Ripensando agli ultimi mesi della vicenda politica italiana, riteniamo che sarebbe stato logico anzitutto complimentarsi calorosamente con il presidente Giuseppe Conte, un inedito della politica che tuttavia è riuscito subito a mettersi come si deve nei panni di capo di un Governo che pur nasceva in modo ambiguo, ha conseguito senz’altro il debito prestigio negli incalzanti rapporti esteri, e si è adeguato con disinvoltura al tran tran di azione cui costringono i troppi guai, pregressi e improvvisi del paese. Ma alle congratulazioni è venuta spesso la voglia di aggiungere delle accorate avvertenze, proprio per la simpatia che egli ha suscitato, per cui lo si voleva meno ingolfato e contrastato nella morsa dei due suoi mallevadori, Cinque stelle e Lega. E intanto perché un suo fallimento, visto la mancanza di plausibili alternative, poteva, e potrebbe, comportare uno stallo istituzionale devastante. Non per nulla il presidente Mattarella ha fatto e fa di tutto per mantenere in piedi questo governo nonostante le diverse e frequenti inceppature critiche.
Tra le avvertenze ci sarebbe stata quella fondamentale di ammonire i due leader Salvini e Di Maio a non scavalcare di continuo il Presidente del Consiglio, e che la politica non si fa a forza di dichiarazioni, sparate a gara, tassative e preventive sui problemi di ogni tipo, oltre ogni competenza, e tali che non possano prevedere i passi indietro e le rinunzie ragionate, perché invece la politica è arte del possibile, cioè del compromesso necessario e costruttivo. E non ce n’è altra, né sarebbe cosa civile se oltretutto non fosse adeguata al linguaggio garbato della civiltà del dialogo, che non è quello della piazza. Essere propositivi e decisi, nel linguaggio e nell’azione, salvando sempre il confronto e il rispetto dell’altro, non dovrebbe significare ostentare un populismo sfasciatutto che in genere produce applausi provvisori. Qualcuno potrebbe ricordare a qualcuno che si vanta di populismo, che ci fu già nella storia un caso cui viene di pensare: quello di Cola di Rienzo (1357) che, osannato dalla plebe in nome della giustizia, portato pure al potere, finì poi ammazzato a furor di plebe. Tempi lontani ma di confusione politica, come i nostri.
Oltre a ciò sarebbe stato opportuno chiedere ai protagonisti qualche passo in più fuori dall’ambiguità per dare credibilità al governo: non è infatti comprensibile proclamarsi paladini del nuovo, come Salvini, rimanendo però per alcun verso legati al vecchio Berlusconi, con ciò dimostrando che la politica la si fa ancora più per interessi di partito che per necessità del paese; e non è conducente parlare di svolta epocale, come fa Di Maio, senza offrire strumenti culturali o ideologici che non siano generici slogan contro il passato e la corruzione. Giacché la vera consapevolezza politica sta poi nel tenere conto che le svolte storiche accadono dopo forti spinte verso il nuovo, vogliono diversa intraprendenza di uomini e spesso costano lacrime e sangue.
Tuttavia, quanto fin qui si è visto e quanto sta ora accadendo in questi giorni in cui i poteri finanziari reagiscono ad un possibile scuotersi dalla loro oppressione, val la pena riflettere su quanto caratterizza i tempi che attraversiamo, su quel che sta al fondo della realtà storica, di cui qualsiasi governo riteniamo incolpevole, e di cui forse non si tiene conto abbastanza.
Ebbene, sono due i fattori che agiscono invisibilmente a rendere precario ogni andamento della politica, particolarmente in Europa: la crisi della globalizzazione come idea progressiva; la crisi della democrazia come principio di prosperità dei popoli. E quello che è il problema dell’immigrazione invadente ed urtante non sarebbe che la causa occasionale dietro la quale i fattori di crisi si sono andati sempre più evidenziando.
Infatti si è scoperto che la globalizzazione si è in fondo risolta nell’incremento dell’affarismo di minoranze in possesso della ricchezza, specie finanziaria, e che ha sì influenzato positivamente una certa crescita dei paesi sottosviluppati, ma che ha costretto quelli europei ad un’affannosa rincorsa di parametri economici non omogeneamente sostenibili. Dal che la conflittualità latente o manifesta tra gli stessi stati che invece dicevano e ancora dicono, falsamente, di volere conseguire un’unità.
L’idea poi che la democrazia sia il miglior sistema di governo è smentita dalla storia, ove risulta invece evidente che il meglio è sempre venuto dal dispotismo illuminato. E che, specie allorché gravi accadimenti si fanno incontrollabili e mettono in forse l’ordine civico (è quanto, ad esempio, oggi sono considerate le tratte incontrollabili di migranti) può accadere che si voglia il governo energico. Del resto è utile storia quella di Roma ove, a fronte di gravi situazioni, si davano pieni poteri a due consoli perché provvedessero loro ad evitare i danni: Videant consules ne quid res publica detrimenti capiat”. Naturalmente detto questo, non significa che ormai è senz’altro meglio abolire la democrazia, ma non è male rendersi conto che i regimi democratici occidentali, fondati su criteri liberali ormai usurati, con continue votazioni per spartizione di poteri, divenuti ricettacolo di sordidi personalismi di partito, insufficienti a dare risposte alle esigenze della gente, richiedono revisione e sostanziali riforme. Ed è questa una cosa di cui mai si discute mentre, ed è assai grave, su di essa purtroppo tace del tutto la cultura. Gl’intellettuali, gli scrittori, che una volta erano voce essenziale nei dibattiti del tempo, oggi non si sentono, non hanno più nulla da dire, oppure forse non più esistono. Il che fa tanta tristezza.
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