Capitolo settimo
“Faceva il bilancio consuntivo della sua vita, voleva raggranellare fuori dall’immenso mucchio di cenere delle passività le pagliuzze d’oro dei momenti felici. Eccoli. Due settimane prima del suo matrimonio, sei settimane dopo; mezz’ora in occasione della nascita di Paolo, quando sentì l’orgoglio di aver prolungato di un rametto l’albero di casa Salina (l’orgoglio era abusivo, lo sapeva adesso, ma la fierezza vi era stata davvero), alcune conversazioni con Giovanni prima che questi scomparisse (alcuni monologhi, per essere veritieri, durante i quali aveva creduto scoprire nel ragazzo un animo simile al suo); molte ore di osservatorio, assorte nell’astrazione dei calcoli e nell’insegnamento dell’irraggiungibile. Ma queste ore potevano davvero essere collocate nell’attivo della vita? Non erano forse un’elargizione anticipata delle beatitudini mortuarie? Non importava, c’erano state.
Nella strada di sotto, fra l’albergo e il mare, un organetto si fermò, e suonava nell’avida speranza di commuovere i forestieri che in quella stagione non c’erano. Macinava Tu che a Dio spiegasti l’ali. Quel che rimaneva di don Fabrizio pensò a quanto fiele venisse in quel momento mescolato a tante agonie, in Italia, da queste musiche meccaniche. Tancredi col suo intuito corse al balcone, buttò giù una moneta, fece segno di tacere. Il silenzio fuori si richiuse, il fragore dentro ingigantì.
Tancredi. Certo, molto dell’attivo proveniva da Tancredi: la sua comprensione tanto più preziosa in quanto ironica, il godimento estetico nel vederlo destreggiarsi fra le difficoltà della vita, l’affettuosità beffarda come si conviene che sia. Dopo, i cani: Fufi, la grossa Mops della sua infanzia, Tom l’irruento barbone confidente ed amico, gli occhi mansueti di Svelto, la balordaggine deliziosa di Bendicò, le zampe carezzevoli di Pop, il pointer che in questo momento lo cercava sotto i cespugli e le poltrone della villa e che non lo avrebbe più ritrovato; qualche cavallo, questi già più distanti ed estranei.
Vi erano le prime ore dei suoi ritorni a Donnafugata, il senso della tradizione e di perennità espresso in pietra e in acqua, il tempo congelato; lo scoppiettare allegro di alcune caccie, il massacro affettuoso delle lepri e delle pernici, alcune risate di Tumeo, alcuni minuti di compunzione al convento fra l’odore di muffa e di confetture.
Vi era altro? Sì, vi era altro: ma erano già pepite miste alla terra: i momenti soddisfatti nei quali aveva dato risposte taglienti agli sciocchi, la contentezza provata quando si era accorto che nella bellezza e nel carattere di Concetta si perpetuava una vera Salina; qualche momento di foga amorosa; la sorpresa nel ricevere la lettera di Arago che spontaneamente si congratulava per la esattezza dei difficili calcoli relativi alla cometa di Huxley. E perché no?
L’esaltazione pubblica quando ricevette la medaglia alla Sorbona, la sensazione delicata di alcune finissime sete da cravatta, l’odore di alcuni cuoi macerati, l’aspetto ridente, l’aspetto voluttuoso di alcune donne incontrate nella strada, quella intravista ancora ieri alla stazione di Catania, mescolata alla folla col suo vestito marrone da viaggio e i guanti di camoscio, che era sembrata cercare il suo volto disfatto dal di fuori dello scompartimento insudiciato. Che gridìo di folla. 'Panini gravidi!' '“Il Corriere dell’isola'. E poi quell’anfanare del treno stanco senza fiato… E quell’atroce sole all’arrivo, quelle facce mendaci, l’eromper via delle cateratte…
Nell’ombra che saliva si provò a contare per quanto tempo avesse in realtà vissuto. Il suo cervello non dipanava più il semplice calcolo: tre mesi, venti giorni, un totale di sei mesi, sei per otto ottantaquattro… quarantottomila… √840.000. Si riprese. 'Ho settantatrè anni, all’ingrosso ne avrò vissuto, veramente vissuto, un totale di due… tre… al massimo'. E i dolori, la noia, quanti erano stati? Inutile sforzarsi a contare: tutto il resto: settant’anni.”
Tomasi Di Lampedusa
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