tre piani, con l’intonaco vecchio e scolorito appena ravvivato dai colori vivaci della biancheria stesa ad asciugare sui balconi.
Era lì che abitava Luisa Parini, l’unica erede di Alfredo Giuffrida. La sua unica nipote.
Professione insegnante, non risultava coniugata, ma aveva a carico un bambino di appena due anni che portava il suo cognome e di nome faceva Alfredo.
Si decise a citofonare, anche perché si rese conto che la sua presenza destava curiosità e apprensione agli abitanti del palazzo. Aveva indugiato troppo.
- “ Sì, chi è?” – fece una graziosa voce di donna, dal tono un pò nasale, forse a causa del citofono che produceva piccole scariche. –
- “ Buongiorno, signora...sono il dottor Loi, e ho una lettera da consegnarle...una lettera per...”
- “Come, scusi?... Sa, non la sento bene, qui c’è il bambino che mi piange...” – E infatti dal citofono arrivavano gli urli di un bambino che disturbavano non poco la conversazione, già difficile di per sè.
- “Ma c’è da firmare?...” – E intanto gli urli del bambino aumentavano a dismisura.
E piuttosto stanco era pure il dottor Loi dopo che aveva fatto tutti quegli scalini, quasi di corsa, senza nemmeno sapere perché.
Ma la stanchezza gli svanì di colpo, come per magia, quando la porta si aprì e apparve Luisa, con il piccolo Alfredo in braccio che ora aveva smesso di piangere e aveva le piccole gote rosse e lucide. Luisa aveva gli occhi azzurrissimi e i riccioli biondi, proprio come il piccolo Alfredo che lo guardava stupito e sembra deciso a ricominciare a piangere. Era un pò pallida ed eterea, ma la sua presenza era forte e a Michele mancò quasi il respiro e per un attimo, che gli sembrò lunghissimo, si sentì senza forze, senza volontà.
E rimase affatato, sperduto, in quello sguardo magnifico di donna.
E voleva bussare, farsi riaprire, per spiegare perché, per chiedere perché quella porta era stata chiusa così, gelidamente, implacabilmente, come si può chiudere la saracinesca di un negozio quando è arrivata l’ora della chiusura. Ma che diritto aveva lui di farlo? E poi quel pianto, quelle urla, sempre più violente, sembrava lo scacciassero e gli dicessero:- “Vai, vai...devi andare... devi andare!....non sei bene accetto qui...non ti vogliamo!...non ti vogliamo!...
° ° ° ° ° ° °
Giovanna, la sua caposala, con il suo solito tono, gentile e professionale.
Ma la telefonata era solo una scusa. La verità era che quel ricordo, il ricordo di quel giorno, di quel viso, di quella porta che si chiudeva, lo tormentava sempre di più e lo spossava.
Aveva bisogno perciò di riprendersi, di ritornare in sè, di cercare di scacciare quel ricordo, di riportarlo in fondo, di ricacciarlo nelle pietose nebbie dell’oblio...
Erano passati già tre mesi e non l’aveva più rivista. Ma ogni giorno il tormento si faceva sempre più forte e insostenibile e non si leniva nemmeno quando riceveva la telefonata dei figli che si trovavano a Roma, anche loro da tre mesi, ed erano la sua unica ragione di vita.
E si faceva sempre più forte l’odio e il risentimento verso suo padre, che non aveva saputo fare il suo dovere, e non aveva mai consegnato quella lettera, quella maledetta piccola lettera, leggiadra e azzurrina che era arrivata da oltre oceano e poi era finita, miseramente, dietro ad un vecchio mobile.
Così da tre mesi non era più andato al cimitero e le visite alla madre si facevano sempre più rare, perché si vergognava dei suoi sentimenti e del suo comportamento.
- “Dottor Loi, ma la telefonata non la fa più?” – le domandò la sempre gentilissima signora
Giovanna, scrutandolo da dietro i suoi eleganti occhiali da vista.
- “No, no…andiamo, si è fatto tardi. La farò dopo”.
- “No, è spento...” – E aggiunse subito, per tagliare corto: “Siamo in un ospedale, no?”
E si avviarono nel lungo corridoio appena ridipinto di un bianco avorio e illuminato a giorno dalle luci al neon. Decisero di cominciare dal reparto donne e così presero l’ascensore e salirono al terzo piano. Prima porta a sinistra. ”Terzo piano....prima porta a sinistra”...
“Terzo piano...prima porta a sinistra...”. Ah, quella voce, ancora quella voce! E poi quella porta, che si apriva e si chiudeva, sempre quella porta! Quella porta!...
Entrarono nel reparto. Fu allora che la vide e il cuore gli schizzò in gola. Luisa Parini era lì. Era proprio lì. Ma che ci faceva in quel letto d’ospedale, con i suoi riccioli biondi un po’ in disordine e con quel suo sguardo disperato, perso nel vuoto? Ah, lo sapeva il motivo della sua disperazione: il bambino, il bambino dov’era adesso? Dove aveva lasciato il piccolo Alfredo?
A chi lo aveva affidato? E chi lo avrebbe consolato, se avesse pianto?
Il quadro ematico non mi convince...Dobbiamo avere uno screening completo al più presto... Mi faccia parlare subito con il professor Lo Presti...”
- “No, Luigi…l’oncologo...”
- “Sì?...” – Luisa lo guardò, con quegli occhi azzurrissimi e disperati, ma parve non riconoscerlo.
- “Io sono il dottor Loi, Michele Loi...Si ricorda? Le consegnai una lettera, tre mesi fa...”
- “Ah, sì, la lettera...Ma era indirizzata a mio nonno...Non l’ho nemmeno aperta...Mio nonno è morto tanto tempo fa...in una miniera, in Belgio...sepolto vivo...io non l’ho mai conosciuto e neanche mia madre era ancora nata...Ma ora è morta anche lei...sono tutti morti e anch’io morirò, lo so, lo so...” –
°° ° ° ° ° °°
I sospetti del dottor Loi erano fondati. Luisa Parini aveva un cancro, maligno, alla cervice dell’utero. Altro che nodulo alla tiroide. Per fortuna era al primo stadio, ma bisognava operare subito. Senza perdere altro tempo. Doveva essere immediatamente trasferita nel reparto del professore Lo Presti, al Policlinico, dunque lontano da lì, ma non si poteva fare altrimenti. Il distacco gli procurava una sensazione di dolore e di sconfitta, insieme.
°°°°°°°°°
L’intervento fu eseguito dal professor Lo Presti con la solita professionalità e competenza e per Luisa Parini iniziò la lunga e dolorosa trafila della convalescenza, della chemioterapia, dei controlli, continui e improrogabili. Michele Loi la seguiva come poteva, con la massina discrezione possibile, aiutato in ciò dalla fedele Giovanna che non tralasciava mai di metterlo al corrente delle novità e dei progressi della bellissima paziente che aveva turbato e non poco la già traballante esistenza del suo giovane vice-primario.
Ma poi, d’improvviso, di Luisa Parini, non se ne seppe più nulla. “E’ andata in Belgio da una sua vecchia zia” – gli disse la signora Giovanna, con un tono triste, ben sapendo quale dolore gli provocava quella notizia - “Continuerà le cure lì, ma chissà se tornerà mai più...”
Così passarono altri mesi e il tormento di quel ricordo era sempre vivo e sempre più forte e non accennava ad attenuarsi. Si attenuava invece l’astio nei confronti del padre. Ormai la lettera era stata consegnata e, magari, era servita a salvare una vita. Perché lo aveva odiato così tanto e così ingiustamente? Chiese mentalmente perdono al padre e si promise di andare al più presto al cimitero per portargli un grosso mazzo di fiori e inginocchiarsi sulla sua tomba.
Il suo cellulare squillò, imperioso. Era Angela, sua sorella. - “Michele, devi venire dalla mamma...non si sente bene...vieni, ti aspetto, c’è anche Filippo...”
° ° ° ° ° ° °
Sua madre era a letto e respirava a fatica. Quando vide Michele, tentò di sollevarsi un poco ma il gesto le costò ancora più affanno e le procurò alcuni colpi di tosse.
Michele le andò subito vicino per sostenerla e tastarle il polso, ma Teresa gli scostò la mano, con un gesto nervoso.
E poi...Graziella...io lo so che cosa voleva per davvero...lo so...Ahh...che Dio mi perdoni, che Dio mi perdoni se ho sbagliato...”.- Ora l’affanno era sempre più forte e i colpi di tosse più frequenti.
° ° ° ° ° ° °
Michele pensò subito a sua madre, ma la signora Teresa, ormai, non era più tra i vivi.
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16.4.2008 Piero Juvara
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