La pioggia continuava a cadere senza tregua, furiosa, sospinta dalle violente folate di vento che facevano sbandare l’auto. Nella cinerea luce del pomeriggio serrò le mani attorno al volante; losanghe d’acqua scorrevano sul vetro, riducendo notevolmente la visibilità. ‘… vai nel Paese del sole’ gli avevano detto i colleghi, quando aveva annunciato che avrebbe trascorso le vacanze di Natale in Sicilia. ‘… lì piove sì e no una settimana all’anno … ’ “Che fortuna! Sta a vedere che mi sono beccato proprio quella settimana!” pensò. Ma, in fondo, che cosa poteva aspettarsi? Gli ultimi sei mesi erano stati, per dirla con un eufemismo, complicati. La sua vita si era ribaltata, il destino l’aveva seduto a forza su un vagoncino delle montagne russe; una discesa vertiginosa, una risalita, un giro della morte e un breve rettilineo, una fermata sospeso nel vuoto per pochi secondi e poi di nuovo giù di corsa … verso dove? Se lo chiese per l’ennesima volta “verso dove” lì, nel claustrofobico abitacolo di quell’auto presa a noleggio, sotto la pioggia battente, su una strada sconosciuta.
I tergicristalli oscillavano sul parabrezza spostando rumorosamente l’acqua dal vetro, gli pneumatici fischiavano sull’asfalto bagnato. La strada saliva su per la collina e poi ridiscendeva a valle. Tra la foschia e la pioggia non riusciva a scorgere alcun insediamento umano. I fari illuminarono una piazzola. Si fermò. Era stanco e gli facevano male gli occhi a furia di fissare la strada. Approfittò della sosta per telefonare al B&B dove aveva prenotato per informarli del ritardo. Niente male come primo giorno di ferie. Spense il motore e prese il cellulare. “E ti pareva!” sbottò, gettando l’apparecchio sul sedile accanto. Non c’era campo. Sbuffando, premette il pulsante dell’accensione automatica, ma il motore rimase muto. Riprovò; stesso risultato. “Non è possibile, questo è un incubo!” sbraitò, battendo le mani sul volante. Consultò l’orologio e il display lo informò che erano le sedici e tre minuti. Avrebbe dovuto già essere arrivato a destinazione da almeno un paio d’ore. Invece era lì, bloccato in un’auto in panne sotto una pioggia torrenziale. Avvilito e, con il passare dei minuti sempre più inquieto, analizzò la propria situazione; arrabbiarsi non avrebbe cambiato le cose, vi si sarebbe adeguato. Abbassò lo schienale del sedile, si distese e chiuse gli occhi. Un sonnellino lo avrebbe rinfrancato sicuramente e chissà, nel frattempo la pioggia sarebbe cessata, e allora avrebbe pensato al da farsi.
Si svegliò tutto indolenzito, con la testa che gli pulsava all’impazzata e la gola in fiamme. Qualcuno stava bussando al finestrino.
«Oh santo cielo!» esclamò, raddrizzandosi a fatica. Due grandi occhi scuri circospetti, quasi spaventati, lo scrutavano al di là del vetro.
«Signore, ehi signore! Vi sentite bene, signore?»
«Sì, sì, sto bene» rispose sgarbato. Aveva smesso di piovere e un timido raggio di sole rifletteva perle di luce sulle gocce d’acqua del vetro. Consultò l’orologio; le diciannove. Altro che sonnellino! Aveva dormito tre ore filate. Guardò fuori; l’uomo si era allontanato dall’auto ma era ancora là, in mezzo alla strada, e sembrava non avere nessuna intenzione di andarsene.
Le sue celluline grigie, per dirla alla Poirot, lentamente si attivarono; si trovava in un luogo isolato, il cellulare inutilizzabile, l’auto in panne. Situazione perfetta per una rapina, o peggio. Sarebbe finito un’altra volta sulla pagina della cronaca, ma questa volta lui non avrebbe potuto leggere la notizia.
Osservò l’uomo: stava fumando tranquillamente; ne vedeva il profilo. Quanti anni poteva avere? Trenta, quaranta? azzardò. Forse anche meno, gli abiti che indossava potevano essere fuorvianti. Avrebbe atteso ancora qualche minuto, dopo di che sarebbe sceso e gli avrebbe consegnato i contanti che aveva. Se avesse avuto l’intenzione di ucciderlo l’avrebbe già fatto, pensò. Ergo, era una questione di denaro; il famoso pizzo. Frugò nella tasca del borsone dove teneva la busta con i soldi per le emergenze. E quella era una superemergenza!
Aprì la portiera e si diresse a passo deciso verso la figura che se ne stava appoggiata al muretto, in attesa.
«Ecco, qui dentro c’è tutto quello che ho» esordì in tono di sfida, allungando la busta verso l’uomo che guardò prima la busta poi lo fissò dritto negli occhi. L’iniziale incredulità si trasformò in un sorriso beffardo.
«Su, la prenda» insistette, sventolandogliela davanti al viso. «Sono duemila euro» precisò. L’uomo non si mosse.
«Non voglio i vostri soldi» disse pacato.
«Cosa vuole, allora? L’auto? Non è nemmeno mia! L’ho affittata all’aeroporto e mi hanno pure fregato. Cosa crede, che mi sia fermato qui per fare un pic-nic? Sono bloccato! ‘Sta stronza non va più avanti!» sbraitò esasperato.
«Venite dal nord, vero?» domandò l’uomo serafico.
«Sì, vengo dal nord, da Milano, e allora?» replicò inviperito.
«Voi del nord siete convinti che i siciliani siano tutti mafiosi» disse, ma senza acredine. «Tranne il commissario Montalbano» concluse, con un sorriso.
Stava per replicare che sì, proprio quello pensavano, ma qualcosa nello sguardo dell’uomo gli fece cambiare idea e se ne restò lì impalato e muto, con la busta a penzoloni.
«Mi fareste l’onore di essere mio ospite?» domandò lo sconosciuto, cogliendolo di sorpresa. «Abito laggiù» proseguì, indicando un punto tra gli alberi. Di notte i cinghiali escono dai boschi, è pericoloso per voi restare qui» aggiunse.
“Sì, i cinghiali a due zampe e con la lupara in spalla” pensò. Invece disse: «Vi ringrazio, ma non vorrei disturbare.»
«Diciamo, invece, che non vi fidate» lo contraddisse, ridendo. «Guardate troppe fiction su al nord.» Per un lungo momento rimase a fissare il volto ridente dell’uomo. Non c’era traccia di cattiveria in lui; il suo sguardo era limpido, sincero.
«Allora, venite?»
Razionalmente non avrebbe seguito quello sconosciuto, ma decise, contro la sua natura, di seguire l’istinto. «Certo, andiamo» rispose convinto. «Prendo la borsa.»
Si avviarono lungo un sentiero che si addentrava nel folto del bosco. L’aria profumava di pulito e, per quanto lontani, l’odore del mare arrivava fin lì portato dal vento. Camminavano in silenzio; ogni tanto si sentiva il grido di un uccello, lo scricchiolio di un ramo caduto che veniva pestato. Quel posto a lui estraneo, lontano anni luce dal suo vissuto, avrebbe dovuto incutergli una certa apprensione, invece si sentiva rilassato, sereno, in pace. Chiuse gli occhi, assaporando il piacere di quella sensazione e mirò in pieno una pozzanghera. «Porca … » imprecò. Le sue belle scarpe nuove e l’orlo dei pantaloni grondavano acqua fangosa.
«Vi siete fatto male?» domandò il suo compagno, fermandosi.
«No, ma le scarpe sono da buttare e i calzoni sono tutti inzaccherati!» brontolò; ma l’altro aveva già ripreso il cammino. Si tolse le scarpe e accelerò il passo per raggiungerlo.
«A proposito, io mi chiamo Mathias» disse, ricordandosi che nemmeno si era presentato.
«Lo so.»
«Come fa a saperlo?» domandò sospettoso.
«È scritto lì, sul cartellino della vostra borsa» rispose, indicando l’etichetta.
«Io mi chiamo Salvo» disse. «Come il commissario Montalbano» aggiunse.
Intanto erano arrivati davanti ad un cancello aperto su un giardino minuscolo ma incantevole nei colori e nei profumi esaltati dalla pioggia. Una siepe di gelsomini lo separava da un edificio dall’architettura vagamente arabeggiante. Prima di salire i pochi gradini che portavano all’ingresso, Salvo si tolse l’impermeabile e il cappello da cui esplose letteralmente una massa di riccioli neri e lucenti che arrivava fino alle spalle. Sfilò gli stivali e li pulì diligentemente dal fango, versandoci sopra l’acqua da un vecchio innaffiatoio di metallo, come quelli che si trovano solo più nei mercatini. Anche lui si lavò i piedi inzaccherati, posò le scarpe in un angolo, sperando che una volta asciutte riprendessero la loro forma originale –con quel che gli erano costate- e lo seguì all’interno. L’ambiente non era grande, l’arredamento sobrio, avvolto in una rassicurante semioscurità. Vi regnava un’atmosfera irreale, quasi magica. Le sagome dei mobili e delle suppellettili parevano galleggiare incorporee nell’aria. Si arrestò lì, sulla soglia, immobile, quasi temesse che un movimento o un rumore potessero spezzare l’incantesimo.
La voce di Salvo che lo invitava ad entrare lo riportò alla realtà. Nemmeno si era accorto che, nel frattempo, aveva posato sul tavolo un tagliere con fette di pane e formaggio. «Non tengo vino» si scusò, posando una brocca d’acqua sul tavolo.
«L’acqua va benissimo, non bevo alcolici» lo rassicurò Mathias. «Non più» aggiunse, in un inspiegabile impeto di sincerità, ma con i muscoli contratti, lo sguardo aggressivo, se solo avesse scorto nel suo ospite un accenno di disprezzo, o peggio, di pietà. Ma no, non c’erano né biasimo né compassione negli occhi di Salvo, solo una serena, paziente comprensione.
«Prendete» lo invitò, indicandogli il pane e formaggio e servendosi a sua volta. Mangiarono in silenzio.
«Non serve fuggire» disse all’improvviso Salvo, facendolo sobbalzare.
«Mi spiace, ma non riesco a seguirla … » mentì, arrossendo suo malgrado.
«Comprendo la vostra reticenza, ma voi sapete bene di cosa sto parlando.» Salvo scosse il capo. «Forse sto correndo un po’ troppo. Ma, credete a me, non è così che troverete la pace che cercate, nemmeno se andaste in capo al mondo» proseguì.
Mathias avvampò: «Non ho niente da dirle. A lei poi, appena conosco il suo nome. E non so nemmeno se Salvo è proprio il suo di nome!» replicò in tono bellicoso.
«Sì, è il mio nome» rispose l’altro pacato. «Non siete tenuto a dirmi alcunché, se non volete.»
Nella stanza ormai avvolta nel buio il bianco chiarore della luna illuminava la corvina cascata di riccioli come fosse un’aureola. Fissando il volto dai lineamenti eleganti, notò alcune cicatrici intorno al naso e alla bocca. Pensò potessero essere segni di percosse. Distolse lo sguardo, imbarazzato. Ma quella luce intorno ai suoi capelli!
“Chi sei?” si chiese. Salvo gli rivolse un sorriso triste. Mathias chiuse gli occhi e si passò una mano sulla fronte imperlata di sudore freddo. Era come avere nella testa uno sciame d’api che ronzava tanto forte da impedirgli di sentire perfino il proprio respiro. I minuti passavano; quanti non avrebbe mai saputo dirlo. Quando riaprì gli occhi, Salvo era ancora seduto di fronte a lui, ma la luce era scomparsa. Se l’era solo immaginata? Era stata un’allucinazione?
«Vi sentite meglio?» domandò. Mathias annuì, versandosi un bicchier d’acqua che bevve tutto d’un fiato. Lanciò un’occhiata alla stanza, come se cercasse un posto dove nascondersi. poi si schiarì la voce nervosamente.
«Non è facile» iniziò.
«No, non lo è» confermò Salvo.
«È vero, sto scappando. Scappo da una casa deserta e dall’ipocrita pietà delle persone, dai loro sorrisini ambigui, da quelli che fino al giorno prima ti salutavano con pacche sulle spalle e ora, se ti vedono da lontano, cambiano strada.» Fece una pausa, poi riprese: « Dopo … l’incidente, il solo modo per non soffrire era bere. L’alcol è la novocaina della mente, sa, ma quando l’effetto svanisce il dolore torna e l’unico rimedio è scolarsi un’altra bottiglia. Dopo ogni sbronza mi svegliavo tremante, con i nervi a fior di pelle ed un orribile sapore in bocca. Mi guardavo allo specchio e non riconoscevo quel volto spiritato, con la barba non rasata e le occhiaie scure. Puzzavo come un sacco della spazzatura, mi sentivo un sacco di spazzatura. Una notte, dietro il bidone dove ero andato a rovesciare le bottiglie vuote, trovai un gattino. Tremava di freddo e non aveva neanche più la forza di miagolare. L’ho preso e l’ho portato a casa. Nel frigo, dietro le bottiglie, trovai un cartone di latte che nemmeno ricordavo di avere; ne scaldai un po’ e lo misi in un piattino. Ma il micio era ancora troppo piccolo per mangiare da solo. Allora mi ricordai che mia nonna usava un contagocce per allattare i coniglietti. Ne scovai uno nell’armadietto dei medicinali e lo usai per dargli da mangiare. Goccia a goccia gli feci bere tutto il latte, finché non si addormentò, ed io con lui, per la prima volta da settimane senza l’aiuto dell’alcol. Non ho più toccato alcolici da quella sera. Mi imposi di restare sobrio per essere in grado di dargli il latte regolarmente. Quel micio è stata la mia salvezza. Mi è dispiaciuto lasciarlo a casa, ma la mia vicina si prende cura di lui. Praticamente lo adora. Mi ci volle una settimana per mettere ordine e ripulire casa. Dovevo ‘tornare alla normalità’. Così si espresse il mio capo, quando mi telefonò per chiedermi quando sarei rientrato in azienda. Il pensiero di tornare al lavoro mi ripugnava, ma non avevo scelta. La notizia dell’accaduto era stata riportata su tutti i giornali e ormai tutti conoscevano la verità.»
«Cioè che l’uomo che era stato aggredito era il vostro compagno» affermò Salvo. Mathias restò pietrificato, quasi incapace di respirare. Piantò i gomiti sul tavolo e si sporse in avanti. Aveva le guance arrossate e gli occhi splendevano di lacrime trattenute. La prima domanda che gli si formò nella mente fu “Chi diavolo sei?”, ma domandò «Come fa a saperlo?»
«La vostra foto era su tutti i giornali; vi ho riconosciuto subito» replicò Salvo tranquillamente. «Le persone che amiamo muoiono, non possiamo fare altro che accettarlo» riprese.
«Ma io ero là, e non ho fatto niente per aiutarlo!» gridò, battendo il pugno contro il tavolo.
«Non avreste potuto fare niente; quei delinquenti erano armati, avrebbero ammazzato anche voi» replicò Salvo, mantenendo un tono pacato.
Mathias si premette le tempie con le dita, come se cercasse di controllare due eserciti che combattevano nella sua testa. A Salvo sembrò quasi di vedere i ricordi passare davanti agli occhi dell’uomo.
«Sarebbe stato meglio» mormorò lugubre. «Li avessi almeno visti in faccia; li avrei cercati fino in capo al mondo, se necessario, e poi li avrei uccisi con le mie mani» si sfogò.
«Credete che vendicando la morte del vostro compagno smettereste di soffrire?» domandò Salvo. «Non c’è modo di non soffrire; pensare di venire a patti con il dolore è un’illusione. E poi voi non sareste capace di uccidere.»
«Questo lo dice lei!» rispose Mathias, inalberandosi. Sputò fuori le parole come se fossero veleno. Teneva le dita strettamente intrecciate, le nocche bianche come un osso.
«No, lo dicono i vostri occhi. Voi siete addolorato, arrabbiato, ma non siete cattivo; e per ammazzare bisogna essere cattivi. Voi dovete andare avanti; per onorare la memoria del vostro compagno dovete continuare a vivere.»
«Vivere» gli fece eco Mathias con voce arrochita dal dolore.
«Parlatemi di lui» disse Salvo, alzandosi per andare a prendere la brocca del caffè che si stava riscaldando sulla stufa.
Mathias lo fulminò con lo sguardo; aveva la sensazione di sprofondare tutte le volte che riviveva il suo passato. Come poteva chiedergli di parlargli di lui? Cosa voleva sapere di lui? Salvo versò il caffè nei bicchieri, si sedette e iniziò a sorseggiare il proprio in silenziosa attesa. Anche Mathias prese il suo bicchiere, anzi vi si aggrappò. Salvo riusciva a vedere la sua paura farsi più profonda; colse lo sgomento nei suoi occhi. Nella postura dell’uomo intuiva ancora una certa collera, poi l’espressione cupa del suo viso lentamente mutò; chinò la testa pensieroso. Continuava ad apparire titubante, ma infine annuì, ingollando il caffè in un solo sorso.
«Di recente litigavamo un po’ troppo spesso» iniziò. La sua voce era tesa, ma calda. «Lui voleva rendere pubblica la nostra storia; diceva che era ora che tutti, parenti, amici, colleghi sapessero che eravamo una coppia, che vivevamo insieme. Che lo accettassero o no era un loro problema, non nostro, diceva. Ma io tergiversavo, non ero sicuro che fosse una mossa saggia sbandierare ai quattro venti la nostra relazione. Perché non lasciare le cose come stavano? Che differenza faceva? Ma lui percepiva la mia reticenza come un affronto e così litigavamo. Anche quella maledetta sera avevamo litigato. Lui era uscito di casa sbattendo la porta, accusandomi di essere un vigliacco. Sapevo che sarebbe andato nel parco a camminare per schiarirsi le idee e sarebbe tornato una volta sbollita la rabbia. Ma quando dopo un’ora non l’ho visto arrivare ho cominciato a preoccuparmi e sono uscito a cercarlo. Quando sono arrivato nel parco l’ho visto che correva lungo il viale e l’ho chiamato, ma lui non si è fermato. Allora mi sono messo a correre anch’io per raggiungerlo. All’improvviso, dal buio sono saltati fuori quei quattro che lo hanno circondato e hanno cominciato a insultarlo e a spintonarlo. Mi sono fermato, paralizzato. Non riuscivo a muovermi.» La mente di Mathias era un turbinio di immagini che andavano e venivano. Prese il bicchiere del caffè ormai vuoto e lo strinse tra le mani. Salvo gli versò dell’altro caffè, ormai tiepido, e Mathias lo bevve avidamente. Poi proseguì: «Solo quando sentii l’urlo di Sebastian sono corso da lui, ma quelli erano già fuggiti via. Era steso a terra e si teneva la mano premuta sul petto. Ho cercato di spostarla e ho visto il sangue che usciva dalla ferita. Ho chiamato il 118 col cellulare. Lo tenevo tra le braccia, gli parlavo, gli chiedevo di non lasciarmi, gli promisi che avremmo detto al mondo quanto ci amavamo appena fosse guarito. Lui mi guardava, i suoi occhi, i suoi incredibili occhi verdi, mi chiedevano di aiutarlo, ma io non potevo fare niente … niente, se non tenerlo stretto a me e intanto il sangue continuava a uscire e il suo respiro era diventato un rantolo. Quando arrivò l’ambulanza, la maglietta bianca che indossava era completamente rossa. È morto prima di arrivare in ospedale. Poi c’è stata l’inchiesta e tutta la pubblicità che ne è seguita. Io ho avuto la vita stravolta e quei bastardi sono liberi, impuniti!»
Salvo si alzò. La sua andatura e i suoi movimenti rivelavano una coordinazione muscolare perfetta, quasi soprannaturale. Mathias si strinse a lui il più possibile, in uno di quegli abbracci in cui si ha la sensazione di volersi fondere l’uno nell’altro. Non era attrazione sessuale, ma il bisogno fisico di aggrapparsi a qualcosa quando si ha l’impressione che tutto stia andando a rotoli. Si aggrappò a Salvo, affondando il viso tra la sua spalla e il suo collo, respirando il profumo della sua pelle. Senza chiedergli nulla, Salvo continuò ad abbracciarlo forte.
Si staccò da lui e fece scorrere la mano sul suo braccio; gli strinse lievemente la mano e gli accarezzò il polso.
«Una carezza è bastata ad accelerarti le pulsazioni» mormorò Salvo.
«E allora?» replicò Mathias sulla difensiva. «Non penserai di avere una relazione con me, o di entrare a far parte della mia vita.»
Salvo gli lasciò la mano e lo fissò negli occhi, con un sorriso enigmatico e tornò a sedersi dall’altra parte del tavolo.
«L’ego maschile può essere molto fragile; talvolta quelli che rimangono feriti più facilmente e che maggiormente faticano a guarire sono proprio i tipi più tosti.»
«Che vuoi dire?» domandò Mathias, scrutandolo diffidente.
«Voglio dire che l’amore può indurre un uomo a interrogarsi sulle proprie scelte e le proprie azioni. L’amore spinge l’uomo a migliorarsi …»
«Ma il mio amore è morto, morto ammazzato da quei bastardi» urlò Mathias.
«No, amico mio, il tuo amore è vivo, dentro di te è vivo.»
Mathias frugò dentro di sé, nei suoi sentimenti, nei suoi pensieri, senza riuscire a comprendere quell’assenza di rimorso e di dolore.
Le prime luci dell’alba rischiaravano il cielo a oriente.
«Ti riaccompagno alla macchina» disse Salvo, avviandosi verso la porta.
«Ma non parte … » gli ricordò Mathias. Salvo scrollò le spalle e uscì. A Mathias non restò che seguirlo.
I rami intrecciati degli alberi che fiancheggiavano il sentiero creavano un tunnel. L’effetto era quello di una navata di una cattedrale naturale. Dalle poche aperture in quella volta si vedeva la luce sempre più viva del sole nascente. Piccoli animali scappavano al loro passaggio. Oltre al fruscio dei loro passi sul’erba bagnata si percepiva solo un debole cinguettio. Da una chiesa in lontananza giungeva il suono delle campane.
Si salutarono con una stretta di mano; non un arrivederci, non un abbraccio, solo una calorosa stretta di mano.
Mathias salì in auto e mise in moto. Il motore si avviò immediatamente e, seguendo le indicazioni di Salvo, raggiunse il bed and breakfast in meno di mezz’ora.
Malgrado l’aspetto poco attraente della facciata dell’edificio, la stanza che gli assegnarono era fresca e moderna. Le pareti erano bianche con una leggera sfumatura di grigio, i mobili erano moderni: divani bassi, un televisore a schermo piatto e un lettore DVD, un futon, comodini bassi con modernissime abat-jours. Nonostante le finestre dai vetri opachi, quella stanza dava un senso di ariosa luminosità, un’energia positiva. Lanciò gli infradito che Salvo gli aveva dato in mezzo alla stanza e si buttò sul divano. Si sentiva esausto, privo di forze e cominciò a fare dei pensieri deliranti. Il viso di Sebastian gli sorrideva. Si conoscevano dal tempo del liceo. La loro amicizia era cominciata tra le versioni di greco e di latino e col tempo si era trasformata in qualcosa di più profondo. All’inizio ne erano rimasti sconvolti, poi avevano vissuto la loro relazione con la consapevolezza che il loro era vero amore che andava coltivato e vissuto intensamente giorno per giorno. Pensò a tutti i giorni e alle serate che avevano passato insieme a chiacchierare di musica, di libri, a confidarsi i loro problemi quotidiani. Pensò alle cose che si erano detti, ai gesti affettuosi, alle sfuriate di Sebastian, violente e improvvise come un temporale estivo, al suo modo infantile di chiedere scusa, al modo in cui facevano l’amore. Sapeva in cuor suo che non sarebbe mai più tornato, ma c’era una parte di lui che si rifiutava di crederci e così, un paio di volte all’anno, andava da un sensitivo per cercare di mettersi in contatto con lui, ben sapendo che il ‘mago’ gli raccontava delle frottole per giustificare i cinquanta euro che gli spillava. Poi, senza alcun preavviso, al volto di Sebastian si sovrappose quello di Salvo. Gli passò le dita tra i riccioli scuri. Afferrò la sua mano e se la portò alle labbra, le baciò il palmo e il polso senza staccare gli occhi dal suo viso. L’intelligenza e la saggezza dei suoi occhi lo commossero e lo riempirono di coraggio e lo liberarono dall’oscurità. Quando riaprì gli occhi, era solo nella stanza. Era anchilosato, la testa pesante. Si alzò e si stirò, sbadigliando fino a far scricchiolare le mascelle. Un pensiero continuava a tormentarlo, rifiutandosi però di salire in superficie. Ed era ancora lì quando andò sotto il getto tiepido della doccia.
Con addosso un accappatoio e i capelli ancora umidi, aprì la porta del bagno e si trovò davanti Salvo.
«Non sarà facile» esordì. «Buon Natale»
Erano seduti in un angolino appartato nella saletta interna di un bar a Mondello davanti a un piatto di panelle. Dalla vetrata si vedeva il cielo di un azzurro intenso, con sparute nuvole che sembravano pezzi di stoffa stracciati e buttati qua e là. Si sentiva il rumore della risacca. Mathias versò dell’altra coca-cola sui cubetti di ghiaccio e sollevò il bicchiere.
«Auguri» disse. «La vita deva andare avanti.»
«Fa ancora tanto male?» domandò Salvo con affettuosa sollecitudine.
«Certe volte un po’ meno, altre un po’ di più. Devo imparare ad andare avanti senza di lui. Ma sono quasi certo che la vita abbia in riserbo ancora tante cose belle e finché resterò attaccato al passato, rischio di perderle, non credi?» rispose, consapevole del significato intrinseco delle parole che aveva appena pronunciato. Lui era bellissimo. I capelli lucidi e splendenti gli cadevano sulle spalle. Indossava una giacca scamosciata molto elegante, una polo beige, pantaloni di lino naturale e un paio di Nike bianche. Si sentì l’uomo più fortunato della terra. Salvo gli sorrise e sollevò il bicchiere. Era splendido. Trovava incantevoli i suoi occhi, i suoi capelli, la fossetta sul mento, il suo corpo snello, la sua pelle abbronzata che profumava di sole e di mare.
Salvo, fece un cenno al cameriere che arrivò reggendo uno scatolone. «È il mio regalo di Natale» disse. «Aprilo». Mathias, commosso e confuso sciolse il nastro. Come sollevò il coperchio, una nera massa di pelo gli saltò in braccio leccandogli la faccia e miagolando tutto il suo disappunto per essere stato rinchiuso per tanto tempo.
«Grazie» sussurrò Mathias, accarezzando la mano di Salvo abbandonata sul tavolino.
«Buon Natale!» disse Salvo, rivolto a tutti i clienti e, abbracciati, lasciarono il locale, liberi di vivere secondo il proprio codice morale nella generosa e ridente Terra del Sole.
Maria Lacchio
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