Amo il dialetto, l’ho utilizzato spesso in un mio romanzo. Ed evidentemente il dialetto ama me. Se è vero, ed è vero, che mi ha fatto un dono molto gradito e inaspettato, si diverte anche con le sorprese: il libro Chi nnicchi-nnacchi?, sottotitolo Detti di casa mia e non solo, edito da Margana. Di primo acchito, non bado all’autore, sono attratto solo dal titolo. Errore grave, gravissimo! Che, per fortuna, riparo subito, insospettito dal nome di chi lo ha scritto: la contessa Rosemarie Tasca d’Almerita. E perché una nobildonna ama il dialetto al punto da elevarlo a protagonista assoluto della sua opera? Sarebbe il caso di dire, appunto: chi nnicchi-nnacchi? Per due validi motivi. Il primo: il forte legame affettivo con il padre Don Giuseppe. Commenta Gaetano Basile: “Quello che avete tra le mani non è un libro come tutti gli altri. È soltanto il delicato atto d’amore di una figlia per il proprio padre, affidato per emotivo pudore alle divertenti illustrazioni di Gabriella Saladino. Ironicamente irriverenti e perciò intelligenti”. Il secondo: l’amore nei confronti delle tradizioni siciliane. Scrive Salvatore Nicosia: “Tale doveva essere l’abitudine del padre di Rosemarie Tasca, che la figlia ha voluto ricordare in questo libretto attraverso alcune espressioni e modi di dire che gli erano propri, attinti dal dialetto”. Quindi l’amore che si manifesta attraverso la penna dell’Autrice. Ed è sempre l’amore, questa volta rivolto alla terra e all’agricoltura, che svolge un ruolo importante nella vita della contessa. Tasca d’Almerita è infatti sinonimo, in tutto il mondo e a giusta ragione, di viticoltura, di vini pregiatissimi. La nobildonna, che ha sposato nel 1961 il Conte Antonello Ruffo di Calabria, fratello della regina Paola del Belgio, è stata per molti anni a Roma. Tuttavia, il legame con la Sicilia non è facile da recidere. E, infatti, è tornata. Vive tra Palermo e Regaleali, Vallelunga Pratameno.
Ho letto con molto piacere il suo libro, di tanto in tanto con un po’ di nostalgia nei confronti di coloro che adoperavano costantemente molti dei detti riportati nel testo. A cominciare proprio da chi nnicchi-nnacchi? Che non può essere tradotto, può bastare soltanto il tipico gesto della mano destra. Tuttavia, come evidenziato dall’Autrice: “Si dice rivolgendosi a qualcuno che s’intromette in una conversazione a sproposito: >Tu che c’entri, che ne sai, cosa dici, cosa c’entra con quello che stiamo dicendo?<”. E poi: “Ognunu saluta cu cappeddu chi avi”, “Curnutu e vastuniatu”, “Cu nasci tunnu un po’ mòriri quadratu”, “Accàttiti u parra-picca” e tanti altri. Pagina 57, lascio la parola alla contessa, che spiega “Butto aragoste”: “Sono distrutto dalla stanchezza. Mio padre aveva coniato questa espressione particolare quando qualcuno era così stanco da non capire più niente, da non capire cosa facesse o dicesse. La frase nasceva da una storia effettivamente accaduta, in vacanza alle isole Eolie negli anni ’50”. Quale? Non posso privare il lettore del piacere di scoprire. Un libro che ho apprezzato molto, anche per i disegni di Gabriella Saladino. E che svolgerà un ruolo notevole nell’esaltare le tradizioni siciliane. Molti, infatti, checché se ne dica, sono attratti, addirittura affascinati dal nostro dialetto. Lo so con certezza: lettori veneti, liguri, lombardi o piemontesi dei miei libri hanno espresso pareri favorevoli in tal senso. Chi nnicchi-nnacchi sarà, ne sono certo, apprezzato anche nelle regioni settentrionali del nostro Paese. Complimenti all’Autrice. Ad maiora!
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